Poteva essere un attacco terroristico, o
un repentino cambio di gusti, ma alla fine è successo: un evento ha fatto
saltare il fragile castello di carte di un settore economico in equilibrio su
due gambe, una alla luce del sole e una sommersa.
«L’Italia ha il 50% dei beni culturali mondiali!»
«No no, almeno il 60%!»
«Ti sbagli, io sapevo il 70%!»
«No no, almeno il 60%!»
«Ti sbagli, io sapevo il 70%!»
Se vivi in Italia, questa sorta di asta culturale non ti suonerà affatto
nuova. Ciclicamente, nei media come nelle chiacchiere quotidiane, la
riproposizione di dati (?) a supporto di una pretesa supremazia mondiale del
nostro Paese su tutti gli altri, torna a farci visita. Spesso viene riproposta
in buona fede, ancora più spesso per mostrare la nostra indiscutibile
superiorità rispetto a tutto quanto non sia italiano, anche ante
litteram. Il passaggio successivo in genere è il seguente: se noi abbiamo
così tanti beni culturali, più di tutti gli altri paesi messi insieme,
significa che abbiamo una ricchezza che nessun altro ha o può vantare. Per cui,
che cos’è il nostro patrimonio culturale se non il nostro petrolio?
Il procedimento logico è semplice, immediato, intuitivo. Come
riassumevano Marta Fana e Davide Villani, è un
ragionamento che ha visto in Italia autorevoli interpreti, dall’economista
Luigi Zingales all’imprenditore Flavio Briatore, e che dovrebbe farci aprire
diverse riflessioni: è opportuno guardare a questo «patrimonio» come a una cash
machine, come si chiedevano su queste pagine gli attivisti di Mi riconosci?? Che rapporto abbiamo con l’arte e
con la storia? Oppure, quale modello di sviluppo stanno seguendo le città e
le aree a vocazione turistica? Cosa succede quando avviene la gentrificazione delle zone neo-cool e very picturesque?
Qual è la ricaduta economica, sociale e culturale che questi processi compiono
sugli abitanti di queste aree, spesso ritenuti non più desiderabili dai nuovi
proprietari dei quartieri?
Rispetto a tali quesiti, ne abbiamo uno che rimane spesso ai margini: come
si lavora nel settore del turismo? Una breve risposta, si può ottenere
ponendosi un’ulteriore domanda: se i beni culturali sono solo oggetti da
sfruttare, cosa accade alle persone?
Perché è vero, come penseranno in molti, che si tratta di un lavoro all’aria
aperta che si svolge in posti straordinari. Ma lavorare all’aria aperta a
febbraio e a luglio è meno piacevole che in primavera o in autunno. È
senz’altro vero che offre la possibilità di incontrare tante persone diverse e
di arricchirsi culturalmente e umanamente. Ma questa eterogeneità di incontri
può essere molto spiacevole, soprattutto in virtù del fatto che il
cliente ha sempre ragione, forse perché con il servizio compra anche il
diritto ad averne. E soprattutto, al di là di ogni aspetto positivo o negativo,
che ogni lavoro presenta, si tratta, appunto, di lavoro. E come tale dovrebbe
essere regolamentato secondo leggi e norme specifiche in grado di garantire una
tutela agli operatori del settore.
Intanto, di cosa parliamo quando parliamo di turismo? Secondo uno studio condotto nel 2018 dalla Banca d’Italia,
«alle attività turistiche sono direttamente riconducibili oltre il 5% del Pile
oltre il 6 per cento degli occupati del Paese». La cifra sale al 12% del Pil,
con un giro d’affari di 146 miliardi di euro, secondo la Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola
e Media Impresa (Cna). In ogni caso, si parla di un giro di
affari enorme, decine di migliaia di attività e imprese, milioni di posti di
lavoro, diretti o indiretti.
Non è chiaro però se queste stime riescano a tenere conto di tutto ciò che
è difficile rintracciare nelle fonti ufficiali, il cosiddetto sommerso che, in
questo caso, non riguarda solo il fisco ma anche le condizioni di lavoro:
lavori pagati a giornata; «stipendi» versati oltre la metà del mese successivo
a quello in cui sono state fornite le prestazioni; contratti con part-time
fittizi; ovviamente, per questi lavoratori a servizio delle vacanze altrui, le
ferie non sono pagate e quindi non sono chiamate tali ma riposo –
«la prossima settimana lui non c’è, riposa»; partite Iva aperte da
lavoratori a cui spetterebbe un contratto perché realmente subordinati, le cui
aziende non riescono a (o preferiscono non) sostenere il costo di tasse e
contributi; nessuna assicurazione per gli eventuali infortuni che possono
accadere svolgendo il proprio lavoro – e quindi se ti fai male, non devi solo
provvedere da solo alle tue cure, ma non guadagnerai nulla per tutto il periodo
della tua convalescenza (che, casualmente, durerà il minimo indispensabile,
normalmente meno di quanto consigliato dai medici).
A questi motivi vanno aggiunti due fattori che portano i lavoratori ad
accettare una reperibilità totale e incondizionata: non sai se il servizio a
cui rinunci oggi, sarà prenotato domani e non sai se quello che hai domani sarà
disdetto a ridosso dell’appuntamento e quindi non guadagnerai nulla; ma
soprattutto sai che dire di no significa subire la ripicca di finire in fondo
alla rubrica, per cui quel no può costarti giorni o settimane di riposo forzato.
Questo significa non poter programmare una visita medica, un appuntamento in un
ufficio, una giornata di svago. Ovviamente, il motivo può essere di salute, un
viaggio già prenotato, qualsiasi esigenza personale, ma la risposta sarà sempre
la stessa: non me ne frega un cazzo.
Il turismo è poi un settore stagionale, e anche se la stagione è abbastanza
lunga, il periodo di «riposo» invernale non è breve – nelle città d’arte va da
ottobre a febbraio, e in genere si riparte a marzo. Quest’anno però, già prima
della chiusura totale disposta dal Governo, il Coronavirus e la paura
internazionale che esso ha scatenato avevano spinto molti turisti ad annullare
i loro viaggi, disdire alloggi e tour, gettando tutto il settore nel panico –
non solo quelli che hanno visto diminuire drasticamente i propri introiti dal
giorno alla mattina, ma anche tutti gli altri, che già allora hanno capito che
non avrebbero più visto una lira fino a data da destinarsi.
La forma è stata (forse) imprevedibile, ma la sostanza è assai meno
sorprendente e inattesa. Poteva essere un attacco terroristico, o anche solo un
repentino cambiamento di gusti, ma alla fine è successo: un evento ha fatto
saltare il fragile castello di carte di un’economia arrangiata su una domanda
esterna volatile e volubile; e questo prevedibilmente, ma drammaticamente, ha
portato scompiglio in un sistema che si tiene in equilibrio su due gambe, una
alla luce del sole e una sommersa. Ovviamente, quella sommersa è poi annegata.
Se non fossi troppo occupato a capire come superare questo momento, mi verrebbe
da ridere ripensando a quando Zingales
suggeriva di non investire nelle biotecnologie e nella ricerca d’avanguardia per
attrezzarci a ricevere i milioni di cinesi e indiani che muoiono dalla voglia
di vedere Roma, Firenze e Venezia. Io mi sono attrezzato, ho preso due lauree e
ho dedicato ore di lavoro e passione malpagati, e ora me ne sto a casa
senza nemmeno bisogno delle ordinanze, e ancora senza l’ombra di una tutela.
Fortunatamente, quando ha deciso di risvegliarsi dal negazionismo, il governo del paese dove lui insegna ha trovato un’azienda
piemontese all’avanguardia nella diagnostica in cui
investire, e noi abbiamo ancora un produttore italiano di ventilatori polmonari su
cui contare.
Qui nel settore «petrolifero-turistico», le associazioni di categoria hanno
chiesto l’intervento del governo per aiutare le imprese e i lavoratori in
difficoltà, ma – riprendendo un’altra metafora anatomica usata pochi giorni fa da Simona
Baldanzi – in un settore che si basa in modo spropositato
sul sommerso, su subordinazione mascherata da lavoro autonomo e via dicendo, è
assai difficile che questi aiuti riescano a non fermarsi alla testa (dai datori
di lavoro ai pochi lavoratori inquadrati in posizioni tutelate) e arrivare alle
gambe e ai piedi costituiti dai senza tutele. Trasformando la crisi in
un’ennesima occasione per scatenare la guerra tra poveri.
«Sono vicina alle persone che sono un po’ disorientate, sono vicina alle
persone che stanno perdendo un lavoro o l’hanno perso. Immaginiamo
anche le persone, sembra brutto dirlo, ma quelli che stanno facendo
un lavoro in nero e che improvvisamente si sono trovati senza lavoro Forse
in pochi ci saremmo aspettati di sentire queste parole proferite da
un’esponente del mondo della politica. Virginia Raggi – sul cui operato come
sindaca di Roma non impiegheremo pleonastici commenti negativi – forse per
sbaglio, ha detto una cosa giusta: i più colpiti da questa crisi sono proprio i
lavoratori e le lavoratrici in nero. E lo sono per un motivo molto semplice:
questi lavoratori per lo Stato non esistono. Non è una metafora né
un’esagerazione: legalmente non esistono. Le loro prestazioni
non sono regolamentate o registrate, per cui non godono dei diritti dei
lavoratori subordinati, pure essendolo di fatto. Non si matura una pensione,
non si ha diritto alle ferie o alla malattia retribuite, non si può accedere
alla cassa integrazione e non si ha Tfr, tanto per citare alcuni di quei lacci
e lacciuoli che noi ci ostiniamo a chiamare diritti. Nei momenti di crisi, sono
i primi a perdere il lavoro, senza per questo avere diritto alla
disoccupazione. Pagare un affitto o le bollette, diventa immediatamente più
problematico, e siamo in molti a poterlo garantire.
Ovviamente la grancassa padronale non ha perso un attimo, trasformando la
dichiarazione di Virginia Raggi in una «gaffe», quasi copiando e incollando lo
stesso titolo: Il Messaggero, Il Giornale, Libero, Il Tempo, tutti
uniti nella condanna unanime a una frase che racconta una realtà che tutti
conoscono ma che decidono di non vedere, in barba alla «solidarietà» di cui
tanto si riempiono la bocca. Verrebbe da chiedersi se tra le grida disperate
delle Partite Iva spaventate dalla crisi che accusano il governo di
immobilismo, raccolte da quegli stessi giornali, non ci siano anche le voci di
qualcuno che fino a oggi si è servito di lavoratori in nero. Sicuramente,
nonostante il governo abbia da subito annunciato di lavorare a delle soluzioni
per loro, possiamo «consolarci» pensando che almeno loro potranno attingere dai
risparmi conservati non pagando le tasse e i contributi dovuti sui loro
«dipendenti». Alla salute, anche ‘sto giro lo offriamo noi. Non ci stiamo
ovviamente riferendo ai lavoratori subordinati costretti ad aprirla, perché di
contratti nel settore non è proprio aria, ma in un momento in cui le parole
della sindaca possono essere trasformate nel loro opposto è meglio precisare.
Ecco, è proprio in questi momenti che si capisce davvero l’importanza di
quelle tutele lavorative che ormai sono considerate un lusso gravoso dai datori
di lavoro e, troppo spesso, dagli stessi lavoratori come un diritto a cui non
accederanno mai, e per cui in fondo forse non vale nemmeno la pena lottare.
Finché tutto va bene, quando l’economia gira e tutti guadagnano, chi si fa
domande riguardo a ciò che gli spetterebbe può essere guardato con sospetto
dalle persone per cui lavora, e deriso, anche bonariamente, dai colleghi meno
attenti. Ma questo momento ci fa capire che i diritti non possono essere visti
come rari esemplari di un passato che non tornerà, o un vecchio retaggio non
più di moda. I diritti servono proprio come forma di tutela in tutti quei casi
in cui non puoi lavorare – che tu abbia preso un’influenza o che il mondo sia
afflitto da una pandemia.
Il Coronavirus ha colpito duramente l’economia italiana, ma il settore del
turismo – quel petrolio su cui avremmo dovuto basare i nostri destini – si è
proprio immobilizzato, né è facile immaginare quando potrà ripartire, come ha
già iniziato a raccontare Sarah Gainsforth su Fanpage.
I primi a pagare la «nuova» crisi sono quelli che già prima pagavano l’assenza
di diritti. Le risposte che, non proprio prontamente, il governo sta mettendo
in campo sul fronte dei lavoratori devono necessariamente partire da loro,
anche se non hanno la forza e l’organizzazione per mettere in campo gli scioperi grazie
ai quali nella grande industria si riesce a pretendere la chiusura. Per questo
è necessario, come rilanciato venerdì da Jacobin Italia, chiedere un reddito di quarantena. Noi
lavoratori dobbiamo però imparare la lezione: non possiamo limitarci a chiedere
che si salvi questo modello, per riprendere dal giorno dopo come prima. Chi non
sa stare sul mercato senza pagare i diritti minimi è meglio che chiuda, e lasci
spazio a imprese (magari pubbliche) che sappiano sfruttare questo «petrolio» in
modo sostenibile, per le città e per i lavoratori che le abitano.
E c’è anche qualcun’altro che ha qualcosa da imparare da questa situazione:
le istituzioni. La mancanza di tutele è così diffusa perché diffusa è la
consapevolezza che nessuno arriverà mai a fare un controllo. Purtroppo questa è
la realtà dei fatti. La mano invisibile del mercato del lavoro funziona ancora
meno di quella del mercato ufficiale, non si regolamenta da sé. Affrontare
questo aspetto è una necessità che non può essere rimandata oltre. Chi tiene le
persone a lavorare in nero, oltre a non rispettare i loro diritti, non
partecipa alle spese come dovrebbe perché evade le tasse e fa un danno a tutti
noi. Chissà che magari non possa essere un punto di partenza da cui iniziare
per andare a recuperare almeno una parte di quei fondi che consentirebbero a
tutti di vivere meglio. Magari quando arriverà la prossima pandemia, oltre a
non dover più scrivere di lavoro nero, potremmo non doverci preoccupare nemmeno
dei tagli alla sanità, di non avere abbastanza medici, infermieri, ricercatori,
posti letto, ventilatori polmonari, strutture, ospedali, ambulanze. Così, per
vedere che effetto che fa quando offrite voi.
*Vitangelo Moscarda, protagonista del famoso romanzo di Pirandello, è il
nome fittizio scelto da Uno dei Centomila lavoratori a nero del turismo, che
contano come Nessuno, almeno per ora.
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