sabato 21 marzo 2020

Pagare in contanti è più democratico e ci aiuta a spendere meno - Oliver Burkeman



Il consiglio comunale di New York ha votato per rendere illegale il rifiuto dei pagamenti in contanti nei negozi. La decisione è stata presa soprattutto per tutelare le persone che non hanno un conto in banca o una carta di credito.
Ma anche tutti noi dovremmo essergli grati, perché vari studi hanno dimostrato che quando paghiamo con la carta spendiamo di più (nel caso di un esperimento sull’acquisto di biglietti costosi per un evento sportivo, anche il 100 per cento in più).
Nei nostri circuiti cerebrali succede qualcosa e la nostra mente confonde la facilità con cui paghiamo con il fatto che possiamo permettercelo.
Uno dei motivi di questa confusione è che le carte di credito rimandano il momento spiacevole in cui ci arriva il conto. Ma le ricerche condotte sui bancomat e i portafogli digitali hanno messo in luce il fenomeno ancora più interessante della distanza psicologica: i contanti sembrano più reali e staccarcene è più doloroso.
Ovviamente anche le monete e le banconote sono “virtuali”, nel senso che hanno un valore solo grazie a una serie di leggi e di accordi. Ma mantengono una fondamentale componente di concretezza, dimostrata chiaramente dal fatto che se diamo fuoco a una banconota da 20 sterline, non abbiamo più 20 sterline.
Ho il sospetto che molti di noi implicitamente interagiscano con i contanti come se un impiegato di banca ben vestito fosse seduto dall’altra parte della cassa, pronto ad afferrare i nostri soldi. È molto più difficile provare un senso di possesso nei confronti delle informazioni digitali. E i pagamenti contactless? Quelli sembrano poco più reali che pensare semplicemente di fare un acquisto.
Purtroppo, non sono a conoscenza di nessuna ricerca che abbia dimostrato che questo effetto di irrealtà diminuisce con l’abitudine a vivere in un mondo senza contanti. Anzi, i pagamenti senza attrito stanno diventando i principali responsabili di quella che è stata definita “tirannia della comodità”, secondo la quale la tecnologia rende più facile comprare quello che desideriamo (come quelle nuove cuffie che mi piacciono tanto, per esempio), ma più difficile essere il tipo di persona che vorremmo essere (che vive benissimo anche senza quelle cuffie). Per usare le parole del filosofo Harry G. Frankfurt, minano la nostra capacità di “volere quello che vogliamo volere”.
Un modo leggermente più semplice di porre la questione è che ognuno di noi è un fascio di desideri diversi e spesso contraddittori, e non c’è da sorprendersi, né è necessariamente motivo di condanna, se le aziende cercano di stimolare quelli dai quali possono trarre profitto.
Questo significa che, visto che la tecnologia continua a rendere sempre più facile la nostra vita quotidiana, avremo sempre più bisogno di sviluppare il gusto per l’attrito, di scoprire quel piacere molto particolare che deriva dall’accettare certe piccole scomodità – come quella di rovistare nel portafoglio per trovare i soldi – piuttosto che cercare sempre più di eliminarle.
Questo gusto è parente di un altro che vale altrettanto la pena di sviluppare: la gioia perversa di non comprare qualcosa che ci avrebbe reso felici, perché ci rende ancora più felici privare una multinazionale della possibilità di intascare i nostri soldi.

Consigli di lettura
Nel suo libro del 2017 The beauty of discomfort. How what we avoid is what we need Amanda Lang porta una serie di argomentazioni contro la vita troppo facile.

(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian


Nessun commento:

Posta un commento