(Intervista di Stella Levantesi)
Otto anni fa, nel 2012, il divulgatore scientifico e autore David Quammen
ha scritto nel suo libro Spillover
(Adelphi, 2014), una storia dell’evoluzione delle epidemie, che
la futura grande pandemia («the Next Big One») sarebbe stata causata da un
virus zoonotico trasmesso da un animale selvatico, verosimilmente un
pipistrello, e sarebbe venuto a contatto con l’uomo attraverso un «wet market»
in Cina.
Ma non si tratta di una profezia, Quammen è arrivato a queste conclusioni
attraverso ricerche, inchieste e interviste accompagnate dai dati scientifici
degli esperti.
Dalla sua casa in Montana, Quammen ci aiuta a comprendere meglio la
pandemia di coronavirus, la sua genesi e il suo sviluppo.
Come avviene lo «spillover»?
Spillover è il termine che indica quel momento in cui un virus passa dal suo
«ospite» non umano (un animale) al primo «ospite» umano. Questo è lo spillover.
Il primo ospite umano è il paziente zero. Le malattie infettive che seguono
questo processo si chiamiamo zoonosi.
Una delle sezioni del suo libro si chiama «Tutto ha un’origine», in che
modo la distruzione della biodiversità da parte dell’uomo e l’interferenza
dell’uomo nell’ambiente creano le condizioni per la comparsa di nuovi virus
come il coronavirus?
Nei nostri ecosistemi si trovano molti tipi diversi di specie animali,
piante, funghi, batteri e altre forme di diversità biologica, tutte creature
cellulari. Un virus non è una creatura cellulare, è un tratto di materiale
genetico all’interno di una capsula proteica e può riprodursi solo entrando
all’interno di una creatura cellulare.
Molte specie animali sono portatrici di forme di virus uniche. Ed eccoci
qui come potenziale nuovo ospite. Così i virus ci infettano. Così, quando noi
umani interferiamo con i diversi ecosistemi, quando abbattiamo gli alberi e
deforestiamo, scaviamo pozzi e miniere, catturiamo animali, li uccidiamo o li
catturiamo vivi per venderli in un mercato, disturbiamo questi ecosistemi e
scateniamo nuovi virus.
Poi siamo così tanti – 7,7 miliardi di esseri umani sul pianeta che volano
in aereo in ogni direzione, trasportano cibo e altri materiali – e se questi
virus si evolvono in modo da potersi trasmettere da un essere umano all’altro,
allora hanno vinto la lotteria. Questa è la causa alla radice dello spillover,
del problema delle zoonosi che diventano pandemie globali.
La distinzione tra zoonosi e non zoonosi aiuta in qualche modo a spiegare
perché l’uomo ha sconfitto certe malattie e non altre? In altre parole, è più
difficile “curare” le zoonosi? E se sì, perché?
Sì, è così. Il 60% delle malattie infettive umane sono zoonosi, cioè il
virus è stato trasmesso da un animale in tempi relativamente recenti. L’altro
40% delle malattie infettive proviene da altro, da virus o altri agenti
patogeni che si sono lentamente evoluti nel tempo insieme all’uomo.
Quindi possiamo sradicare le non zoonosi, il cui virus si è adattato solo a
noi e non vive in altri animali. Il caso più famoso è il vaiolo, che abbiamo
sradicato e ora esiste solo nei laboratori e non circola nella popolazione
umana. Siamo riusciti a farlo perché non vive anche negli animali.
Se il vaiolo vivesse in un pipistrello o in una specie di scimmia, allora
non potremmo liberarcene nella popolazione umana se non ce ne liberassimo anche
in quell’animale, dovremmo uccidere tutti quei pipistrelli o curare anche loro
dal vaiolo.
Ecco perché possiamo sradicare una malattia come il vaiolo ed è per questo
che alla fine non potremo mai sradicare una zoonosi, a meno che non uccidiamo
gli animali in cui vive.
Quindi, se un virus ci arriva dai pipistrelli, qual è la soluzione?
Dovremmo uccidere tutti i pipistrelli?
No, la soluzione è lasciare i pipistrelli in pace, perché i nostri
ecosistemi hanno bisogno dei pipistrelli.
Riguardo ai pipistrelli, il fatto che siano mammiferi come gli esseri
umani rende più facile la trasmissione del virus da loro a noi? È proprio
perché siamo entrambi mammiferi che lo «spillover» è più probabile?
Sì, è così. Molti dei virus che hanno causato le zoonosi negli ultimi 60
anni hanno trovato il loro ospite nei pipistrelli. Sono mammiferi come noi e i
virus che si adattano a loro hanno più probabilità di adattarsi a noi rispetto
a un virus che è in un rettile o in una pianta, per esempio.
La seconda ragione è che i pipistrelli rappresentano un quarto di tutte le
specie di mammiferi sul pianeta, il 25%. È naturale, quindi, che sembrino sovra
rappresentati come fonti di virus per l’uomo.
Ci sono un altro paio di cose oltre a questo che rendono i pipistrelli
ospiti più probabili, vivono a lungo e tendono a rintanarsi in enormi
aggregazioni. In una grotta, potrebbero esserci anche 60.000 pipistrelli e
questa è una circostanza favorevole per far circolare i virus.
C’è un’altra cosa che gli scienziati hanno scoperto da poco: il sistema
immunitario dei pipistrelli è più tollerante ad «estraneità» presenti nel loro
organismo rispetto ad altri sistemi immunitari.
Da quanto ho capito le epidemie della storia non sono indipendenti l’una
dall’altra ma, in qualche modo, sono collegate e ricorrenti per i motivi di cui
abbiamo parlato prima, quindi dove vanno a finire i virus quando non presentano
una minaccia diretta agli esseri umani?
Questa epidemia è talmente diffusa che potrebbe non scomparire del tutto,
ma provo a fare un esempio diverso: l’Ebola nel 2014 in Africa occidentale. Non
conosciamo ancora l’ospite con certezza ma sospettiamo che si tratti di
pipistrelli. Si scatena un’epidemia che uccide migliaia di persone, medici e
scienziati rispondono alla minaccia e finalmente rallentano l’epidemia che poi
sparisce. Dove va a finire il virus? Se ne va? No, è ancora nell’ospite.
I virus non tornano dall’essere umano all’ospite ma il virus continua a
risiedere nell’ospite. E questo è ciò che accade con la maggior parte di queste
epidemie. Arrivano, colpiscono gli esseri umani, le persone soffrono, muoiono,
gli esperti sanitari rispondono, l’epidemia viene messa sotto controllo,
l’epidemia scompare e poi passano diversi anni prima che si ripeta. Dov’è il
virus nel frattempo? È nell’ospite.
C’è una correlazione tra l’aumento del tasso di inquinamento in alcune zone
e un impatto più forte del virus sulla popolazione di quella zona?
Sì, penso che ci possa essere una correlazione tra l’inquinamento dell’aria
e i danni ai polmoni e alle vie respiratorie delle persone e quindi la loro
suscettibilità a questo particolare virus. Credo che questa sia una domanda
importante. Non abbiamo ancora risposte certe ma è una domanda che merita
ricerca e attenzione.
È del tutto possibile che il danno ai polmoni delle persone, anche quando
non si nota in circostanze normali, possa essere presente e sufficiente a
renderle più vulnerabili a questo virus.
Un altro aspetto è che i sintomi arrivano più tardi del contagio. Quindi
non c’è nessun allarme da parte dell’organismo che dice: «Sei infetto». Questo
può rendere il Covid-19 più pericolosa di altre malattie che mostrano i sintomi
prima?
Sì, la rende più pericolosa. Credo di aver scritto in Spillover che
siamo stati fortunati con la Sars perché era un virus molto pericoloso: si
diffondeva facilmente da un essere umano all’altro e aveva un alto tasso di
mortalità, quasi il 10%, eppure, sarebbe stato peggio se le persone fossero
state contagiose ancor prima di manifestare i sintomi. E ho scritto: «Dio non
voglia che avremo a che fare con un virus grave come la Sars che si diffonde
dalle persone prima che si vedano i sintomi». In questo momento abbiamo
esattamente questo caso di virus.
Dicono che quando un proiettile ti colpisce non senti mai il colpo, perché
il proiettile arriva prima e poi il suono arriva dopo. Questo virus funziona
così.
Ho notato che la disinformazione scientifica che riguarda il coronavirus ha
molti punti di contatto con le dinamiche della disinformazione climatica. Qual
è la sua opinione al riguardo? E quanto è importante affrontare la
disinformazione scientifica?
È estremamente importante affrontare la disinformazione scientifica. C’è
sicuramente una sovrapposizione rispetto al cambiamento climatico. Ci sono
persone che sono impazienti, arrabbiate e poco informate. Ricevono notizie da
fonti inaffidabili e hanno appetito per una forma negativa di eccitazione.
Hanno più interesse per le cospirazioni che per la scienza. La disinformazione
si diffonde facilmente.
Dov’è la soglia limite tra l’offerta di notizie accurate, credibili,
trasparenti e accessibili a tutti e il bombardamento continuo di “notizie” sul
virus?
Esiste un limite e di informazione può essercene troppa. Viviamo in un
mondo dove i media sono attivi 24 ore su 24 e vogliono aggiornamenti e occhi.
Vogliono che la gente consulti la loro piattaforma perché hanno qualcosa un
minuto prima di un’altra. È un tipo di competizione che non fa bene a nessuno –
a parte agli azionisti della piattaforma stessa. Quindi penso che noi, come
consumatori di notizie, dobbiamo resistere all’ossessione di sapere quale sia
l’ultimo dato, l’ultimo caso, l’ultima notizia dell’ultima ora.
Dobbiamo seguire l’informazione sul virus, prestare attenzione al problema
ma abbiamo bisogno anche di altre cose. Abbiamo bisogno di una copertura sul
coronavirus che approfondisca le cause e gli effetti, ma anche di storie che
non riguardino il coronavirus. Abbiamo bisogno di musica, di comicità, di arte, di persone che parlano di libri –
e non solo del mio.
Che ruolo ha il sentimento di paura nelle dinamiche di comportamento
collettivo durante una pandemia?
La paura è umana ed è naturale. Ma non è utile. Dobbiamo imparare di più su
questo virus e prendere misure adeguate per controllarlo. Dobbiamo stare
attenti, poi, che l’allontanamento sociale e l’autoisolamento non portino
all’allontanamento emotivo e non cominciamo a vedere l’altro come una minaccia
o un nemico. Quindi distanza sociale sì, ma con una connessione emotiva.
Cosa possiamo imparare da questa pandemia?
Prima di tutto possiamo imparare che le zoonosi possono essere molto
pericolose e costose e dobbiamo essere preparati nell’affrontarle. Dobbiamo
spendere molte risorse e molta attenzione nella preparazione.
Più posti letto in ospedale, più unità di terapia intensiva, più
ventilatori, più mascherine, più formazione del personale sanitario, più
formazione degli scienziati. Studiare piani di emergenza a livello locale,
regionale, nazionale e tutto questo costa denaro.
L’altra cosa che dobbiamo imparare è che il modo in cui viviamo su questo
pianeta ha delle conseguenze, delle conseguenze negative. Noi dominiamo questo
pianeta come nessun’altra specie ha mai fatto. Ma ci sono conseguenze e alcune
prendono la forma di una pandemia da coronavirus. Non è una cosa che ci è
capitata. È il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo.
Tutti ne siamo responsabili.
Ovviamente nessuno conosce davvero la risposta a questa domanda, ma come
vede il mondo dopo il coronavirus? Cosa pensa che cambierà per le società e per
la vita delle persone?
Spero che alla fine anche persone come Donald Trump imparino a prendere sul
serio queste cose. Dobbiamo fare degli aggiustamenti. Potrebbe essere che
inizieremo a ridurre il nostro impatto in termini di clima, di tutti i
combustibili fossili che bruciamo, in termini di distruzione della diversità
biologica, di invasione dei diversi ecosistemi. Forse cominceremo ad avere un
passo più attento e più leggero su questo pianeta. Questo è quello che spero,
ed è l’unico bene che può venire da questa esperienza.
da qui
Il virus è la malattia del pianeta stressato - Gianni Tamino
(Intervista di Francesco Bilotta)
Intorno alla pandemia causata dal nuovo coronavirus si sta sviluppando un intenso dibattito sugli aspetti sanitari. Anche nel campo delle scienze sociali, per l’impatto che il virus sta avendo sulle nostre abitudini e stili di vita, si stanno producendo riflessioni ed analisi.
Si è sviluppato solo parzialmente, invece, il dibattito sul rapporto che intercorre tra la condizione ambientale e l’insorgenza di una epidemia. Per contribuire a colmare questo vuoto ci siamo messi in contatto con il professor Gianni Tamino (docente di Biologia generale all’Università di Padova, dove attualmente svolge attività di ricerca nel campo dei rischi legati alle applicazioni biomolecolari), impegnato da molti anni a indagare il rapporto tra ambiente e salute.
Quale relazione esiste tra questa pandemia e le profonde trasformazioni che il pianeta sta subendo? Lei ha più volte fatto riferimento alla capacità di carico e al deficit ecologico che sta caratterizzando il pianeta.
Sulla base della capacità di carico si può misurare la capacità rigenerativa del pianeta. Nel caso della popolazione umana si parla di «impronta ecologica». L’Overshoot Day indica il giorno in cui il consumo delle risorse supera la produzione che la Terra mette a disposizione per quell’anno. Per il 2019, il giorno è stato il 29 luglio. Significa che in sette mesi abbiamo esaurito tutte le risorse che il pianeta rigenera in un anno. Bisogna risalire agli anni ’80 per trovare un equilibrio tra risorse consumate e risorse rigenerate dalla Terra. Si è determinato un deficit ecologico che comporta esaurimento delle risorse biologiche e, nello stesso tempo, produzione di rifiuti, effetto serra, alterazione della biodiversità, con squilibri che sono alla base dell’insorgenza di molte malattie. Quanto più si superano i limiti della disponibilità del territorio e si altera l’ambiente, tanto maggiore sarà la frequenza con cui si manifestano carestie, guerre, epidemie. Il rapporto del 1972 su I limiti dello sviluppo anticipava molte delle questioni attuali.
Le risorse naturali vengono consumate a un ritmo sempre più accelerato e cresce la produzione agricola, ma non si riescono a soddisfare le esigenze alimentari della popolazione. Il cibo prodotto sarebbe sufficiente per tutti, ma malattie e malnutrizione sono presenti in diverse aree del pianeta.
La Fao calcola che la produzione attuale di cibo sarebbe in grado di sfamare fino a nove miliardi di persone, ben al di sopra dell’attuale popolazione. Sta di fatto che un miliardo di persone soffre la fame a causa di forme di produzione non sostenibili e una iniqua distribuzione. La riduzione delle terre coltivabili, la perdita di fertilità dei suoli, l’estensione delle monocolture, l’inquinamento ambientale, sono alcuni dei fattori che incidono sulla disponibilità di cibo. Il 70% della superficie agricola è destinata alla produzione di mangimi per animali. La biomassa del miliardo e mezzo di bovini che viene allevato è molto di più della biomassa umana. Inoltre, lo spreco alimentare, pari al 30% di tutta la produzione che si verifica nel corso di tutto il processo produttivo e distributivo, aggrava la situazione.
I cambiamenti climatici e l’alterazione degli habitat creano le condizioni favorevoli all’insorgenza di malattie cronico degenerative e di epidemie. Quale è il legame tra un ambiente degradato e la diffusione di una epidemia?
Le enormi quantità di energia di origine fossile che abbiamo impiegato a partire dalla Rivoluzione Industriale hanno prodotto una situazione che rischia di diventare irreversibile. I cambiamenti climatici e l’inquinamento del pianeta rappresentano una seria minaccia per il mantenimento degli ecosistemi e della biodiversità. L’inquinamento ambientale sta producendo gravi conseguenze sulla salute umana ed è responsabile della morte prematura di almeno 10 milioni di persone ogni anno nel mondo. L’incremento di malattie cronico degenerative sta determinando un indebolimento di ampie fasce della popolazione, che risulta meno idonea a difendersi dalle malattie infettive e dalle nuove epidemie.
Il contatto sempre più ravvicinato con gli animali selvatici e i loro patogeni rendono più facile il salto di specie, ma anche gli allevamenti intensivi rappresentano una condizione potenzialmente pericolosa per la diffusione di epidemie.
Il salto di specie di un virus da un animale all’uomo è sempre un evento preoccupante, sia che si tratti del pipistrello (per il nuovo coronavirus) o dei polli e suini (per l’influenza aviaria e suina), perché la popolazione è priva di difese immunitarie specifiche e il virus non trova ostacoli. Per questo è necessario contenere la diffusione riducendo i contatti tra le persone. In questi mesi stiamo affrontando una pandemia virale, ma il futuro potrebbe riservarci pandemie causati da batteri resistenti ad ogni trattamento farmacologico. Negli allevamenti intensivi, a causa dell’elevata concentrazione di animali e del massiccio impiego di antibiotici, si creano le condizioni favorevoli allo sviluppo di ceppi batterici resistenti. Se una salmonella o un ceppo di Escherichia coli sviluppassero resistenza agli antibiotici, si determinerebbe una situazione drammatica perché non saremmo in grado di controllare il contagio.
Un rapporto dell’OCSE del 2018 afferma che nei prossimi 10 anni avremo più di 600 milioni di persone residenti in aree segnate da conflitti, in condizioni di povertà ed esposte a epidemie.
Si tratta dell’80% della popolazione più povera del mondo che si trova all’interno di stati fragili e che vive una condizione di emergenza a causa dei cambiamenti climatici. Le popolazioni fragili e indebolite di questi paesi sono «terreno fertile» per la diffusione di epidemie. La precaria condizione sanitaria non consente di affrontare le epidemie che dovessero insorgere e che le inevitabili migrazioni trasformerebbero in pandemie.
Recentemente ha affermato che questa pandemia può essere un «utile avvertimento» per evitarne di nuove e più gravi.
Il Covid-19 è una reazione allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta. Questa pandemia non ha una letalità elevata, anche se è alta la contagiosità. Nella Pianura Padana, soprattutto in Lombardia, sta colpendo una popolazione anziana e indebolita da patologie pregresse. E l’inquinamento dell’ambiente svolge un ruolo fondamentale nell’insorgenza di queste patologie. Riusciamo a tenere in vita più a lungo le persone, ma non siamo in grado di garantire una vita sana. A fronte di una età media più elevata, la nostra «aspettativa di vita sana» si è ridotta. Per arginare le future epidemie dobbiamo modificare il nostro rapporto con l’ambiente, ma anche potenziare le strutture sanitarie pubbliche che vengono smantellate in tutti i paesi.
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