La ventunesima conferenza delle parti di
Parigi aveva l’obiettivo di arrivare a un accordo
universale e legalmente vincolante per mantenere il riscaldamento globale entro
i due gradi. La
concentrazione di gas climalteranti, e di CO2 in particolare, è già ben oltre i
limiti che il pianeta può sopportare senza subire effetti irreversibili. Anche
se un accordo ambizioso fosse raggiunto, bisognerebbe comunque considerare l’inerzia del processo e i tempi per arrivare a una
effettiva diminuzione di tali gas in atmosfera.
Per questo sempre più scienziati e osservatori insistono
sul fatto che l’unica strada possibile sia quella non estrarre, ma tenere
all’interno della crosta terrestre buona parte delle riserve di combustibili
fossili già scoperte. Semplicemente, la Terra non può
sostenere la combustione di tutto il gas, il petrolio e il carbone esistenti.
Secondo alcune ricerche, tra il 60 e l’80 per cento delle riserve note e
teoricamente disponibili non vanno bruciate se vogliamo avere una possibilità
di mantenere il riscaldamento globale
entro il limite dei 2°C.
C’è però un problema:
la finanza. La finanza governa sempre più
l’economia ma non pare proprio in grado di gestire positivamente temi che hanno
effetti sul medio lungo periodo. Non può farlo strutturalmente, continuando a
ragionare su quotazioni di brevissimo periodo, e perché prospera anticipando
ricavi futuri.La quotazione in Borsa delle aziende
attive nel settore dei combustibili fossili è legata al livello di scorte che
queste hanno a disposizione.L’impresa
segnala al mercato che controlla una data scorta di barili di petrolio, quindi
che potrà assicurare l’estrazione e la commercializzazione per un determinato
periodo. Le scorte hanno un valore economico che
si riflette direttamente su quello dell’impresa e sulla sua quotazione in Borsa.
Nel momento in cui si dovesse decidere
che buona parte di tali scorte non saranno estratte ma dovranno rimanere nel
terreno, rischierebbe di crollare il valore delle imprese del settore, ovvero
la loro quotazione in Borsa. In
inglese si parla di stranded assets, traducibile
come “attivi non recuperabili”. A cascata gli impatti ricadrebbero su fondi
pensione, fondi di investimento e altri risparmiatori che hanno investito in
tali società.
Il settore petrolifero
in media capitalizza il 10 per cento circa delle borse, senza considerare i
settori strettamente correlati, dai trasporti all’energia. Nel
complesso, parliamo di una porzione più che rilevante delle borse mondiali. Uno
studio segnala che le perdite potenziali – per mantenere il riscaldamento
globale entro i 2°C – sono stimabili in 20.000 miliardi di dollari.
Una cifra pari alla capitalizzazione della più grande Borsa del mondo, quella
di New York o, volendo rimanere da noi, circa
40 volte la capitalizzazione di tutte le imprese quotate alla Borsa di Milano. Sul clima, nel silenzio dei media, si sta
giocando una partita delle dimensioni di Wall Street. Ci possiamo permettere
un’altra crisi finanziaria? Si per il futuro del pianeta ma forse no per
l’immediato…
Non a caso alcune delle più grandi
compagnie petrolifere del pianeta, tra cui l’italiana Eni, hanno proposto una loro soluzione per Parigi. Quale? “To introduce carbon pricing systems”
ovvero fissare un sistema di prezzi per il carbonio. Un certo quantitativo di
emissioni corrisponderebbe così a un determinato costo, il che costituirebbe un incentivo a emettere meno e a
cercare soluzioni pulite.
Senza entrare nel merito delle enormi
critiche agli attuali meccanismi di compravendita di emissioni e di quanto
siano stati inefficaci nel porre un qualsivoglia limite, la presunta soluzione delle big del petrolio non
può essere considerata tale. Non solo non si rimettono in discussione le
riserve, ma si passa dal principio secondo il quale chi inquina paga a quello per cui chi paga può
inquinare. Ci vuole davvero uno sforzo di
fantasia per sostenere che l’attuale sistema finanziario, uno dei principali
problemi anche nel raggiungimento di un accordo vincolante sul clima, possa al
contrario rappresentare una soluzione.
Come è possibile
pensare che il mercato possa sostituirsi alle responsabilità politiche e
istituzionali nella gestione di un bene pubblico globale quale il clima? Spingendo al parossismo l’ideologia secondo la
quale qualsiasi attività, bene o servizio deve essere valutato unicamente in
termini di prezzo, ci sarà una domanda e un’offerta di CO2, e la mano invisibile
del mercato farà il resto. In una lettera ai media, le imprese petrolifere
segnalano che “saranno le forze del mercato a operare” per una riduzione del
carbonio. È semplicemente inammissibile pensare che un compito essenziale delle
istituzioni, della politica e dell’insieme della società, ovvero la necessità di un accordo ambizioso e vincolante, venga svenduto
al mercato;pensare che gli Stati si ritirino per
lasciare mano libera alla finanza persino parlando di ambiente e clima.
Per ora il mercato finanziario
ha fatto di tutto per ignorare il cambiamento climatico, per negarlo, per sottovalutarlo. Salvo ammettere
repentinamente che esiste e che … è troppo tardi. Siamo alla 21esima
conferenza sul clima! Come possiamo credere che il mercato ci possa riuscire in
futuro? La strada da seguire deve essere
diametralmente opposta. Non
solo abbandonare meccanismi finanziari tanto iniqui quanto pericolosi, ma
ridimensionare il ruolo complessivo della finanza e non lasciare che questa
minacci il nostro futuro e i nostri diritti. Come singoli possiamo fare
qualcosa.Prima di tutto assicurarci che i nostri
risparmi non siano investiti in titoli finanziari il cui valore dipende da
quanti combustibili fossili verranno bruciati nei prossimi anni. Campagne per disinvestire da tali imprese sono
già attive in molti Paesi, come la campagna Divest
Italy.
È poi necessario fare sentire la nostra
voce (molte organizzazioni della società civile italiana si sono unite in
vista di Parigi nella Coalizione Clima). Una finanza che ha già previsto e prezzato tutte le
scorte esistenti sul pianeta e le ha già quotate e vendute in Borsa pretende di
imporre la propria “soluzione” ai governi e ai cittadini di tutto il mondo. Una finanza che in pratica ha già messo un prezzo e
venduto il nostro futuro. O meglio un nostro futuro. Che non solo non vogliamo,
ma prima ancora non possiamo permetterci. Per questo, se non vogliamo che
Parigi si risolva in un fallimento, dobbiamo fare una scelta. La questione è se siano più importanti le quotazioni
di Borsa o la nostra stessa sulla Terra. O la borsa o la vita.
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