A cinque anni dall’Accordo di Parigi sul clima, il supporto della finanza globale al settore del carbone non è affatto diminuito e, ad oggi, ammonta a più di mille miliardi di dollari. È quanto emerge dalla ricerca pubblicata oggi da Urgewald, Re:Common e altre 27 Ong internazionali, la prima in assoluto che tenta di analizzare l’esposizione di banche commerciali e investitori nei confronti dell’industria del carbone (https://coalexit.org/finance-data).
La ricerca, aggiornata a gennaio 2021, esamina i flussi finanziari
destinati alle 934 società del settore del carbone presenti sulla Global Coal Exit
List.
Parzialmente in controtendenza i dati sulla finanza italiana: l’esposizione
al carbone dei principali attori quali UniCredit, Assicurazioni Generali e
Intesa Sanpaolo inizia a diminuire, dopo aver toccato il suo apice nel 2019. La
posizione di avanguardia spetta a UniCredit che, di recente, ha deciso di
adottare una politica che entro il 2028 dovrebbe progressivamente azzerare
qualsiasi finanziamento a progetti e società coinvolte nel business del
carbone.
Generali prosegue nel suo disinvestimento dall’industria carbonifera, sulla
scia degli impegni presi nel 2018. Una fuoriuscita dal settore che procede
tuttavia troppo a rilento, perché gli investimenti nel settore ammontano ancora
a più di 200 milioni di dollari, di cui il 10% in ČEZ e PGE, società che stanno
ostacolando la transizione energetica rispettivamente in Repubblica Ceca e
Polonia.
Nonostante la ricerca si focalizzi solamente sugli investimenti, bisogna
anche tenere in considerazione i contratti assicurativi ancora in
essere stipulati dal Leone di Trieste con le due società, che aggravano
ulteriormente la sua posizione.
Sorprendentemente, tra il 2019 e il 2020 Intesa Sanpaolo ha diminuito i
prestiti al carbone di circa il 70%, nonostante una delle policy settoriali
più deboli in Europa. Un risultato importante, ottenuto grazie alla pressione
esercitata nell’ultimo anno da Greenpeace e Re:Common. «È ora che Intesa
sostenga questi passi con l’adozione di una policy sul carbone
robusta come quella di UniCredit», commenta Re:Common. «È l’unica maniera per
evitare che il sostegno al carbone torni a crescere in futuro, e anzi
diminuisca costantemente fino ad azzerarsi entro il 2030».
Se la Conferenza sul clima di Glasgow del 2020 si fosse tenuta regolarmente
– è stata rinviata al 2021 per l’emergenza pandemica – avrebbe visto la finanza
globale tra i principali imputati per la crisi climatica in corso.
Il 17% degli oltre mille miliardi investiti è imputabile ai colossi statunitensi
Vanguard e BlackRock e, tra azioni e bond, gli Stati Uniti pesano per più della
metà degli investimenti globali, circa 602 miliardi di dollari.
Anche le banche commerciali non hanno fatto certo di meglio e nel
biennio successivo al report IPCC del 2018 hanno erogato 315 miliardi
di dollari all’industria del carbone. In prima fila tre istituti di credito
giapponesi: Mizuho (22 mld), Sumitomo Mitsui (21 mld), Mistubishi UFJ (18 mld).
È sperabile che quest’anno il settore si faccia trovare più preparato
all’appuntamento con la CoP Clima di novembre che si terrà a Glasgow, ma di cui
l’Italia – che ospiterà a Milano la CoP Giovani e una riunione
intersessionale a settembre/ottobre – ha la copresidenza.
Inoltre, appena una settimana prima della CoP, a Roma si terrà la riunione
del G20 a presidenza italiana.
«Nell’anno della COP26, co-presieduta dall’Italia, e del G20 di Roma, la
finanza italiana non può tirarsi indietro e deve dare un chiaro segnale. Gli
occhi del mondo saranno puntati sul nostro Paese in materia di clima, ambiente
e transizione ecologica», commenta Greenpeace Italia.
Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con Re:Common
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