Provare a leggere i risultati della COP21
di Parigi inforcando un paio di lenti bifocali potrebbe essere esercizio utile
e necessario, piuttosto che fermarsi al contingente, alla buccia esterna di un processo negoziale che si trascina da
anni, e che è andato via via aggregando altri processi, ed altre iniziative. Un
paio di lenti bifocali che permettano di decodificare quello che è successo a
Parigi, e quel che ci aspetta nel futuro. Queste lenti però sono fatte di altro materiale, non
sono quelle che trovi nei libri di scienza, di climatologia, nelle migliaia di
elaborazioni sulla capacità di assorbimento della Terra o delle foreste
incontaminate, non sono quelle riposte nei cassetti di governanti, o uomini
d’affari, o condivise con solerti esperti, professionisti d’impresa o del mondo
non-governativo.
Sono lenti costruite alla
buona, che si tengono con un pezzo di scotch e l’elastico, e che permettono di
vedere tutto da un’altra prospettiva. E’ giunto quindi il momento di sforzarsi di mettersi
dall’altra parte. Dalla
parte dell’aria e del cielo. Dalla
parte della Terra e di chi la abita, non per una sorta di slancio mistico o
ecocentrico. Forse in parte
c’entra l’urgenza di ammettere che noi umani siamo ben poco rispetto agli
enormi stravolgimenti che provochiamo, rispetto alla complessità e delicatezza
degli equilibri del vivente e che
quindi sarebbe buona cosa alleggerire il nostro zaino e la nostra impronta
ecologica. Mettersi dalla parte dell’aria e del cielo, oggi offuscati da una
densa nube di smog, soffocante, attraversati da perturbazioni anomale, ondate
di pioggia e calore e freddo, cicli migratori impazziti, nuvole che non si
lasciano più leggere da saperi ancestrali, significa provare ad assumere una
prospettiva altra, decolonizzata, femminile, di una Madre che la furia produttivista e l’ossessione della crescita
stanno rapidamente decomponendo. Ricordo uno studio molto bello di una
ricercatrice della CUNY di New York sull’Antartide, simbolo plastico del
tragico impatto del climate change, Elena Glasberg si chiama. Studiando la
storia “ufficiale” della conquista dell’Antartide,
scritta e fatta essenzialmente da maschi, da uomini desiderosi di conquistare
anche quell’ultimo lembo di terra ignota,
la Glasberg proponeva un punto di vista altro, ispirato all’approccio
post-coloniale e “queer”, ossia quello di mettersi dalla parte del ghiaccio, e
rileggere quel mito della conquista attraverso una lente di genere.
Ossia “Antarctica as a cultural
critique: the gendered politics od scientific exploration and climate change” .
Chissà forse non è un caso che la Terra sia
madre, e come una Madre è legata indissolubilmente alla nostra esistenza, ad
ogni nostra cellula primordiale. Parigi, quindi, un appuntamento atteso, un punto di
arrivo importante pieno di aspettative e realistiche disillusioni. Forse mai
come nella capitale francese è risultato evidente lo iato tra la narrazione
“mainstream” dei cambiamenti climatici e quella che prendeva forma e sostanza
all’esterno, tra le strade, nei quartieri marginali, nella partecipazione di
persone d’ogni dove, che non solo hanno avuto la briga di sfidare divieti e
proibizioni, ma hanno costruito una prospettiva altra di giustizia ecologica e
sociale. Le
carte approvate a Parigi vanno analizzate e bene. Ci
dicono che i governi di ogni parte del mondo non ritengono che i cambiamenti
climatici siano una questione che riguarda i diritti umani, non pensano che siano soggetti
di diritto quelle migliaia e migliaia di persone, uomini e donne che rischiano la loro stessa sopravvivenza, che abitano
terre sempre immaginate come paradisi incontaminati, che siano quelli dipinti
da Paul Gauguin o quelli declamati in brochure di agenzie di tour
all-inclusive. Quelle Maldive, o quelle migliaia di schegge di terra e roccia,
sabbia e corallo del Pacifico.
Ci
dicono che le migliaia e migliaia di persone che sono costrette a migrare,
senza terra ed acqua e senza cibo restano solo nella contabilità della
carità privata o delle agenzie di cooperazione e aiuto umanitario. E che l’interesse sovrano dei paesi e delle nazioni sarà
quello di poter avere carta bianca nell’escogitare l’ennesimo stratagemma per
rinviare a data da definire il momento nel quale si dovrà cessare di pompare
petrolio dalle viscere della terra. Ai
tavoli del negoziato questa partita si giocava su una tastiera di computer,
tagliando e cucendo parole, aggiungendo e rimuovendo parentesi. Al di fuori , nella realtà in carne ed ossa, questo
giochino di editing significa dolore e sofferenza ed a Parigi già si sapeva
come sarebbe andata a finire. Si dice in inglese “self-fulfilling
prophecy”.
La stragrande maggioranza di paesi avevano fatto le loro
offerte sul tavolo, messo la loro posta, scritto nero su bianco quel che
avrebbero inteso fare per contribuire al contenimento dell’aumento della
temperatura. Cifre che fanno la differenza: 2 gradi o 1,5 oppure 3? Insomma un gioco d’azzardo, che gli abili negoziatori hanno risolto con un
testo che mette insieme un po’ tutto, una meta o “aspirazione” (abituiamoci fin d’ora a questo
nuovo gergo, “aspirational” “transformational”, e non più obiettivi vincolanti
o ben definiti) verso il contenimento dell’aumento della temperatura di 1,5 gradi
rispetto ai livelli preindustriali. Senza lacci e lacciuoli, senza vincoli, che ancora una volta ci penserà il mercato con la
sua capacità taumaturgica. Una mano invisibile che però diventa assai visibile
quando conficca nuove torri di prospezione e trivellazione, nei ghiacci, nei
mari e nelle foreste, quando abbatte foreste primarie per sostituirle con
piantagioni di agrocombustibili, o espelle comunità ree di gestire quegli
ecosistemi da millenni, con il pretesto di tenerli integri e assicurare che
possano assorbire quei gas tossici che i vecchi e nuovi Nord del mondo
continueranno a produrre. O che pompano sottosuolo l’anidride carbonica. Lo chiamano “net negative emissions” in gergo, altro escamotage
per far capire che a parte qualche correzione, la rotta è sempre quella,
tracciata e segnata dall’ideologia del capitalismo estrattivista. Ecco
mettersi dalla parte del cielo oggi significa decidere di decodificare e
svelare l’inganno, che si insinua in ogni piega.
Far
saltare vecchie retoriche che vedevano un Nord geograficamente delimitato
sfruttare ed abbrutire un Sud colonizzato. Da tempo ormai quel Sud e quel Nord non esistono se non
nei manuali di geopolitica o del politicamente corretto. Oggi esistono comunità
umane ed ecosistemi che a Nord come a Sud soffrono dei cambiamenti climatici,
vengono violati per cercare altro combustibile, comunita’ che resistono e
praticano alternative. Non
è un caso che nessuno a Parigi si sia messo d’accordo nel riconoscere che
l’unica via possibile è quella di uno shock petrolifero, sia ben chiaro non quello dei mercati, ma una terapia
shock che preveda la fine delle attività di prospezione ed esplorazione ed un
progressivo ma rapido restringimento del volume di combustibili fossili
estratti nel mondo. I numeri parlano chiaro: a fronte di circa 800 miliardi di dollari spesi ogni anno dalle
imprese petrolifere per andare a cercare altro petrolio o gas poco più di 100
miliardi vengono stanziati ogni anno per sostenere i paesi in via di sviluppo
nella loro transizione ecologica.
E di questi la gran parte sono prestiti, o fondi privati
di imprese o istituzioni finanziarie che andranno a riaccendere la nefasta
spirale del debito, un debito doppio, ecologico e finanziario. Se ci mettessimo dalla parte del cielo, per evitare di continuare
ad essere soffocati lentamente ed inesorabilmente, dovremmo decidere di
lasciare sottoterra l’80 percento delle riserve conosciute.E’ la scienza che lo dice, ma la politica fa un uso
selettivo e di comodo della scienza, e così a Parigi nulla fu deciso al
riguardo. Né all’obbligo morale di
risarcire coloro che hanno sofferto perdite e danni a causa dei cambiamenti
climatici. Eppure la vulgata ufficiale, quella delle Nazioni Unite,
dei governi, delle grandi ONG spesso affette da una sorta di sindrome di
Stoccolma, ci dice che Parigi è un iniziale successo. Ci invitano a vedere il
bicchiere mezzo pieno, quando il bicchiere ormai è pieno di crepe e
slabbrature. E sembrano sordi riguardo l’urgenza appunto di cambiare occhiali. Le nostre lenti bifocali ci aiutano quindi a decodificare
e disvelare, ed allo stesso tempo mettere bene a fuoco.
E così dall’altra parte del cielo si materializza un cantiere in corso, donne, contadini, lavoratori,
cittadini e cittadine, attivisti, pacifisti, ecologisti, comunisti o
post-comunisti, leader indigeni, piccoli imprenditori che praticano
altraeconomia, filosofi
ed artisti, catene umane, e linee rosse. Un cantiere che si avvale di una nutrita
cassetta degli attrezzi: concetti quali debito ecologico e giustizia climatica,
decarbonizzazione, “keep the oil underground”, stop alla De CO2lonizzazione,
riconoscimento dei diritti della natura e delle comunità, ecocidio, resistenza
nonviolenta.Quest’altra metà
del cielo a Parigi ha dichiarato uno stato di emergenza climatica e costruito la propria agenda quella dei popoli e della Terra. Lo ha fatto appunto intrecciando la critica al modello di
sviluppo alla critica alla fase attuale del capitalismo estrattivista, a
strutture di potere patriarcale dove l’umano è sempre solo sinonimo maschile,
alla costruzione di linguaggi e pratiche autenticamente “decolonizzate”. La lente bifocale aiuta anche a guardare oltre allora. E l’oltre,
la prospettiva, sarà quella di riprendersi in mano il proprio destino, dal
basso, continuando a costruire reti e relazioni, scambiando conoscenze e
pratiche, tessendo una trama di resistenza piuttosto che accontentarsi della
resilienza, e mettendo le nostre
menti e i nostri corpi tra il cielo e la terra, trivelle e bulldozer.
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