È un sabato pomeriggio di dicembre, a Lisbona il cielo è terso. Nella sede
di un’associazione culturale a Intendente – quartiere a due passi dalla
centrale piazza Martim Moniz – è in corso un’assemblea di Habita, un
gruppo di attivisti che da più di dieci anni si batte per il diritto alla casa.
A un certo punto si formano due gruppi di discussione. Nella sala principale
decine di persone discutono di affitti, speculazioni, gentrificazione. Accanto,
in una piccola stanza, altri condividono storie, paure e preoccupazioni su un
tema specifico: l’occupazione. Sono tutte donne, di età e origini diverse, e
tutte – a parte una che racconta di dormire in un vano scale – vivono in
edifici occupati, nella maggior parte dei casi con dei figli.
Tra di loro c’è Joana. La donna ha cinque figli, una di 19 anni che è a sua
volta madre di due bambini. In tutto sono dieci e dividono tre stanze in un
appartamento occupato nel quartiere residenziale di Ajuda, nella zona
occidentale di Lisbona, dove la stessa Joana è nata neppure quarant’anni fa. La
casa è di proprietà del comune e Joana vive con l’ansia di essere sfrattata.
Tuttavia, quando partecipa a incontri come questo, trova un po’ di sollievo.
“Mi sento più forte, meno sola,” dice appena terminata la riunione. In effetti
– secondo gli attivisti – il numero di persone che si trova nella sua
situazione è in sensibile aumento da un paio di anni. “Solo da noi negli ultimi
mesi si sono presentate più di un centinaio di persone che vivono in
occupazione, quasi tutte donne, madri senza alternativa”, racconta Antonio Gori
– residente a Lisbona ma originario di Prato – attivista di Habita.
I dati sulle occupazioni raccolti da Habita danno un’idea del fenomeno
chiaramente non completa, ma sono gli unici disponibili insieme a quelli di
associazioni come Stop despejos (Stop sfratti). Gli attivisti concordano nel
dire che ci sono “centinaia” di famiglie in occupazione, ma nessuno riesce a
quantificare con precisione quante siano. La loro impressione, così come quella
dei residenti di vari quartieri con cui ho parlato, è che la maggior parte viva
in case di proprietà del comune.
Le case vuote del comune
L’amministrazione ne possiede 26mila, dove si stima che vivano 75mila persone, circa un settimo dell’intera popolazione di Lisbona. Molte restano vuote e vengono occupate. Secondo le ricerche fatte per O que vai acontecer aquí?, documentario del collettivo di artisti Left hand rotation, le case disabitate sono più di duemila. Il comune smentisce, dicendo che si tratta di una cifra esagerata, ma si rifiuta – nonostante ripetute richieste – di diffondere dati precisi.
L’amministrazione ne possiede 26mila, dove si stima che vivano 75mila persone, circa un settimo dell’intera popolazione di Lisbona. Molte restano vuote e vengono occupate. Secondo le ricerche fatte per O que vai acontecer aquí?, documentario del collettivo di artisti Left hand rotation, le case disabitate sono più di duemila. Il comune smentisce, dicendo che si tratta di una cifra esagerata, ma si rifiuta – nonostante ripetute richieste – di diffondere dati precisi.
Le autorità si muovono con cautela per perseguire un obiettivo a lungo
termine: liberare tutte le case occupate e riassegnarle con dei bandi. “La
questione abitativa è una delle nostre priorità”, sostiene Ana Jara, eletta con
il Partito comunista portoghese (Pcp) al municipio di Lisbona, “ma non dirò mai
di essere d’accordo con l’occupazione di case popolari”. Inoltre, spiega Jara,
se le case sono vuote probabilmente è perché sono in cattive condizioni. “Il
problema non è solo avere una casa, ma avere una casa dignitosa”, chiarisce.
Tuttavia, i tempi della burocrazia sono sempre molto diversi da quelli
della vita, e ci sono persone – soprattutto madri con bambini – che non ce la
fanno ad aspettare ristrutturazioni e bandi. “L’amministrazione di Lisbona ha
buone intenzioni, ma nella pratica non riesce ad affrontare l’emergenza
abitativa che ha contribuito a creare”, sostiene Luís Mendes, professore
all’istituto di geografia e pianificazione del territorio dell’Universidade de
Lisboa, tra i più autorevoli esperti di gentrificazione e speculazione edilizia
in Portogallo, oltre che membro attivo dell’organizazzione Morar em Lisboa (Abitare
a Lisbona).
L’impatto di Airbnb
Le occupazioni sono solo uno degli aspetti più visibili della crisi abitativa che sta colpendo l’area metropolitana della capitale portoghese. Il puzzle è complesso ed è composto da pezzi tanto diversi quanto complementari: dall’uso sregolato di Airbnb a una legge che ha liberalizzato il mercato degli affitti senza tenere troppo conto delle esigenze dei cittadini più in difficoltà, ai Golden visa concessi dal governo, che hanno attirato ingenti investimenti stranieri in campo immobiliare. Il risultato è una città dove convivono diecimila famiglie in situazioni abitative precarie e milioni di turisti che ogni anno affittano appartamenti per periodi più o meno brevi.
Le occupazioni sono solo uno degli aspetti più visibili della crisi abitativa che sta colpendo l’area metropolitana della capitale portoghese. Il puzzle è complesso ed è composto da pezzi tanto diversi quanto complementari: dall’uso sregolato di Airbnb a una legge che ha liberalizzato il mercato degli affitti senza tenere troppo conto delle esigenze dei cittadini più in difficoltà, ai Golden visa concessi dal governo, che hanno attirato ingenti investimenti stranieri in campo immobiliare. Il risultato è una città dove convivono diecimila famiglie in situazioni abitative precarie e milioni di turisti che ogni anno affittano appartamenti per periodi più o meno brevi.
Nel 2018 sono stati 4,5 milioni. Alla fine del 2019 su Airbnb c’erano più
di 22mila annunci, il 75 per cento riguardanti interi
appartamenti. Secondo il libro Lisboa e a Airbnb –
pubblicato nel 2019 da un gruppo di studiosi – nella capitale portoghese ci
sono almeno 25 proprietari che gestiscono in totale centinaia di annunci (uno
di loro, da solo, ne gestisce 437). Tra il 2017 e il 2018, questo piccolo
gruppo ha generato introiti superiori ai 24 milioni di euro.
Nel quartiere storico di Alfama più della metà delle case è destinata ad
affitti brevi per turisti. “Ma svuotandolo dei suoi abitanti, non si fa altro
che ammazzare un quartiere”, dice Mendes. “A Lisbona la situazione in certi
casi è estrema, ma la città non è un caso isolato. Il contenimento degli
effetti di Airbnb è un problema europeo”. Mendes è tra i promotori della
campagna di raccolta firme Housing for all, una petizione partita da
Vienna per chiedere alle istituzioni europee di sostenere investimenti nel
campo dell’edilizia popolare e di regolare gli affitti a breve termine.
Turbogentrificazione
A Lisbona il mercato immobiliare sembra non avere più a che vedere con le persone che ci abitano e lavorano, classe media inclusa. Tanto che il termine gentrificazione non basta più. Mendes parla di “turbogentrificazione”.
A Lisbona il mercato immobiliare sembra non avere più a che vedere con le persone che ci abitano e lavorano, classe media inclusa. Tanto che il termine gentrificazione non basta più. Mendes parla di “turbogentrificazione”.
Mentre in Portogallo il salario minimo aumenta lentamente – si è passati da
500 euro nel 2016 a 600 nel 2019, e l’obiettivo del governo guidato dal
socialista António Costa è di arrivare a 750 nel 2023 – il costo delle case
cresce in modo sregolato, secondo i modi e i tempi della finanza. I dati
dell’Instituto nacional de estatística (Ine) mostrano che nel secondo trimestre
2019 a Lisbona si è registrato un prezzo medio al metro quadro di 3.154 euro,
circa 400 euro in più rispetto al 2018. Gli affitti hanno raggiunto una media
di 585 euro al mese per 50 metri quadri.
“E io cosa dovrei fare? Sono esausta”, dice Monica. È seduta su un
materasso buttato a terra, nella casa che occupa da oltre un anno nel quartiere
Lumiar, un’area popolare della cosiddetta Alta de Lisboa. Vive insieme al più
piccolo dei suoi due figli, un ragazzo di quattordici anni. A parte il
materasso per terra, un letto, un piccolo mobile su cui è appoggiata una tv e
un atlante comprato per il figlio, non ha nulla. Neppure un tavolo. In bagno
manca l’acqua corrente. Per lo scarico riempie delle taniche a casa di parenti
che vivono in un appartamento lì vicino. Siccome non ha una cucina, da loro va
anche a cena: in cambio compra delle cose con il sussidio di disoccupazione di
470 euro e le prepara per tutti. “Per fortuna mio figlio può mangiare a scuola
sia a colazione sia a pranzo”, racconta. “Negli ultimi anni ho cambiato casa
sei volte, ma ho sempre fatto di tutto affinché lui rimanesse nella stessa
scuola. Almeno quello…”, dice.
La vita di Monica – arrivata dall’Angola in Portogallo ad appena otto anni
– è crollata nel 2007 quando il marito l’ha abbandonata con migliaia di euro di
debiti. “Il mio più grande errore è stato sposare la persona sbagliata”, dice,
“un uomo con due facce”. Ricercato dalla polizia per un traffico di documenti
falsi, è scappato in Angola senza dirle niente. “Non ne sapevo nulla. Un giorno
la polizia mi ha svegliato all’alba puntandomi la pistola contro, ma lui non
era a casa”, ricorda Monica.
L’appartamento in cui abitavano, e su cui stavano pagando il mutuo, è stato
pignorato, e per anni la maggior parte del suo salario se n’è andato per
saldare i debiti. “Mi restavano meno di 400 euro al mese, sono riuscita a
sopravvivere solo grazie agli aiuti degli assistenti sociali della Santa Casa”.
Fino a un paio di anni fa Monica è riuscita a trovare case in affitto ai
margini estremi della città, o appena fuori, ma ora neanche quello. “Essere una
madre single non mi aiuta, e nemmeno il colore della mia pelle”.
Monica ricorda che una delle ultime case che ha affittato era un bilocale
in una zona conosciuta come Bairro de Angola, a Camarate, fuori dei confini
della città, ma ancora abbastanza collegata con la scuola del figlio. Pagava
400 euro al mese, mentre sostiene che i suoi vicini, una coppia di bianchi, pagassero
330 allo stesso proprietario per un’abitazione con una stanza da letto in più.
Monica racconta di essere in lista di attesa per una casa popolare già da una
decina di anni, ma finora non si è mosso nulla.
Anche Luis dice che le discriminazioni razziali sono un ostacolo. Ventisei
anni, discendente da una famiglia rom, una compagna e due figli, cinque anni fa
ha occupato uno spazio inutilizzato di proprietà del comune. “Siamo ridotti
così anche a causa del razzismo”, dice, “eppure la mia famiglia, quella dei
Ramos, è arrivata in Alentejo nel 1500”.
Per raggiungere la sua abitazione bisogna camminare mezz’ora dalla stazione
della metro più vicina, Ameixoeiras. Si passa in mezzo a grandi condomini
popolari e lungo una strada costeggiata da spazi verdi. Nel giardino di una
delle case ci sono pecore e galline. Questo paesaggio – diviso tra i blocchi di
cemento delle costruzioni e il suono leggero della campagna – è piuttosto
comune nella periferia di Lisbona. “Ho fatto tutto con le mie mani”, dice Luis
con orgoglio, mostrando delle pareti di cartongesso e il sistema con cui è
riuscito a creare una doccia collegata a una caldaia. La casa è essenziale, ma
ha tutto il necessario, anche una lavatrice.
Al momento l’uomo è disoccupato, ma ogni tanto gli capita un lavoro. “Sono
rom, chi mi offre un contratto?”. Non chiede aiuto alle associazioni di
attivisti perché è disilluso. “Siamo in attesa di una casa popolare da sei
anni. Ho accettato di essere intervistato perché voglio che la gente sappia
come siamo ridotti a vivere”. La compagna, Margarida, parla solo appena lui
esce un attimo, chiamato da un vicino. Ha gli occhi azzurri, come la bambina
che allatta al seno e che porta il suo stesso nome. Dice che è stanca di dover
combattere con i ratti. “Sono sfinita. È come vivere in strada, non ci sono
barriere”, dice. Confessa di sentirsi isolata.
Conseguenze sulla salute
Il problema della casa ha ricadute anche sulla salute mentale delle persone. A Lisbona ho intervistato decine di persone in situazioni abitative precarie. Quasi tutte dicevano di soffrire di depressione, attacchi di ansia, insonnia. Più di una mi ha detto di aver pensato al suicidio.
Il problema della casa ha ricadute anche sulla salute mentale delle persone. A Lisbona ho intervistato decine di persone in situazioni abitative precarie. Quasi tutte dicevano di soffrire di depressione, attacchi di ansia, insonnia. Più di una mi ha detto di aver pensato al suicidio.
“Molti problemi di cui ci parlano i nostri pazienti, dallo stress
all’isolamento, sono collegati a situazioni abitative precarie ”, racconta
Cristiano Figuereido, medico di famiglia al Centro de saude di Martim Moniz, a
due passi dalla piazza del Rossio. Il centro segue 15mila persone e Figuereido
spiega che per alcuni di loro la struttura sperimenta un programma chiamato
“prescrizione sociale”. “In molti casi invece delle medicine prescriviamo un
incontro con l’assistente sociale qui in sede”, racconta.
“La casa è forse il principale
problema in questo momento a Lisbona”, spiega il direttore del centro Martino
Gliozzi, originario di Imola. Il problema non coinvolge solo chi vive in
situazioni limite, di occupazione o sfratto. “Ho una paziente costretta a usare
dei sacchetti di plastica al posto del gabinetto. Il padrone di casa le ha
rotto lo scarico del bagno per costringerla ad andarsene. Roba da medioevo. In
certi casi, discutendo con i pazienti le possibili cause dei problemi di
salute, ci rendiamo conto che più che di un medico, alcuni hanno bisogno di un
assistente sociale, o addirittura di un avvocato”, spiega Gliozzi. Il centro ha
da poco conquistato un importante premio nazionale per il suo approccio
sperimentale.
Il comune di Lisbona ha attivato un numero verde per chi è stato sfrattato
o è a rischio sgombero, e si sta muovendo per ristrutturare e assegnare le case
popolari. Nel novembre 2019 sono stati aperti dei bandi per assegnare 120 alloggi
con affitti calmierati, rivolti soprattutto alla classe media. Solo nel primo
giorno si sono candidate più di mille persone, oggi sono quattromila. Il
sindaco Fernando Medina ha lanciato l’ipotesi di ampliare il programma,
affittando dai privati altri mille appartamenti per poi subaffittarli a prezzi
contenuti.
“L’abitazione è un diritto, ma è anche una merce. E il mercato sta
uccidendo il diritto, questo è chiaro”, sostiene Helena Roseta, 72 anni, in
politica da cinquanta, deputata all’assemblea costituente dopo la dittatura di
Salazar. All’inizio dell’ottobre 2019 ha lasciato la sua carica di
presidente del consiglio municipale di Lisbona e di deputata in parlamento, ma
prima si è battuta per far approvare una legge per il diritto a un’abitazione
adeguata per ogni cittadino. “Non darà una casa a nessuno, ma per lo meno
stabilisce regole e obblighi. Perché porti a dei risultati deve essere
applicata, ed è ciò che mi auguro”, sostiene.
Secondo Roseta – che si batte per il diritto alla casa dagli anni sessanta
– le stime sulla crisi abitativa a Lisbona e più in generale in Portogallo non
riflettono la realtà. “La situazione è sicuramente più grave”, spiega. Parlando
delle occupazioni che vedono come protagoniste le madri single, Roseta aggiunge
che “affrontare il problema della casa significa occuparsi anche della
discriminazione di genere e della violenza domestica”. Per questo ai gruppi di
attivisti per il diritto alla casa si è unito il movimento femminista di
Lisbona, così da affrontare il problema con un approccio intersezionale. “Molte
donne si trovano a dover scegliere tra la strada e la violenza”, spiega Roseta,
aggiungendo che “anche l’amministrazione di Lisbona si sta impegnando a tenere
conto di questo aspetto”.
Edna ha lasciato la casa dove è cresciuta a 15 anni, incinta, anche a causa
dei maltrattamenti subiti dal compagno della madre. Ora ha 29 anni e abita con
i suoi tre figli in un appartamento occupato di proprietà del comune. È nel
quartiere dove ha sempre vissuto, a Chelas, nella parte orientale di Lisbona.
“Sono stata buttata fuori da cinque case, ho un lavoro precario e il mio figlio
più piccolo ha problemi di respirazione. Non ho scelta”, dice mentre prepara
uno stufato di carne nella sua cucina. Edna è nata nell’ex colonia portoghese
di Sao Tomé e sta facendo le pratiche per ottenere la cittadinanza portoghese.
Racconta di aver fatto richiesta di una casa al comune già dieci anni fa. “A
volte mi assale la tristezza, ma non mi lascio deprimere. Non posso
permettermelo. Ho paura che mi tolgano la custodia dei bambini”, spiega.
Ha dipinto di rosa la camera di sua figlia di nove anni e ha da poco
cominciato a lavorare in un centro di assistenza per anziani, dove riceve il
salario minimo. “Cerco di mantenere viva la speranza, ma è dura”. Mostra una
notifica di sfratto ricevuta più di un anno fa. C’è scritto che aveva tre
giorni per lasciare la casa. “Ancora non sono venuti a buttarmi fuori. Ho il
cuore in gola ogni volta che sento bussare. Mi rilasso solo nei weekend perché
so che non lavorano”. I vicini l’aiutano: “Mi capiscono e mi proteggono”,
racconta. Forse perché conservano il ricordo di un’altra crisi abitativa,
quella degli anni della dittatura, quando nel quartiere c’erano le baracche
degli operai. Dopo il 25 aprile 1974, giorno della rivoluzione dei garofani
contro il regime, interi quartieri furono occupati da movimenti di sinistra e
studenteschi.
“Erano anni diversi, il popolo portoghese allora mostrò la sua forza, si
rese protagonista”, ricorda Helena Roseta. “Anche un grande politico
conservatore come Diogo Freitas do Amaral quarant’anni dopo ha difeso quelle
occupazioni. Per lui erano legittime, come la rivoluzione”.
Questo articolo è parte di un’indagine sulla
crisi abitativa a Lisbona condotta grazie al progetto europeo Horizon 2020 Rock.
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