La pratica del greenwashing rappresenta ancora uno dei principali
ostacoli alla transizione ecologica: è stato ed è usato da molte aziende
che vogliono nascondere le loro attività ambientalmente dannose - soprattutto
quelle legate ai combustibili fossili - sotto uno strato di apparente e quindi
solo superficiale sostenibilità.
Gli esordi del greenwashing
Il greenwashing rappresenta la pratica aziendale di mostrarsi attenti alla
sostenibilità per nascondere un discutibile impegno per la salvaguardia
ambientale. L’articolo «The troubling evolution of corporate greenwashing» del quotidiano
britannico The Guardian ne ripercorre alcune tappe mettendone
in luce gli aspetti più torbidi.
Negli anni Sessanta, il movimento antinucleare metteva in dubbio l’affidabilità
delle centrali nucleari, la loro sicurezza e il loro apparentemente basso
impatto ambientale. Il colosso americano Westinghouse, e in particolare la
sua divisione nucleare, ribatteva con una serie di annunci che proclamavano la
pulizia e la sicurezza delle centrali nucleari, avvalendosi di immagini
evocative come quella di una centrale nucleare adagiata sulla riva di un lago
incontaminato. Alcune delle affermazioni degli spot erano vere: nel 1969, le
centrali nucleari della Westinghouse producevano grandi quantità di elettricità
a basso costo con un inquinamento atmosferico molto inferiore rispetto alle
centrali a carbone concorrenti. Tuttavia le pubblicità sembravano ignorare che
solo qualche anno prima si erano verificati due episodi di meltdown
nucleare: uno interessò la centrale SL-1 in Idaho nel 1961 e il secondo la centrale Fermi 1 in Michigan nel 1966. Gli annunci della
Westinghouse tralasciavano anche le preoccupazioni sull'impatto ambientale
delle scorie nucleari, che continuano a essere un problema.
Si potrebbe pensare che le cose nel tempo siano migliorate, ma nel 2013,
in mezzo alle preoccupazioni per la disoccupazione e per la sostenibilità
energetica, la Westinghouse ha lanciato un nuovo spot. «Lo sapevate che l'energia nucleare è la più grande
fonte di energia per l'aria pulita del mondo?», ha chiesto agli spettatori poco
prima di affermare che le sue centrali nucleari «forniscono aria più pulita,
creano posti di lavoro e aiutano a sostenere le comunità in cui operano».
Anche in questo caso l’azienda sembrava sperasse nella breve memoria dei
consumatori. Solo due anni prima, infatti, la Westinghouse era stata citata
dalla U.S. Nuclear
Regulatory Commission – agenzia indipendente che ha lo
scopo di garantire l'uso sicuro dei materiali radioattivi per scopi civili benefici
– per aver nascosto delle falle nei progetti dei suoi reattori e aver
fornito informazioni false alle autorità di controllo. Inoltre, nel
febbraio 2016, un altro impianto che utilizza i reattori della Westinghouse,
l'Indian Point di New York, ha rilasciato materiale radioattivo nelle acque
sotterranee dell'area circostante. Un articolo del The Guardian sulla vicenda riporta che in una
località colpita i livelli di radioattività erano aumentati di quasi il
65.000%, passando da 12.300 pCi/L (picocurie per litro) a oltre 8.000.000
pCi/L. Il livello massimo di contaminazione di trizio
nell'acqua potabile stabilito dall'Environmental Protection Agency (EPA) è di
20.000 pCi/L, anche se Entergy, la società proprietaria dell'impianto, ha
sottolineato che solo le acque sotterranee, e non l'acqua potabile, erano state
contaminate.
Un'altra tappa emblematica nella storia del greenwashing fu la campagna pubblicitaria lanciata dalla compagnia petrolifera Chevron a metà degli anni
’80. L’azienda commissionò una serie di costosi spot per convincere il pubblico
della sua attenzione verso l’ambiente: il titolo era «People Do». Uno spot in
particolare mostra un grizzly andare in letargo in una incontaminata grotta di
montagna, mentre la voce fuori campo racconta di come i loro dipendenti
avrebbero eseguito esplorazioni di petrolio nel sottosuolo, per poi provvedere
a ripristinare eventuali danni ambientali in tempo per il risveglio dell’orso.
Molti dei programmi ambientali che la Chevron ha promosso nelle sue
pubblicità, come in questo caso, erano stati in realtà imposti dalla legge.
Erano anche relativamente poco costosi se confrontati con il budget
pubblicitario della Chevron. L'attivista ambientale Joshua Karliner1 ha
stimato che, a esempio, la realizzazione della campagna di tutela delle
farfalle della Chevron richiedeva 5.000 dollari all'anno, mentre la produzione
e diffusione degli annunci pubblicitari per promuoverla costarono milioni di
dollari.
Inoltre, nel periodo in cui veniva lanciata la campagna «People Do», la
Chevron violava il Clean Air Act, il Clean Water Act, le leggi
federali che regolano le emissioni atmosferiche e gli scarichi di sostanze
inquinanti nelle acque degli Stati Uniti, in vigore rispettivamente dal 1970 e
1972, e rilasciava petrolio in rifugi dedicati alla fauna selvatica. Gli spot
tuttavia furono molto efficaci, come ricorda il Guardian,
tanto da vincere il premio pubblicitario Effie advertising award nel
1990, e successivamente essere utilizzati come caso di studio alla Harvard
Business School. Ma non passò molto prima che diventassero famosi anche tra gli
ambientalisti, che li proclamarono il gold standard del greenwashing.
Da dove nasce la parola Greenwashing
Il termine «greenwashing» è la sincrasi tra «green» e «washing»: una lavata
di verde, per nascondere con il marketing attività tutt’altro che sostenibili.
Ma quando e come nasce la parola «greenwashing»? Quando, nel 1983, Jay
Westerveld – ci ricorda il Guardian – ebbe per la
prima volta l’idea del termine greenwashing, non stava pensando
all'energia nucleare, ma agli asciugamani. Studente universitario in un
viaggio di ricerca a Samoa, si fermò alle Fiji per fare surf. Trovandosi
nell’immenso resort Beachcomber, vide un biglietto che chiedeva ai clienti di
ritirare i loro asciugamani. In sostanza diceva che gli oceani e le scogliere
sono una risorsa importante, e che il riutilizzo degli asciugamani ridurrebbe i
danni ecologici e finiva dicendo qualcosa del tipo: «Aiutateci ad aiutare il
nostro ambiente». Westerveld in realtà non alloggiava nel resort, ma in una
pensione modesta nelle vicinanze, e si era appena intrufolato per rubare degli
asciugamani puliti. Rimase colpito dall'ironia della nota: mentre sosteneva di
proteggere l'ecosistema dell'isola, infatti, il Beachcomber – che oggi si
definisce «la destinazione più ricercata del Pacifico meridionale» – si stava
espandendo.
Tre anni dopo, nel 1986, Westerveld stava scrivendo una tesina sul
multiculturalismo quando si ricordò della nota. Un suo compagno di corso che
lavorava per una rivista letteraria gli fece scrivere un saggio al riguardo e,
dato che la rivista aveva una grande affluenza di lettori nella vicina New York
City, non passò molto tempo prima che il termine prendesse piede nei media più
ampi. Il saggio di Westerveld uscì un anno dopo il lancio della campagna
«People Do», ma la Chevron non è stata l'unica azienda a cavalcare l’onda del
greenwashing.
Questi possono sembrare casi isolati, tuttavia oggi, come afferma Michela
Melis intervistata da Asia Moretti – Research Fellow presso GREEN (il Centre
for Geography, Resources, Environment, Energy and Networks della Bocconi) – «le
strategie di green marketing non sono più, come è capitato in passato, delle
strategie di nicchia che si rivolgono a dei segmenti di mercato molto specifici
e puntuali, ma stanno diventando sempre più pervasive, lo si vede soprattutto
nei mercati dei beni di largo consumo».
Il caso DuPont
Nel 1989 – come raccontava nel 1991 il The Multinational Monitor – l'azienda chimica DuPont presentò
le sue nuove petroliere a doppio scafo con una pubblicità che mostrava animali marini
battere le pinne e le ali sulle note dell'Inno alla Gioia di Beethoven.
Tuttavia, come ha sottolineato l’associazione non-profit Friends on
Earth nel suo rapporto «Hold the Applause», la società è stata la più
grande inquinatrice degli Stati Uniti. La decennale battaglia legale tra la
multinazionale DuPont e
l’avvocato Robert Bilott è descritta nell’articolo del New York Times
Magazine «The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmar», pubblicato nel gennaio
del 2016. La vicenda ha inizio nel 1998 quando l’avvocato valuta la condotta
dell’azienda dopo la richiesta di un contadino sicuro che questa stesse
contaminando i suoi terreni: dopo diverse ricerche, Bilott trova rimandi al
PFOA, un composto chimico allora sconosciuto anche all’EPA.
Si stima che tra il 1951 e il 2003 la DuPont abbia riversato quasi 7100
tonnellate di PFOA-C8 nei corsi d’acqua limitrofi al suo stabilimento
di Washington Works, fino a contaminare il vicino fiume Ohio. Grazie
al report compilato da Bilott e inviato al Dipartimento di giustizia di
Washington e all’EPA, nel 2005 l’ente ambientale multò la DuPont per
16,5 milioni di dollari – una cifra irrisoria rispetto al fatturato
annuale dell’azienda – per aver insabbiato i rischi legati allo smaltimento del
PFOA. Dopo la sentenza Bilott decide di non fermarsi e organizza una class
action collettiva che coinvolgesse tutte le almeno 100mila persone entrate in
contatto con l’acqua contaminata da PFOA.
Dopo 7 anni di ricerche nel dicembre del 2011 arrivano i risultati, i
ricercatori parlano di «probabili legami» tra il PFOA e l’insorgere di cancro
ai reni e ai testicoli, disfunzioni della tiroide, picchi del colesterolo e
ulcere intestinali. Quando il nesso è evidente, la DuPont cerca di limitare
i danni portando in tribunale uno alla volta gli oltre 3500 contenziosi
intentati nei suoi confronti. Dopo la vittoria di Bilott nei primi tre
contenziosi e i risarcimenti milionari imposti alla DuPont, nel 2017 l’azienda
chimica ha deciso di accettare la class action guidata dall’avvocato e di
accordarsi per una maxi multa da 671 milioni di dollari. Come si legge nel sito dell’AIRC, l’EPA «ha affermato che i dati oggi disponibili suggeriscono un possibile
legame causale tra PFOA (e altri composti simili) e il cancro; l’American
Conference of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH) ha classificato il
PFOA come cancerogeno confermato negli animali, con rilevanza ancora incerta
per gli esseri umani». Nel 2016, la stessa AIRC «ha classificato il PFOA nel
gruppo 2B, del quale fanno parte le sostanze possibilmente cancerogene per l’uomo».
Anche alla luce di questi accadimenti, dice Michela Melis, «il fenomeno del
greenwashing è sotto la lente dell'attenzione anche dalle istituzioni ed è
evidente che ci sia un interesse crescente a normare l'utilizzo di questi
termini, perché l'abuso e l’uso scorretto da parte delle aziende si traduce da
un lato nel danneggiamento dei competitor, e dall’altro in
un'informazione misleading sul mercato».
Una sanzione per ENI
La pubblicità ENI Diesel+, che ha circolato tra il 2016 al 2019, può essere
considerato il primo caso di greenwashing in Italia, sanzionato, il 15 gennaio
2020, con una multa da cinque milioni di euro. Sentenza
arrivata dopo una denuncia da parte di Legambiente, dal Movimento Difesa del Cittadino e da
Transport & Environment (T&E) ed erogata dall’Autorità Antitrust. Come
si legge nel comunicato stampa pubblicato il 15 gennaio 2020 dall’Autorità
Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), ENI è stata sanzionata «per la
diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli utilizzati
nella campagna promozionale che ha riguardato il carburante Eni Diesel+, sia
relativamente all’affermazione del positivo impatto ambientale connesso al suo
utilizzo, che alle asserite caratteristiche di tale carburante in termini di
risparmio dei consumi e di riduzioni delle emissioni gassose».
Il carburante in questione viene definito dalla multinazionale biodiesel o
anche semplicemente green diesel perché promette più attenzione all’ambiente e
una riduzione dei consumi e delle emissioni rispettivamente del 4% e del 40%.
Secondo l’AGCM «nei messaggi si utilizzavano in maniera suggestiva le qualifiche
“componente green” e “componente rinnovabile”, e altri claim di tutela
dell’ambiente, quali “aiuta a proteggere l’ambiente. E usandolo lo fai anche
tu, grazie a una significativa riduzione delle emissioni”, sebbene il prodotto
sia un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante e non
può essere considerato green». Questi green claim deriverebbero dalla presenza,
nella sua versione di biodiesel, di una componente di
HVO (Hydrotreated Vegetable Oil) che in questo caso provengono dall’olio di
palma grezzo. Oltre a questo, ENI giustificherebbe l’aumento del
prezzo di questo carburante del 10%, proprio perché sostenibile, bio e
rinnovabile.
L’Italia è, al momento, il secondo produttore in Europa di biodiesel da
olio di palma. Nel 2018 il 54% di questo olio è stato utilizzato proprio per
produrre questo tipo di carburante, utilizzato soprattutto per camion e auto.
La maggior parte dell’olio di palma sul mercato, deriva da piantagioni
dell’Indonesia e della Malesia, due Paesi in cui il tasso di deforestazione è
schizzato alle stelle negli ultimi dieci anni. È quindi da considerare come una
delle principali cause della distruzione di foreste pluviali e della perdita di
fauna selvatica. Nonostante le campagne e le petizioni di successo per ridurne
l’utilizzo nei prodotti alimentari, continua ad aumentare l’utilizzo di olio di
palma nei biodiesel. In un rapporto di Legambiente, intitolato «Enemy of the Planet», si
legge che «gli studi internazionali hanno dimostrato che il 30% delle nuove
coltivazioni di palma e l’8% di quelle di soia, utilizzati per la produzione di
biocombustibile poi importato nel nostro Paese per le bioraffinerie di ENI,
hanno comportato distruzione di foreste vergini, di brughiere e di praterie. Si
stima che un litro di olio di palma determini emissioni indirette di CO2 pari
al triplo dell’equivalente di petrolio e un litro di olio di soia il
doppio».
La Commissione europea ha quindi deciso di modificare i criteri di
sostenibilità dei biocarburanti di prima generazione con la Direttiva
Rinnovabili che prevede un congelamento della produzione di biodiesel
ai livelli del 2019, per il periodo 2021 – 2023, con l’obiettivo di abbandonare definitivamente l’utilizzo di olio di palma entro il 2030.
Generalizzando la vicenda di ENI, «se comunichi male ti esponi ad una serie
di rischi – ricorda Michela Melis – il primo è quello sanzionatorio, che
potrebbe anche tradursi in un esborso monetario non previsto che in alcuni casi
non impatta troppo sul bilancio dell'impresa; il secondo si porta dietro un
inevitabile danno d’immagine e reputazione che è molto più difficile da colmare.
A questo bisogna aggiungere che oggi, i consumatori, sono molto più attenti e
precisi nelle loro richieste alle aziende rispetto alle loro performance
ambientali».
L’Italia è tra i primi paesi al mondo a rendere obbligatorio l’insegnamento
annuale alcune ore di educazione allo sviluppo sostenibile. Risulta paradossale
che l’Associazione nazionale dei presidi abbia chiesto
proprio a ENI di formare i docenti, visto che il core business
dell’azienda rimangono ancora i combustibili fossili. Le prime a mobilitarsi
sono state le insegnanti di Teachers for Future (un gruppo che fa riferimento
ai Fridays for Future) che hanno dichiarato in una lettera che «come Teachers
for future Italia non possiamo che prendere le distanze da questa iniziativa
che coinvolge una delle grandi aziende mondiali che causano cambiamento
climatico e contaminazione del Pianeta attraverso l’estrazione senza limiti dei
combustibili fossili, che è già stata riconosciuta responsabile di immani
disastri ambientali, corruzione, sfruttamento dei Paesi poveri e che tenta di
dipingere di verde la sua anima nera attraverso costante e pressante attività
di greenwashing».
Solo nell’ultimo anno, ENI ha prodotto 1,9 milioni di barili di petrolio al
giorno e ha speso, nel 2019, 73 milioni di euro in pubblicità e attività di
comunicazione; secondo il rapporto Enemy of the Planet, «nel 2018 ha investito
solo 143 milioni di euro per investimenti tecnici in sviluppo di progetti
rinnovabili, economia circolare e digitalizzazione».
L’azionariato attivo
All'inizio degli anni Novanta, i consumatori erano consapevoli delle preoccupazioni in materia di
sostenibilità: i sondaggi hanno mostrato che la condotta ambientale delle
aziende ha influenzato la maggior parte degli acquisti dei consumatori.
Un sondaggio Nielsen del 2015 ha mostrato che il 66% dei
consumatori globali è disposto a pagare di più per prodotti sostenibili dal
punto di vista ambientale. Tra i millennial (ovvero le generazioni nate tra il
1981 e il 1996), questo numero salta al 72%. Molte aziende hanno adottato la
strategia della sensibilizzazione con lo scopo di coinvolgere i clienti nei
loro sforzi di sostenibilità, anche quando il loro modello di business
principale rimane insostenibile dal punto di vista ambientale.
Questo interesse per l'ambiente ha portato a una maggiore consapevolezza
del greenwashing; alla fine del decennio, la parola è entrata ufficialmente
nella lingua inglese con l'inserimento nel dizionario inglese di Oxford. Da
allora, la tendenza è solo aumentata. Grazie all’identificazione e alla
conoscenza del fenomeno, il consumatore ha aguzzato lo spirito critico e quando
nel 2010 la stessa Chevron ha proposto una nuova campagna pubblicitaria dal
titolo «We Agree», gli attivisti dell’associazione The Yes Man hanno
prontamente risposto. Per screditare la Chevron hanno creato una finta versione
della stessa campagna con tanto di sito internet e comunicato stampa, che i
giornalisti hanno prese per vere.
I consumatori hanno inoltre sviluppato strategie per riuscire a imporre
alle aziende il peso della loro opinione. In molti Paesi, infatti, è nata
una nuova forma d’intervento: l’azionariato attivo (o critico).
Grazie all’acquisto di azioni (anche in quantitativi simbolici), gli attivisti
hanno iniziato a intervenire alle assemblee annuali delle imprese come
azionisti, portando all’attenzione dei consigli di amministrazione di grandi
società multinazionali le controversie ambientali nelle quali sono coinvolte.
L’azionariato attivo ha già dato risultati significativi. Le grandi imprese,
molto spesso sorde alle proposte dei consumatori, delle campagne e dei movimenti,
sono generalmente più attente alle richieste provenienti dagli azionisti che,
in quanto «comproprietari», acquistano il diritto di partecipare alla vita
delle società e di ottenere risposte su questioni ambientali o sociali. «È
quello che ha fatto Follow This, un’organizzazione che invita
chiunque abbia a cuore l’ambiente ad aderire con una quota minima di 32 euro,
sufficiente per diventare azionista di Shell», si legge su Lifegate. Il colosso dell’energia ha
annunciato che si sarebbe impegnato a dimezzare la propria impronta di carbonio
entro il 2050, ma Follow This ha sottoposto a Shell una risoluzione per chiedere
obiettivi climatici più ambiziosi.
Il Greenwashing ha sicuramente cambiato forma nell’ultimo decennio, in
parallelo alla crescente consapevolezza del consumatore ma rimane un fenomeno
molto diffuso e che è bene conoscere per imparare a tutelarsi.
Bibliografia:
[1] Karliner J., The Corporate Planet,
Sierra Club Books, 2002
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