sabato 28 marzo 2020

Dove finisce la tua plastica - Giuseppe Ungherese*


Che l’inquinamento da plastica sia ormai un problema è noto a tutti noi. Quasi ogni giorno vediamo le immagini di spiagge in giro per il mondo coperte da grandi quantità di rifiuti, oppure quelle di animali marini come balene, capodogli e tartarughe che soffrono l’inquinamento da plastica sia perché la ingeriscono, sia perché restano intrappolati in cumuli di rifiuti.

CI SONO DIVERSI MODI PER COMBATTERE questa contaminazione che assume proporzioni sempre più allarmanti. Gran parte delle persone pensa di fare la sua parte non abbandonando i rifiuti nell’ambiente e facendo una corretta raccolta differenziata. Iniziative lodevoli che fanno parte del dovere civico di ognuno di noi, ma che sono veramente sufficienti? Purtroppo no. Se analizziamo il sistema di riciclo nel nostro Paese, nemmeno tra i peggiori a livello europeo, scopriamo che solo poco più del 40 per cento della plastica da imballaggi che differenziamo correttamente ogni giorno nelle nostre case viene effettivamente riciclata. Ma perché così tanta plastica non viene riciclata? Le ragioni possono essere molteplici. Ad esempio, molti imballaggi sono costituiti da più materiali, come plastica e metallo, i cosiddetti poliaccoppiati di difficile riciclo. Alcuni casi? La stragrande maggioranza dei tubetti di dentifricio, oppure la confezione grigia che contiene sottovuoto il caffè in polvere. Anche il prezzo delle materie prime influenza il sistema di riciclo, e nello specifico la domanda di plastica riciclata sul mercato.

COME DOCUMENTATO DA UN RECENTE rapporto Ocse, a seconda del prezzo del petrolio, la plastica vergine potrebbe essere più conveniente rispetto a quella riciclata. E infine c’è il problema delle plastiche eterogenee miste (film, pellicole e plastiche monostrato) che possono rappresentare una quota consistente dello scarto della raccolta degli imballaggi (tra il 20 e il 50 per cento a seconda della piattaforma di selezione). Quest’ultima tipologia di plastiche è, sì, tecnicamente riciclabile ma molto spesso non viene richiesta sul mercato, finendo per rappresentare una sorta di rifiuto del rifiuto che crea non pochi problemi di gestione. In alcuni casi viene spedita addirittura all’estero, viaggiando per migliaia di chilometri via terra o via mare, per essere avviata a riciclo. Ma quella spedita oltre i confini nazionali viene effettivamente riciclata?

SECONDO LE ULTIME INDAGINI condotte dall’unità investigativa di Greenpeace sembrerebbe di no. Nelle scorse settimane abbiamo infatti scoperto un traffico illegale di rifiuti in plastica spediti dall’Italia ad aziende malesi, pari a più di 1.300 tonnellate solo nei primi nove mesi del 2019 quando, su un totale di 65 spedizioni dirette in Malesia, 43 sono state inviate a impianti privi dei permessi per importare e riciclare rifiuti stranieri. Oltre all’analisi documentale, un nostro team si è recato in Malesia e – con l’ausilio di telecamere nascoste – è riuscito raccogliere testimonianze video in alcune delle aziende malesi disposte a importare illegalmente i nostri rifiuti, tra cui plastica contaminata e rifiuti urbani. Inoltre, ha documentato la presenza di rifiuti plastici provenienti dall’estero, Italia inclusa, abbandonati all’aperto in enormi discariche a cielo aperto senza alcuna sicurezza per l’ambiente e la salute umana, in barba ai regolamenti europei vigenti. Infatti, secondo la normativa comunitaria di riferimento (Regolamento n. 1013/2006), i Paesi europei possono spedire i propri rifiuti fuori dall’Ue esclusivamente per “riciclo e recupero”, in impianti con standard ambientali e tecnici pari a quelli comunitari e che operano con “metodi ecologicamente corretti” ovvero “in conformità di norme in materia di tutela della salute umana e ambientale grosso modo equivalenti a quelle previste dalla normativa comunitaria”. Ma come è possibile che i nostri rifiuti possano viaggiare senza intoppi e raggiungere nazioni così lontane non rispettando la normativa europea? Secondo quanto riportato dalla Direzione Distrettuale Antimafia, interpellata da Greenpeace, una delle ragioni è da individuare nei pochi controlli. Infatti, meno del 2,5 per cento dei container che spediamo dai porti italiani è ispezionato con visita merci e molti porti non hanno addirittura aree adatte per aprire e controllare i container.

QUELLO DOCUMENTATO IN MALESIA non è però un caso isolato. Nei mesi scorsi ci siamo imbattuti in un caso analogo in Turchia, scoprendo un sito illegale di stoccaggio di rifiuti in plastica molto probabilmente provenienti dalla nostra raccolta differenziata, e nel sud della Polonia dove almeno cinquanta balle di rifiuti in plastica di provenienza italiana erano abbandonate in un ex distributore di carburante.

QUESTE SITUAZIONI SONO INACCETTABILI e non appartengono a un Paese che può definirsi civile e inoltre evidenziano, ancora una volta, alcune delle numerose criticità legate alla gestione delle materie plastiche a fine vita. Se consideriamo che di tutta la plastica prodotta al mondo a partire dagli anni Cinquanta, solo il 9 per cento è stato effettivamente riciclato, non sorprende imbattersi in pratiche di presunto riciclo. Il sistema di riciclo su scala globale, più volte invocato da aziende e governi come la principale soluzione per risolvere il problema dell’inquinamento da plastica, da solo non può essere considerato una soluzione efficace. Con una produzione di plastica globale che, entro il 2050, quadruplicherà i volumi del 2015, è possibile che la situazione peggiori ulteriormente e le pratiche illegali aumentino in modo vertiginoso. Che fare allora? Continuare a differenziare correttamente i rifiuti è doveroso ma, anche per non vanificare gli sforzi quotidiani di milioni di cittadini italiani, bisogna che governi e aziende riducano subito la produzione di plastica monouso, spesso inutile e superflua, che da sola oggi costituisce il 40 per cento della produzione globale. Solo così riusciremo a impedire che la Terra si trasformi in un Pianeta di plastica.

* responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace Italia


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