Continua il racconto di un viaggio intorno al mondo che ho di
recente fatto con mio figlio.
Da Sydney a Uluru ci sono circa tre ore di volo. Sono seduta vicino al
finestrino e non riesco a smettere di guardare giù.
La sterminata distesa dell’outback scorre piatta, intatta e primordiale. La
superficie è una variabile, capricciosa mescolanza di diverse tonalità di
rosso, dal più pallido al più cupo, segnata dalle venature contorte dei torrenti
in secca e dalle macchie più scure degli arbusti.
Gli unici segni di presenza umana sono le rare, sottilissime tracce delle
piste di terra battuta che attraversano la distesa procedendo dritte e
perdendosi nell’orizzonte.
Uluru, il cuore dell’Australia, il monolite roccioso che è il luogo più
sacro per le popolazioni aborigene, si erge solo e imponente nel mezzo del
nulla, ancora più rosso di tutto quel rosso. È un inselberg, una montagna-isola. Le forme morbide lo
fanno somigliare a una creatura addormentata, gigantesca e arcaica.
I nomi dei luoghi
In realtà, la creatura se ne sta per la maggior parte sommersa sotto la crosta terrestre. Quella che vediamo è solo una delle sommità di un’enorme placca di arenaria che riemerge a 25 chilometri di distanza, con le 28 cupole tondeggianti di Kata Tjuta, ben visibili da Uluru, e poi a cento chilometri di distanza, con il monte Conner: enorme, bordi scoscesi e sommità piatta come una tavola.
In realtà, la creatura se ne sta per la maggior parte sommersa sotto la crosta terrestre. Quella che vediamo è solo una delle sommità di un’enorme placca di arenaria che riemerge a 25 chilometri di distanza, con le 28 cupole tondeggianti di Kata Tjuta, ben visibili da Uluru, e poi a cento chilometri di distanza, con il monte Conner: enorme, bordi scoscesi e sommità piatta come una tavola.
Stiamo andando verso il parco nazionale di Uluru-Kata Tjuta. Atterreremo
all’aeroporto di Ayers Rock, il nome occidentale attribuito alla configurazione
nella seconda metà dell’ottocento in onore dell’allora governatore della
regione.
I titoli di proprietà dei luoghi sono stati restituiti solo nel 1985 alla
comunità locale degli aborigeni anangu, che ora gestisce l’area in accordo con
il governo australiano. Il nome originale aborigeno della roccia è stato
recuperato nel 1993 come Ayers Rock/Uluru, e modificato nel 2002 in Uluru/Ayers
Rock.
Nei giorni seguenti dovremo attraversare un discreto pezzo di deserto, e
quindi abbiamo noleggiato un’auto. A mio figlio tocca cimentarsi per la prima
volta nella sua vita con la guida a destra ed è preoccupato, ma sarebbe ancora
più preoccupato se guidassi io: entrambi sappiamo che guidare non è il migliore
dei miei talenti. Mi chiede solo di aiutarlo a non prendere qualche svolta
contromano (in realtà, nel corso dell’intero viaggio succederà una volta sola,
in Nuova Zelanda, e per fortuna senza conseguenze).
In una bolla spazio-tempo
Arriviamo in tempo per andare a vedere Uluru al tramonto, quando il cielo diventa rosa e il massiccio si colora di porpora e viola. La temperatura scende bruscamente. C’è un tizio che suona il didgeridoo, lo strumento a fiato aborigeno costituito da un lungo tubo di legno di eucalipto. Ci avviciniamo, cercando di non fare troppo caso al gruppo che beve cattivo spumante da bicchieri di plastica e chiacchiera in attesa che il sole sparisca all’orizzonte. Il timbro del suono è profondo, il ritmo è ipnotico.
Arriviamo in tempo per andare a vedere Uluru al tramonto, quando il cielo diventa rosa e il massiccio si colora di porpora e viola. La temperatura scende bruscamente. C’è un tizio che suona il didgeridoo, lo strumento a fiato aborigeno costituito da un lungo tubo di legno di eucalipto. Ci avviciniamo, cercando di non fare troppo caso al gruppo che beve cattivo spumante da bicchieri di plastica e chiacchiera in attesa che il sole sparisca all’orizzonte. Il timbro del suono è profondo, il ritmo è ipnotico.
Il suonatore è bianco. Anche se in quest’area dell’Australia, il Northern
Territory, gli aborigeni rappresentano circa un terzo della popolazione, e
possiedono poco meno della metà delle terre, e anche se qui vicino c’è la comunità
dei pitjantjatjara, una delle più numerose sul territorio, a occuparsi dei
turisti sono essenzialmente i bianchi. Mi viene in mente più di una ragione per
cui le cose stanno in questo modo.
Vediamo solo un paio di persone aborigene al supermarket e un gruppo di
donne e bambini seduti quietamente, come se si trovassero in una bolla
spaziotemporale, nel mezzo di un prato davanti a una delle strutture ricettive
che si trovano poco distante da Uluru.
Entriamo nel parco di Uluru-Kata Tjuta la mattina presto. All’ingresso ci
sono un negozio che vende dipinti aborigeni (anche lì gli addetti sono bianchi)
e un piccolo, accurato museo dove si narrano i miti e le storie delle creature
ancestrali che nel dreamtime, il
tempo dei sogni, su Uluru hanno lasciato i segni del proprio passaggio.
Per fortuna quasi tutti i visitatori restano ammucchiati vicino
all’ingresso, o nell’area da dove si può partire per scalare il massiccio
seguendo un percorso guidato da corde di metallo. Gli aborigeni chiamano minga tjuṯa (formiche) i
turisti che violano Uluru, e non è esattamente un apprezzamento.
Alla partenza del percorso, un gruppo di cartelli accostati uno all’altro
dice tre cose contraddittorie. È l’ennesimo indizio dell’ambivalenza nei
confronti di tutto ciò che riguarda le comunità aborigene.
Primo messaggio: noi, gli anangu, proprietari tradizionali di questi
luoghi, ti chiediamo di non scalare Uluru, perché secondo la legge tradizionale
questo è proibito. Per favore, giraci attorno.
Secondo messaggio: durante l’ascensione, segui i percorsi tracciati,
osserva le seguenti norme di sicurezza e non rischiare la vita (seguono norme).
Terzo messaggio: questo luogo è stato promosso come luogo da scalare a
partire dagli anni quaranta. Tour organizzati seguono le tracce dei primi
esploratori e piantano bandiere sulla cima: un atto di conquista che genera
forti sentimenti di orgoglio e possesso. Ma, cari amici, che ne direste di
cambiare prospettiva e farvi, invece, un giro?
Le ascensioni su Uluru sono state ufficialmente proibite nell’ottobre 2019,
ed era ora.
Anche se è fine agosto e c’è ancora un sacco di gente che arranca lungo le
pareti lisce, mio figlio e io scegliamo di seguire il sentiero che si snoda
attorno a Uluru. È comodo, pianeggiante, spopolato, e lungo poco più di dieci
chilometri. Il massiccio cambia aspetto quasi a ogni passo. Cinque diverse aree
lungo il percorso non sono fotografabili, sempre per via del tjukurpa, la legge tradizionale. Bene: ce le stamperemo
nella memoria, e basta.
Sarà una lunga giornata: la nostra meta è Kings Canyon, verso nordest, ma
facciamo una breve deviazione nella direzione opposta per arrivare a Kata
Tjuta, l’altro massiccio del parco. Il nome significa “molte teste” e, nel mito
aborigeno, in questo sito risiede il serpente arcobaleno, l’immensa creatura
ancestrale che strisciando sul suolo disegna i rilievi e le valli, e
distribuisce le pozze d’acqua.
Non disturbare il serpente
Ho trovato un’informazione interessante e me la sono trascritta: i miti aborigeni non vanno intesi al passato, come i miti greco-romani o quelli nordici. Le storie del dreamtime si svolgono everywhen: passato, presente e futuro. Vuol dire che per un aborigeno il serpente arcobaleno se ne sta lì, anche adesso, da sempre e per sempre. Ecco perché è impensabile andarlo a disturbare.
Ho trovato un’informazione interessante e me la sono trascritta: i miti aborigeni non vanno intesi al passato, come i miti greco-romani o quelli nordici. Le storie del dreamtime si svolgono everywhen: passato, presente e futuro. Vuol dire che per un aborigeno il serpente arcobaleno se ne sta lì, anche adesso, da sempre e per sempre. Ecco perché è impensabile andarlo a disturbare.
Mio figlio guida lungo la strada per Kings Canyon e io preparo panini (nel
corso di quest’ultima parte del viaggio diventerò bravissima a confezionarli
anche durante i percorsi più accidentati). Incrociamo pochissime auto.
Kings Canyon è un posto di frontiera. Ci sono un campeggio, un lodge molto
spartano, un capannone di metallo dove si cena a prezzo fisso prelevando a
volontà carne e verdura da due vasconi. E stop.
Si cena al freddo: ci saranno dieci gradi, ma me ne faccio una ragione. E
poi c’è gente che se ne sta in canottiera e non fa una piega. Soprattutto, temo
che non ci siano molte alternative nel giro di qualche centinaio di chilometri.
Ripartiamo di mattina presto. Arriveremo ad Alice Springs seguendo il Meerenie Loop. Per percorrerlo, dobbiamo
chiedere il permesso del Central land council e pagare una tassa alla comunità
locale. Sono poco più di trecento chilometri nel deserto, ma per buona parte si
tratta di pista sterrata: Google Maps ci dice che sono necessarie otto ore (in
realtà, soste escluse, ci metteremo un po’ meno). Ci dotiamo di acqua,
provviste e benzina a sufficienza.
Dopo un po’ sparisce qualsiasi traccia del wifi e cominciamo a viaggiare
lasciandoci dietro una nuvola di polvere rossa. Bisogna andare piano perché dal
nulla può sempre sbucare un cammello o un canguro. È una di quelle piste che ho
visto dall’aereo: va avanti dritta, vuota e sembra non finire mai. Se non
altro, anche senza wifi non rischiamo di sbagliare strada.
Poco dopo aver ritrovato l’asfalto ci fermiamo nella comunità aborigena di
Ntaria-Hermannsburg. Mi auguro, chissà, perfino di ritrovare le infermiere
australiane che me ne hanno raccontato in modo indimenticabile
qualche anno fa.
Il luogo è molto più grande e disperso di come lo immaginavo. Girovaghiamo
tra la vecchia chiesa, il piccolo museo, il supermarket e la galleria dove sono
esposti bei dipinti fatti a tempera dai nativi.
Un’anziana signora aborigena si stacca dal suo gruppo e viene a dirmi
qualcosa in un inglese davvero strano. Non riesco a capire mezza parola e mi
metto a gesticolare secondo la migliore tradizione nazionale. All’improvviso i
ruoli si ribaltano: ora è lei che mi osserva incuriosita come se fossi una
presenza molto esotica, e scambia occhiate ammiccanti con le sue amiche.
A Ntara non scatto neanche una foto e, devo dirlo, ci sentiamo un po’ degli
intrusi.
Abbiamo ancora qualche ora di luce a disposizione e facciamo una deviazione
verso il parco nazionale Finke Gorge. Ho letto che lì c’è un fiume che si è
formato 350 milioni di anni fa ed è uno dei più antichi del pianeta, e che c’è
una valle di palme che sembra essere bellissima.
Procediamo slittando lungo una pista di sabbia – “sicuro che possiamo
passare di qua?”continuo a chiedere a mio figlio , anche se so che non è la
cosa giusta da chiedere, e soprattutto che non è il momento giusto per farlo.
Poi lasciamo l’auto a saliamo a piedi verso il Kalarranga lookout. La vista è spettacolare,
ma ogni foto che scatto riesce a coglierne solo un frammento.
La valle dove si trovano le red cabbage palm è
al termine di un percorso ancora più lungo e arduo del precedente, tra massi e
scoscendimenti e passaggi stretti tra le rocce. Trattengo il fiato, che è un
buon modo per star zitta e non disturbare il guidatore. Mi rendo conto che, in
un contesto come questo, sono totalmente dipendente dalle decisioni e dalle
abilità di mio figlio come forse mai è successo in precedenza. È il secondo
ribaltamento dei ruoli nel giro di un paio d’ore.
E tutto questo è molto istruttivo.
Il luogo è un’oasi nel deserto, tra pareti di roccia rossa. Ed è
incantevole, per quanto è immobile e silenzioso, sereno e remoto.
Però, e sta scendendo la sera, quando finalmente recuperiamo la
tranquillità dell’asfalto, tiro un sospiro di sollievo. Onore al guidatore, penso.
Un immenso giardino
Da Alice Springs voliamo verso Adelaide, e poi verso Kangaroo Island, all’estremo sud del continente. L’isola è in gran parte pianeggiante, è grande come metà della Corsica e ospita circa cinquemila residenti (in Corsica ce ne sono più di 300mila). È un posto eccezionale per vedere gli animali.
Da Alice Springs voliamo verso Adelaide, e poi verso Kangaroo Island, all’estremo sud del continente. L’isola è in gran parte pianeggiante, è grande come metà della Corsica e ospita circa cinquemila residenti (in Corsica ce ne sono più di 300mila). È un posto eccezionale per vedere gli animali.
L’isola è stata abbandonata dalle popolazioni aborigene circa duemila anni
fa, ed è stata colonizzata ai primi dell’ottocento, in principio da cacciatori
di foche, poi da allevatori e agricoltori. Oggi, verde e linda com’è, sembra un
immenso giardino.
Nell’isola ci sono leoni marini, canguri e wallaby (marsupiali di taglia
più piccola), koala e una quantità di uccelli. I leoni marini se ne stanno
sdraiati sulla spiaggia come grossi sacchi abbandonati e si muovono sculettando
come matrone. Vedere i wallaby non è facile: sono grigio-bruni, più timidi,
minuti e panciuti dei canguri, vivono infrattati tra gli arbusti ed è
imperativo avvicinarsi senza far rumore.
Vedere un koala è ancora più difficile: bisogna cavarsi gli occhi guardando
controluce tra le foglie di eucalipto fino a quando si riesce a trovare
qualcosa che sta sopra un ramo e che non è un altro ramo. Ovviamente il
processo va ripetuto davanti a ogni pianta di eucalipto che si incontra.
Le foglie di eucalipto sono poco nutrienti, tuttavia i koala mangiano
quelle. Se si muovono poco, è per risparmiare energie. Misterioso resta invece
il motivo per cui spesso si appendono ai rami più estremi e sottili, e nelle
posizioni in apparenza più scomode.
In uno dei posti più straordinari di questo intenso giro australiano
arriviamo per caso e in modo del tutto inconsapevole, nell’ultima ora di sole
dell’ultimo giorno della nostra permanenza. Pura serendipità, insomma.
Succede che, per non restare confinati ad Adelaide, decidiamo di noleggiare
nuovamente un’auto e di scendere lungo la penisola di Fleurieu. La gita è
piacevole: vediamo bei paesaggi agricoli e una miriade di paesini minuscoli. Ci
fermiamo ad Hahndorf, un villaggio bavarese costruito alla metà dell’ottocento
(”il più antico insediamento tedesco in Australia!”, vanta l’ufficio locale del
turismo) e arriviamo fino a Victor Harbor, sulla costa. Una passerella pedonale
ci porta a Granite Island, e sembra che la gita sia finita lì, e che non ci resti
che tornare.
Ma scegliamo di cambiare strada: forse riusciremo a passare per il Deep
Creek conservation park prima che il sole tramonti, e poi risaliremo verso
Adelaide prendendo la Main south road, che è più veloce.
Ci ritroviamo su un lungo viale sterrato. La luce è morbida e dorata. Sulla
nostra sinistra, vediamo un pendio erboso, verdissimo, che scivola verso il
mare, e un gruppo di canguri che se ne stanno placidi come se volessero godersi
il tramonto, ritagliati sullo sfondo della costa che si allunga intatta fino
all’orizzonte.
Fermiamo l’auto. C’è solo il fruscio del vento. Scendiamo stando attenti a
non fare rumore. Mio figlio prova ad avvicinarsi ai canguri, cauto, un passo
alla volta, poi si china e rimane a guardarli. Mi sembra di riuscire a sentire
la sua emozione. Gli animali se ne restano placidi. Scatto una foto, e poi
un’altra e un’altra. È un momento perfetto.
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