Che l’inquinamento da plastica sia ormai un problema è noto a tutti noi.
Quasi ogni giorno vediamo le immagini di spiagge in giro per il mondo coperte
da grandi quantità di rifiuti, oppure quelle di animali marini come balene,
capodogli e tartarughe che soffrono l’inquinamento da plastica sia perché la
ingeriscono, sia perché restano intrappolati in cumuli di rifiuti.
CI SONO DIVERSI MODI PER COMBATTERE questa contaminazione che assume
proporzioni sempre più allarmanti. Gran parte delle persone pensa di fare la
sua parte non abbandonando i rifiuti nell’ambiente e facendo una corretta
raccolta differenziata. Iniziative lodevoli che fanno parte del dovere civico
di ognuno di noi, ma che sono veramente sufficienti? Purtroppo no. Se
analizziamo il sistema di riciclo nel nostro Paese, nemmeno tra i peggiori a
livello europeo, scopriamo che solo poco più del 40 per cento della plastica da
imballaggi che differenziamo correttamente ogni giorno nelle nostre case viene
effettivamente riciclata. Ma perché così tanta plastica non viene riciclata? Le
ragioni possono essere molteplici. Ad esempio, molti imballaggi sono costituiti
da più materiali, come plastica e metallo, i cosiddetti poliaccoppiati di
difficile riciclo. Alcuni casi? La stragrande maggioranza dei tubetti di
dentifricio, oppure la confezione grigia che contiene sottovuoto il caffè in
polvere. Anche il prezzo delle materie prime influenza il sistema di riciclo, e
nello specifico la domanda di plastica riciclata sul mercato.
COME DOCUMENTATO DA UN RECENTE rapporto Ocse, a seconda del
prezzo del petrolio, la plastica vergine potrebbe essere più conveniente
rispetto a quella riciclata. E infine c’è il problema delle plastiche
eterogenee miste (film, pellicole e plastiche monostrato) che possono
rappresentare una quota consistente dello scarto della raccolta degli
imballaggi (tra il 20 e il 50 per cento a seconda della piattaforma di
selezione). Quest’ultima tipologia di plastiche è, sì, tecnicamente riciclabile
ma molto spesso non viene richiesta sul mercato, finendo per rappresentare una
sorta di rifiuto del rifiuto che crea non pochi problemi di gestione. In alcuni
casi viene spedita addirittura all’estero, viaggiando per migliaia di
chilometri via terra o via mare, per essere avviata a riciclo. Ma quella
spedita oltre i confini nazionali viene effettivamente riciclata?
SECONDO LE ULTIME INDAGINI condotte dall’unità investigativa
di Greenpeace sembrerebbe di no. Nelle scorse settimane abbiamo infatti scoperto
un traffico illegale di rifiuti in plastica spediti dall’Italia ad aziende
malesi, pari a più di 1.300 tonnellate solo nei primi nove mesi del 2019
quando, su un totale di 65 spedizioni dirette in Malesia, 43 sono state inviate
a impianti privi dei permessi per importare e riciclare rifiuti stranieri.
Oltre all’analisi documentale, un nostro team si è recato in Malesia e – con
l’ausilio di telecamere nascoste – è riuscito raccogliere testimonianze video
in alcune delle aziende malesi disposte a importare illegalmente i nostri
rifiuti, tra cui plastica contaminata e rifiuti urbani. Inoltre, ha documentato
la presenza di rifiuti plastici provenienti dall’estero, Italia inclusa,
abbandonati all’aperto in enormi discariche a cielo aperto senza alcuna sicurezza
per l’ambiente e la salute umana, in barba ai regolamenti europei vigenti.
Infatti, secondo la normativa comunitaria di riferimento (Regolamento n.
1013/2006), i Paesi europei possono spedire i propri rifiuti fuori dall’Ue
esclusivamente per “riciclo e recupero”, in impianti con standard ambientali e
tecnici pari a quelli comunitari e che operano con “metodi ecologicamente
corretti” ovvero “in conformità di norme in materia di tutela della salute
umana e ambientale grosso modo equivalenti a quelle previste dalla normativa
comunitaria”. Ma come è possibile che i nostri rifiuti possano viaggiare senza
intoppi e raggiungere nazioni così lontane non rispettando la normativa
europea? Secondo quanto riportato dalla Direzione Distrettuale Antimafia,
interpellata da Greenpeace, una delle ragioni è da individuare nei pochi
controlli. Infatti, meno del 2,5 per cento dei container che spediamo dai porti
italiani è ispezionato con visita merci e molti porti non hanno addirittura
aree adatte per aprire e controllare i container.
QUELLO DOCUMENTATO IN MALESIA non è però un caso isolato. Nei
mesi scorsi ci siamo imbattuti in un caso analogo in Turchia, scoprendo un sito
illegale di stoccaggio di rifiuti in plastica molto probabilmente provenienti
dalla nostra raccolta differenziata, e nel sud della Polonia dove almeno
cinquanta balle di rifiuti in plastica di provenienza italiana erano
abbandonate in un ex distributore di carburante.
QUESTE SITUAZIONI SONO INACCETTABILI e non appartengono a un Paese che
può definirsi civile e inoltre evidenziano, ancora una volta, alcune delle
numerose criticità legate alla gestione delle materie plastiche a fine vita. Se
consideriamo che di tutta la plastica prodotta al mondo a partire dagli anni
Cinquanta, solo il 9 per cento è stato effettivamente riciclato, non sorprende
imbattersi in pratiche di presunto riciclo. Il sistema di riciclo su scala
globale, più volte invocato da aziende e governi come la principale soluzione
per risolvere il problema dell’inquinamento da plastica, da solo non può essere
considerato una soluzione efficace. Con una produzione di plastica globale che,
entro il 2050, quadruplicherà i volumi del 2015, è possibile che la situazione
peggiori ulteriormente e le pratiche illegali aumentino in modo vertiginoso.
Che fare allora? Continuare a differenziare correttamente i rifiuti è doveroso
ma, anche per non vanificare gli sforzi quotidiani di milioni di cittadini
italiani, bisogna che governi e aziende riducano subito la produzione di
plastica monouso, spesso inutile e superflua, che da sola oggi costituisce il
40 per cento della produzione globale. Solo così riusciremo a impedire che la
Terra si trasformi in un Pianeta di plastica.
* responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace Italia
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