«In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio
amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di
Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri,
l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci
anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria
completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie
non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri». Riprendiamo da
qui il viaggio nella zona dei Grandi Laghi
africani, nel Kivu, un non-luogo le cui
risorse arricchiscono un mondo già ricco e predatorio, e
dove milizie e rivalità si spartiscono il territorio ai danni di una
popolazione sempre più povera la cui identità è smarrita e spesso dimenticata.
Il quadro storico e quello dei traffici: guerre
mondiali e per procura
La
Repubblica democratica del Congo (RdC) è un non-lieux. Un
non-luogo che non trova pace, attraversato da conflitti aspri o a bassa
intensità, snaturato dalle pressioni da oltreconfine di una nazione devastata e
irriconoscibile per gli smarriti autoctoni; nella definizione di Marc
Augé “non-luogo”
è quello che non riesce a essere identitario (non
contrassegna univocamente l’identità di chi lo abita), relazionale (non c’è comune appartenenza nei
rapporti tra tutti i soggetti della regione), storico (le
singole comunità non si riconducono a comuni radici). Nessuno, fino a ora, è
riuscito a dare in sessant’anni una speranza a oltre 84
milioni di abitanti di un paese ridotto a supermercato di risorse da
taccheggiare. Anche se le elezioni del 2019, con la vittoria di Felix
Tshisekedi, figlio dell’oppositore storico di Mobutu Sese Seko e di Kabila
padre, hanno portato il Congo Kinshasa verso una parvenza di stabilità,
l’oggetto del contendere rimane, ovvero il paese stesso. Ciò che il suo
sottosuolo contiene: tutto quello che il mondo libero desidera.
Non a caso
quelle aree sono ricche di risorse minerarie, cambiano nome, affiliazione, ma
l’obiettivo è sempre quello: coltan, diamanti, oro, legname,
petrolio… e per impossessarsene si è combattuta una guerra che l’ex
segretario di stato americano Madeleine Albright definì la “Guerra
mondiale africana” (1996-2004). Sul terreno si sono dispiegati gli
eserciti di Angola, Burundi, Namibia, Ruanda, Uganda e Zimbabwe; si sono
contesi pezzi di territorio e le aeree di più intenso conflitto corrispondevano
a quelle più ricche di risorse naturali.
Da quella
guerra che vide combattersi 8 eserciti nazionali e 21 milizie sono nate decine
di formazioni di guerriglieri al soldo di quelle stesse nazioni o di altre più
lontane; nell’area ora si confrontano oltre venti gruppi etnici con propri
miliziani che operano tuttora in tutto il paese e in particolare nel Kivu e nel
Nordest del paese, continuando a contendersi quella spartizione
bellica. Guerre di
mercenari per procura, che proseguono (ciascuno cambiando nazioni di
riferimento in base al prezzo) quel conflitto panafricano che ha provocato più
di 4 milioni di morti, la maggior parte per fame e non per armi da fuoco. Il
paese è arretrato di 100 anni: alla fine della guerra la popolazione non aveva
nulla e così le ong hanno cominciato a ripristinare, innanzitutto, dispensari e
ospedali, ma nessuno vi accedeva: la gente si vergognava ad andare in ospedale
perché non aveva di che coprirsi, i vestiti erano un lusso.
Invece paesi
come l’Uganda sono diventati improvvisamente esportatori di oro. Il Ruanda del
preziosissimo coltan, che si trova solo in Congo nella regione del Kivu dove si muovono milizie e faccendieri
spregiudicati che lo trasportano oltre confine e il Pil di Kigali cresce a
dismisura.
Per
riportare la “pace” è stata istituita una missione dell’Onu composta da oltre
17.000 uomini, Monusco è il tentativo di
stabilizzazione di una regione più grande e impegnativo mai messo in campo
dalle Nazioni Unite. Oggi la missione è ancora al suo posto (i suoi budget
stratosferici di più di un miliardo all’anno fanno parte del sistema economico
del Kivu), la guerra non è finita e la pace lontana: spariti gli eserciti
stranieri, sono rimasti i guerriglieri che infestano il territorio, lo rendono
insicuro e si battono per lobby economiche e politiche, persino di potenze
regionali interessate alle risorse.
Contrabbando e saccheggio
Questo paese
è un non-lieux. Come per la corsa all’oro, le aree dei
ritrovamenti diventano la meta di disperati in cerca di fortuna. Ma non solo.
Sono la meta delle multinazionali, degli stati di mezzo mondo che vogliono
approfittare delle risorse del Congo.
«Il
requisito principale di un non-luogo non è attribuibile a un generico elenco di
luoghi progettati, ma dipende dalla percezione collettiva, che gli utenti hanno
di quel determinato contesto spaziale» (Paolo
Campanella, 2006), perciò riconduciamo quella definizione se non a tutta la repubblica
congolese, almeno alla regione del Kivu, una zona di razzia; il luogo delle
guerre fratricide, vendute come tribali, ma combattute proprio per le risorse
minerarie.
In Rdc si
trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro,
zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio e
petrolio. Materie prime che fanno gola a mezzo mondo.
La
Repubblica democratica del Congo è lo stato più ricco di risorse naturali
dell’Africa, gli oltre 84 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere,
solo se i suoi governanti investissero le royalties ricavate dalle estrazioni
minerarie nel paese. Invece no: l’economia del paese è tradizionalmente
orientata alle esportazioni, fortemente dipendente dalle commodities primarie.
I diamanti hanno sostituito rame e cobalto come principale
voce delle esportazioni (un terzo del contrabbando della zona dei Grandi
Laghi): il cobalto finisce tutto nelle
mani dei cinesi; i diamanti, oltre 22
milioni di carati, sono nelle mani delle multinazionali; il coltan – estratto praticamente solo in Congo –
prezioso per l’industria della telefonia mobile e per quella aerospaziale, è
gestito dal Ruanda. Il Congo possiede la seconda foresta pluviale al mondo, da
cui si ricava legname pregiato. L’autosufficienza
alimentare in molte aree del paese è un miraggio. Le terre coltivate
rappresentano solo il 4 per cento del totale, nonostante il 75 per cento della
popolazione attiva si occupi di agricoltura, per lo più di sussistenza; il Pil
pro-capite è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di
sviluppo umano è 0,433 che colloca la Repubblica democratica del Congo al 176°
posto al mondo. E la stragrande maggioranza della popolazione vive con
meno di 2 dollari al giorno.
La “fluidità” delle milizie abita territori porosi
Secondo il
Gec (Gruppo di studio sul Congo), almeno 125 gruppi armati sono censiti nelle
regioni orientali del Nord Kivu e del Sud Kivu, teatro da oltre 20 anni di
quello che è stato definito da più fonti un “lento genocidio”, la
metà dei quali è tutt’ora in attività.
Nella
regione orientale della Repubblica democratica del Congo si muovono decine di
milizie. Difficile tracciarne una mappa. La loro ragion d’essere è la fluidità, cambiare “padrone”, seguire gli affari
economici e, dunque, concentrarsi sulle risorse minerarie e lì mettere in atto
la loro azione di controllo e gestione del territorio. Storicamente nell’area
agiscono i miliziani Mayi Mayi –
storica formazione nata tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila
come sorta di autodifesa dalle truppe ruandesi che per alcuni anni hanno
occupato quell’area – sono tornati a essere molto attivi nella regione.
I Mayi Mayi,
tuttavia, sono semplicemente un nome, infatti comprendono milizie guidate dai
signori della guerra, dagli anziani delle tribù, dai capi villaggio, da
faccendieri economici. I gruppi hanno perso anche la loro aura mistica: un
tempo combattevano solo con il machete forti del potere che gli derivava
dall’acqua che li proteggeva dalle pallottole. Quell’epoca è finita. E agli
inizi degli anni Duemila dalla loro lotta di “autodifesa” dei villaggi sono
passati alla difesa del territorio contro l’occupazione ruandese. Occupazione
che Kigali ha sempre negato, evidente nei primi anni Duemila proprio nell’area
di Goma. L’esempio più eclatante della presenza ruandese e del controllo del
territorio era che il prefisso telefonico internazionale per chiamare quelle
zone era quello del Ruanda. Un abitante di Kinshasa, la capitale della
Repubblica democratica del Congo, per parlare con un parente di Goma doveva
comporre il prefisso internazionale del confinante Ruanda e viceversa.
Quell’occupazione, giustificata da Kigali con il pretesto della lotta contro le
milizie hutu responsabili del genocidio fuggite nel Kivu, si è presto
trasformata in un’azione predatoria nei confronti delle risorse della regione,
in particolare il coltan di cui Kigali è diventato esportatore. La milizia dei
Mayi Mayi si è presto trasformata, data la sua fluidità, in una lobby d’affari
armata, partecipando alla cosiddetta “guerra del coltan”. Da mesi il gruppo ha
ripreso vigore nella regione. Ai Mayi Mayi è stata attribuita la responsabilità
di 82 attacchi, che hanno provocato 81 morti.
Nel Nordest
della Repubblica democratica del Congo è stato attivo anche il famigerato
movimento, il Lord’s Resistence Army (Lra), esercito di resistenza del Signore, guidato dal
famigerato Joseph Koni, che ha fatto della religione la motivazione della sua
lotta. Il movimento nato in Uganda si è presto trasformato in gruppo
terroristico e ha allargato il suo raggio di azione sconfinando, tra gli altri
paesi, nel vicino Congo e le motivazioni religiose sono scomparse. L’Lra ha
rapito e costretto più di 60.000 bambini a combattere nelle sue fila. La
ferocia di Koni ha trasceso ogni ragione politica e religiosa della sua lotta.
Questo movimento, tuttavia, ha ridotto le sue attività, ma non è scomparso.
L’Lra è rimasto acefalo per l’incriminazione all’Aia del suo capo e si è diviso
in cellule al soldo del miglior offerente.
Gli eredi del genocidio: l’influenza ruandese
In tutto
questo disordine e povertà non poteva mancare la penetrazione del terrorismo
islamista. I jihadisti vivono di disordine e povertà (forse meno di religione):
il loro brodo di coltura. È nato, infatti, l’Islam State Central Africa
Province, una sorta di emanazione del Califfato del defunto al-Baghdadi. Ed è
proprio nel Nordest della Repubblica democratica del Congo che avvengono la
maggior parte degli attentati; svariati gruppi volta per volta li rivendicano,
ma la maggior parte di queste azioni criminali sono attribuite al gruppo nato
in Uganda e di ispirazione salafita, Allied democratic Forces (Afd). Guidata
da Jamil Mukulu, un ex cattolico convertito all’islam, è considerata vicina al
movimento sunnita Tablighi Jamat e secondo molte fonti ufficiali è legata
all’Isis e alle reti del terrorismo internazionale. Gli attacchi messi in atto
da questo gruppo dall’ottobre scorso sono più di una decina e hanno provocato
10 morti, evidenziando l’espansione del terrorismo islamico nella regione dei
Grandi Laghi. Azioni che hanno come obiettivo le ricchezze minerarie. Queste
milizie, che hanno ripreso vigore proprio grazie alla sua affiliazione
all’Isis, sono diventate una sorta di attore “parastatale” creando scuole,
ospedali e riscuotendo le tasse. Ma gli introiti maggiori arrivano dal
commercio illegale dell’oro e del legno. L’Adf, tuttavia, è molto attento a non
entrare in conflitto con i Mayi Mayi e con il Fronte democratico di liberazione
del Ruanda.
Ma da dove
nasce l’Adf?
Prima guerra africana
Il Fronte democratico di liberazione del Ruanda è
nato nel 2000, dopo aver assorbito l’Esercito di liberazione del Ruanda (ALiR), gruppo armato costituito per lo più da ex
militari delle Forze armate ruandesi (Far), che
difendevano l’ideologia dell’Hutu Power, sconfitte durante il genocidio del
1994 contro i tutsi e gli hutu moderati, che portò al potere il tutsi
Kagame. A luglio 1994, dopo l’ascesa al potere di Kagame, l’Esercito
patriottico del Ruanda ha sostituito le Far, un gran numero di esponenti del
quale ha attraversato il confine, scappando in Congo dove si erano rifugiati
decine di migliaia di cittadini hutu. Dal 1995 al 1996 le ex Far si sono
riorganizzate per formare l’Esercito di liberazione del Ruanda, il cui
obiettivo era quello di riprendere il potere a Kigali, lanciando incursioni in
territorio ruandese dalle sue basi congolesi. Per arginare questi ribelli hutu,
il presidente Kagame ha fornito armi e fatto addestrare delle milizie
tutsi banyamulenge che gravitano nella provincia del Sud
Kivu.
In modo
concertato con l’Uganda queste milizie si sono amalgamate con militari
dell’esercito ruandese e ugandese, formando un movimento ribelle al soldo di
Kagame, l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo
(Afdl), diretta da un gruppo di oppositori all’allora presidente
congolese, il dittatore Mobutu.
In un gioco
complesso di alleanze incrociate, i due movimenti ribelli ruandesi – quello
hutu e quello tutsi – seminarono terrore nel confinante Congo a partire dal
1997, con l’Afdl impegnato in una guerra di invasione delle province orientali
dell’ex Zaire, scatenando la Prima guerra del Congo e portando al potere nel
mese di luglio 1997 il suo portavoce Laurent Désiré Kabila, autoproclamatosi
presidente e ribattezzando il paese in Repubblica democratica del Congo.
Seconda guerra africana
I tutsi
ruandesi, alleati con il nuovo presidente, si trovarono in una posizione di
forza, spingendo 300.000 rifugiati ruandesi a fuggire in altre regioni del
Congo e altre migliaia a fare ritorno in Ruanda. Fu allora che l’Esercito di
liberazione del Ruanda (hutu) si rese responsabile del massacro di altre
migliaia di civili in una controffensiva nell’Est della Rdc, anche nel Parco
nazionale del Virunga, e nel Nord del Ruanda.
Nel 1998 in
Rdc scoppiò la Seconda guerra africana, dopo che il presidente Kabila
aveva chiesto ai soldati ruandesi e ugandesi, suoi alleati, di uscire dal
territorio nazionale, ma questi ultimi crearono un nuovo movimento ribelle,
il Raggruppamento congolese per la Democrazia (Rcd) per
ribaltare il potere di Kinshasa. Per difendersi Kabila strinse un accordo
militare con gli hutu ruandesi dell’ALiR, rifornendoli di armi e munizioni, che
alla stregua di altri gruppi armati rivali si resero protagonisti di gravi
crimini contro l’umanità sia nell’Est della Rdc che in Ruanda e persino in
Uganda.
Dopo
l’assassinio del presidente Kabila, il 18 gennaio 2001, e la successione del
figlio Joseph, l’ALiR ha consolidato la sua alleanza con l’organizzazione hutu
ruandese delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda – basata a
Kinshasa, la capitale –, che lo ha progressivamente assorbito. Le Fdlr sono l’emanazione
del Comitato di coordinamento della resistenza, un gruppo di esiliati ruandesi
hutu, dissidenti dell’Esercito di liberazione del Ruanda, che hanno dato vita
al nuovo gruppo nel maggio 2000.
Le guerre,
anche a bassa intensità, che si combattono nella regione del Kivu, servono alle
varie milizie presenti sul territorio proprio per impadronirsi dei giacimenti
di coltan e quindi poter esercitare il monopolio dell’estrazione, (utilizzando
manodopera minorile, veri e propri schiavi che muoiono di fatica e malattie
portate dal contatto con questo minerale) contrabbandare il minerale nei paesi
vicini – come il Ruanda che è diventato uno dei maggiori esportatori, pur non
avendone dei giacimenti, per poi venderlo alle industrie produttrici di
componenti elettronici. Lo sfruttamento incontrollato di questa risorsa
congolese ha costretto l’Onu ad accusare, in un rapporto del 2002, le compagnie
impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del Congo – quindi anche il
coltan – di favorire indirettamente i conflitti civili nell’area.
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