mercoledì 4 marzo 2020

Il cuore dell’Australia e il momento perfetto - Annamaria Testa (10)



Continua il racconto di un viaggio intorno al mondo che ho di recente fatto con mio figlio.

Da Sydney a Uluru ci sono circa tre ore di volo. Sono seduta vicino al finestrino e non riesco a smettere di guardare giù.
La sterminata distesa dell’outback scorre piatta, intatta e primordiale. La superficie è una variabile, capricciosa mescolanza di diverse tonalità di rosso, dal più pallido al più cupo, segnata dalle venature contorte dei torrenti in secca e dalle macchie più scure degli arbusti.
Gli unici segni di presenza umana sono le rare, sottilissime tracce delle piste di terra battuta che attraversano la distesa procedendo dritte e perdendosi nell’orizzonte.
Uluru, il cuore dell’Australia, il monolite roccioso che è il luogo più sacro per le popolazioni aborigene, si erge solo e imponente nel mezzo del nulla, ancora più rosso di tutto quel rosso. È un inselberg, una montagna-isola. Le forme morbide lo fanno somigliare a una creatura addormentata, gigantesca e arcaica.

I nomi dei luoghi
In realtà, la creatura se ne sta per la maggior parte sommersa sotto la crosta terrestre. Quella che vediamo è solo una delle sommità di un’enorme placca di arenaria che riemerge a 25 chilometri di distanza, con le 28 cupole tondeggianti di Kata Tjuta, ben visibili da Uluru, e poi a cento chilometri di distanza, con il monte Conner: enorme, bordi scoscesi e sommità piatta come una tavola.
Stiamo andando verso il parco nazionale di Uluru-Kata Tjuta. Atterreremo all’aeroporto di Ayers Rock, il nome occidentale attribuito alla configurazione nella seconda metà dell’ottocento in onore dell’allora governatore della regione.
I titoli di proprietà dei luoghi sono stati restituiti solo nel 1985 alla comunità locale degli aborigeni anangu, che ora gestisce l’area in accordo con il governo australiano. Il nome originale aborigeno della roccia è stato recuperato nel 1993 come Ayers Rock/Uluru, e modificato nel 2002 in Uluru/Ayers Rock.
Nei giorni seguenti dovremo attraversare un discreto pezzo di deserto, e quindi abbiamo noleggiato un’auto. A mio figlio tocca cimentarsi per la prima volta nella sua vita con la guida a destra ed è preoccupato, ma sarebbe ancora più preoccupato se guidassi io: entrambi sappiamo che guidare non è il migliore dei miei talenti. Mi chiede solo di aiutarlo a non prendere qualche svolta contromano (in realtà, nel corso dell’intero viaggio succederà una volta sola, in Nuova Zelanda, e per fortuna senza conseguenze).

In una bolla spazio-tempo
Arriviamo in tempo per andare a vedere Uluru al tramonto, quando il cielo diventa rosa e il massiccio si colora di porpora e viola. La temperatura scende bruscamente. C’è un tizio che suona il didgeridoo, lo strumento a fiato aborigeno costituito da un lungo tubo di legno di eucalipto. Ci avviciniamo, cercando di non fare troppo caso al gruppo che beve cattivo spumante da bicchieri di plastica e chiacchiera in attesa che il sole sparisca all’orizzonte. Il timbro del suono è profondo, il ritmo è ipnotico.
Il suonatore è bianco. Anche se in quest’area dell’Australia, il Northern Territory, gli aborigeni rappresentano circa un terzo della popolazione, e possiedono poco meno della metà delle terre, e anche se qui vicino c’è la comunità dei pitjantjatjara, una delle più numerose sul territorio, a occuparsi dei turisti sono essenzialmente i bianchi. Mi viene in mente più di una ragione per cui le cose stanno in questo modo.
Vediamo solo un paio di persone aborigene al supermarket e un gruppo di donne e bambini seduti quietamente, come se si trovassero in una bolla spaziotemporale, nel mezzo di un prato davanti a una delle strutture ricettive che si trovano poco distante da Uluru.
Entriamo nel parco di Uluru-Kata Tjuta la mattina presto. All’ingresso ci sono un negozio che vende dipinti aborigeni (anche lì gli addetti sono bianchi) e un piccolo, accurato museo dove si narrano i miti e le storie delle creature ancestrali che nel dreamtime, il tempo dei sogni, su Uluru hanno lasciato i segni del proprio passaggio.
Per fortuna quasi tutti i visitatori restano ammucchiati vicino all’ingresso, o nell’area da dove si può partire per scalare il massiccio seguendo un percorso guidato da corde di metallo. Gli aborigeni chiamano minga tjuṯa (formiche) i turisti che violano Uluru, e non è esattamente un apprezzamento.
Alla partenza del percorso, un gruppo di cartelli accostati uno all’altro dice tre cose contraddittorie. È l’ennesimo indizio dell’ambivalenza nei confronti di tutto ciò che riguarda le comunità aborigene.
Primo messaggio: noi, gli anangu, proprietari tradizionali di questi luoghi, ti chiediamo di non scalare Uluru, perché secondo la legge tradizionale questo è proibito. Per favore, giraci attorno.
Secondo messaggio: durante l’ascensione, segui i percorsi tracciati, osserva le seguenti norme di sicurezza e non rischiare la vita (seguono norme).
Terzo messaggio: questo luogo è stato promosso come luogo da scalare a partire dagli anni quaranta. Tour organizzati seguono le tracce dei primi esploratori e piantano bandiere sulla cima: un atto di conquista che genera forti sentimenti di orgoglio e possesso. Ma, cari amici, che ne direste di cambiare prospettiva e farvi, invece, un giro?
Le ascensioni su Uluru sono state ufficialmente proibite nell’ottobre 2019, ed era ora.
Anche se è fine agosto e c’è ancora un sacco di gente che arranca lungo le pareti lisce, mio figlio e io scegliamo di seguire il sentiero che si snoda attorno a Uluru. È comodo, pianeggiante, spopolato, e lungo poco più di dieci chilometri. Il massiccio cambia aspetto quasi a ogni passo. Cinque diverse aree lungo il percorso non sono fotografabili, sempre per via del tjukurpa, la legge tradizionale. Bene: ce le stamperemo nella memoria, e basta.
Sarà una lunga giornata: la nostra meta è Kings Canyon, verso nordest, ma facciamo una breve deviazione nella direzione opposta per arrivare a Kata Tjuta, l’altro massiccio del parco. Il nome significa “molte teste” e, nel mito aborigeno, in questo sito risiede il serpente arcobaleno, l’immensa creatura ancestrale che strisciando sul suolo disegna i rilievi e le valli, e distribuisce le pozze d’acqua.

Non disturbare il serpente
Ho trovato un’informazione interessante e me la sono trascritta: i miti aborigeni non vanno intesi al passato, come i miti greco-romani o quelli nordici. Le storie del dreamtime si svolgono everywhen: passato, presente e futuro. Vuol dire che per un aborigeno il serpente arcobaleno se ne sta lì, anche adesso, da sempre e per sempre. Ecco perché è impensabile andarlo a disturbare.
Mio figlio guida lungo la strada per Kings Canyon e io preparo panini (nel corso di quest’ultima parte del viaggio diventerò bravissima a confezionarli anche durante i percorsi più accidentati). Incrociamo pochissime auto.
Kings Canyon è un posto di frontiera. Ci sono un campeggio, un lodge molto spartano, un capannone di metallo dove si cena a prezzo fisso prelevando a volontà carne e verdura da due vasconi. E stop.
Si cena al freddo: ci saranno dieci gradi, ma me ne faccio una ragione. E poi c’è gente che se ne sta in canottiera e non fa una piega. Soprattutto, temo che non ci siano molte alternative nel giro di qualche centinaio di chilometri.
Ripartiamo di mattina presto. Arriveremo ad Alice Springs seguendo il Meerenie Loop. Per percorrerlo, dobbiamo chiedere il permesso del Central land council e pagare una tassa alla comunità locale. Sono poco più di trecento chilometri nel deserto, ma per buona parte si tratta di pista sterrata: Google Maps ci dice che sono necessarie otto ore (in realtà, soste escluse, ci metteremo un po’ meno). Ci dotiamo di acqua, provviste e benzina a sufficienza.
Dopo un po’ sparisce qualsiasi traccia del wifi e cominciamo a viaggiare lasciandoci dietro una nuvola di polvere rossa. Bisogna andare piano perché dal nulla può sempre sbucare un cammello o un canguro. È una di quelle piste che ho visto dall’aereo: va avanti dritta, vuota e sembra non finire mai. Se non altro, anche senza wifi non rischiamo di sbagliare strada.
Poco dopo aver ritrovato l’asfalto ci fermiamo nella comunità aborigena di Ntaria-Hermannsburg. Mi auguro, chissà, perfino di ritrovare le infermiere australiane che me ne hanno raccontato in modo indimenticabile qualche anno fa.
Il luogo è molto più grande e disperso di come lo immaginavo. Girovaghiamo tra la vecchia chiesa, il piccolo museo, il supermarket e la galleria dove sono esposti bei dipinti fatti a tempera dai nativi.
Un’anziana signora aborigena si stacca dal suo gruppo e viene a dirmi qualcosa in un inglese davvero strano. Non riesco a capire mezza parola e mi metto a gesticolare secondo la migliore tradizione nazionale. All’improvviso i ruoli si ribaltano: ora è lei che mi osserva incuriosita come se fossi una presenza molto esotica, e scambia occhiate ammiccanti con le sue amiche.
A Ntara non scatto neanche una foto e, devo dirlo, ci sentiamo un po’ degli intrusi.
Abbiamo ancora qualche ora di luce a disposizione e facciamo una deviazione verso il parco nazionale Finke Gorge. Ho letto che lì c’è un fiume che si è formato 350 milioni di anni fa ed è uno dei più antichi del pianeta, e che c’è una valle di palme che sembra essere bellissima.
Procediamo slittando lungo una pista di sabbia – “sicuro che possiamo passare di qua?”continuo a chiedere a mio figlio , anche se so che non è la cosa giusta da chiedere, e soprattutto che non è il momento giusto per farlo. Poi lasciamo l’auto a saliamo a piedi verso il Kalarranga lookout. La vista è spettacolare, ma ogni foto che scatto riesce a coglierne solo un frammento.
La valle dove si trovano le red cabbage palm è al termine di un percorso ancora più lungo e arduo del precedente, tra massi e scoscendimenti e passaggi stretti tra le rocce. Trattengo il fiato, che è un buon modo per star zitta e non disturbare il guidatore. Mi rendo conto che, in un contesto come questo, sono totalmente dipendente dalle decisioni e dalle abilità di mio figlio come forse mai è successo in precedenza. È il secondo ribaltamento dei ruoli nel giro di un paio d’ore.
E tutto questo è molto istruttivo.
Il luogo è un’oasi nel deserto, tra pareti di roccia rossa. Ed è incantevole, per quanto è immobile e silenzioso, sereno e remoto.
Però, e sta scendendo la sera, quando finalmente recuperiamo la tranquillità dell’asfalto, tiro un sospiro di sollievo. Onore al guidatore, penso.

Un immenso giardino
Da Alice Springs voliamo verso Adelaide, e poi verso Kangaroo Island, all’estremo sud del continente. L’isola è in gran parte pianeggiante, è grande come metà della Corsica e ospita circa cinquemila residenti (in Corsica ce ne sono più di 300mila). È un posto eccezionale per vedere gli animali.
L’isola è stata abbandonata dalle popolazioni aborigene circa duemila anni fa, ed è stata colonizzata ai primi dell’ottocento, in principio da cacciatori di foche, poi da allevatori e agricoltori. Oggi, verde e linda com’è, sembra un immenso giardino.
Nell’isola ci sono leoni marini, canguri e wallaby (marsupiali di taglia più piccola), koala e una quantità di uccelli. I leoni marini se ne stanno sdraiati sulla spiaggia come grossi sacchi abbandonati e si muovono sculettando come matrone. Vedere i wallaby non è facile: sono grigio-bruni, più timidi, minuti e panciuti dei canguri, vivono infrattati tra gli arbusti ed è imperativo avvicinarsi senza far rumore.
Vedere un koala è ancora più difficile: bisogna cavarsi gli occhi guardando controluce tra le foglie di eucalipto fino a quando si riesce a trovare qualcosa che sta sopra un ramo e che non è un altro ramo. Ovviamente il processo va ripetuto davanti a ogni pianta di eucalipto che si incontra.
Le foglie di eucalipto sono poco nutrienti, tuttavia i koala mangiano quelle. Se si muovono poco, è per risparmiare energie. Misterioso resta invece il motivo per cui spesso si appendono ai rami più estremi e sottili, e nelle posizioni in apparenza più scomode.
In uno dei posti più straordinari di questo intenso giro australiano arriviamo per caso e in modo del tutto inconsapevole, nell’ultima ora di sole dell’ultimo giorno della nostra permanenza. Pura serendipità, insomma.
Succede che, per non restare confinati ad Adelaide, decidiamo di noleggiare nuovamente un’auto e di scendere lungo la penisola di Fleurieu. La gita è piacevole: vediamo bei paesaggi agricoli e una miriade di paesini minuscoli. Ci fermiamo ad Hahndorf, un villaggio bavarese costruito alla metà dell’ottocento (”il più antico insediamento tedesco in Australia!”, vanta l’ufficio locale del turismo) e arriviamo fino a Victor Harbor, sulla costa. Una passerella pedonale ci porta a Granite Island, e sembra che la gita sia finita lì, e che non ci resti che tornare.
Ma scegliamo di cambiare strada: forse riusciremo a passare per il Deep Creek conservation park prima che il sole tramonti, e poi risaliremo verso Adelaide prendendo la Main south road, che è più veloce.
Ci ritroviamo su un lungo viale sterrato. La luce è morbida e dorata. Sulla nostra sinistra, vediamo un pendio erboso, verdissimo, che scivola verso il mare, e un gruppo di canguri che se ne stanno placidi come se volessero godersi il tramonto, ritagliati sullo sfondo della costa che si allunga intatta fino all’orizzonte.
Fermiamo l’auto. C’è solo il fruscio del vento. Scendiamo stando attenti a non fare rumore. Mio figlio prova ad avvicinarsi ai canguri, cauto, un passo alla volta, poi si china e rimane a guardarli. Mi sembra di riuscire a sentire la sua emozione. Gli animali se ne restano placidi. Scatto una foto, e poi un’altra e un’altra. È un momento perfetto.

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