La questione
ambientale, come emerge da più parti, è profondamente interconnessa con la
pandemia in corso. «Migliorare la salute dell’uomo e degli animali, insieme a
quella delle piante e dell’ambiente, è l’unico modo per mantenere e preservare
la sostenibilità del Pianeta» ha dichiarato a Greenpeace Ilaria Capua, virologa
di fama internazionale. L’origine delle pandemie è infatti legata alla
distruzione dell’ambiente e della biodiversità, del sistema alimentare basato
sugli allevamenti intensivi e sappiamo che il riscaldamento globale rischia di
riproporre emergenze sanitarie come quella che stiamo vivendo. Questo sia
ampliando l’areale di malattie tropicali trasmissibili da zanzare, cosa già in
atto con la dengue, chikungunya, e Zika, sia per lo scongelamento dei ghiacci e
del permafrost che potrebbero liberare virus e patogeni anche di epoche remote.
Una recente ricerca sui ghiacciai tibetani ha evidenziato la presenza di 28
virus sconosciuti e nel 2016 un focolaio di antrace, virus potenzialmente
letale, era emerso in Siberia a seguito dello scongelamento del permafrost.
La questione tutta politica è quella della direzione, bisognerà dirigere gli
stimoli per la ripresa economica del post-pandemia: se verso i settori
tradizionali – come promette Trump per aiutare i suoi grandi elettori
petroliferi – o verso nuovi settori per una svolta nel senso del «Green Deal».
I produttori
di auto europei hanno già chiesto un allentamento del regime di emissioni di
CO2, dunque cercano di spostare l’asse verso la conservazione del passato.
Invece la necessità di una svolta è una affermazione condivisa da molti, dai
Fridays For Future, dal movimento ambientalista ai promotori del Manifesto di
Assisi e, anche da parte istituzionale, la necessità di un Green Deal è stata
ribadita sia dal Presidente del Consiglio Conte che dalla Presidente della
Commissione Europea von der Leyen.
La lettera
aperta dei ricercatori raggruppati ne «La scienza al voto» ha ricordato che la
riconversione dalle fossili alle rinnovabili richiede «uno sforzo limitato,
rispetto a quanto stiamo facendo per il coronavirus, quantificabile in pochi
punti percentuali di PIL, spalmato su molti anni e, se ben gestito,
affrontabile dagli Stati e dalla comunità internazionale senza forti
ripercussioni sui cittadini». E, ricordano, che i benefici delle politiche di
riduzione delle emissioni di gas serra si estendono anche in termini di
inquinamento dell’aria (di altri gas, che non impattano sul clima ma sulla
salute). Lo smog, già responsabile di decine di migliaia di morti premature in
Italia, potrebbe aver giocato, come avanzato da più parti, un ruolo nel
peggiorare l’impatto della pandemia.
L’analisi
dell’Economist sulla pesante crisi petrolifera legata alla pandemia da Covid19
conclude che le aziende petrolifere farebbero bene a prendere questa come un
esempio di quello che verrà, dopo che la pandemia sarà finita. E, cioè, che
molti nostri comportamenti cambieranno. Nel frattempo, si è verificato il
crollo del prezzo del brent fino a valori negativi, fatto mai registrato nella
storia, con previsioni di ripresa dopo la pandemia che gli analisti fissano a
20$ al barile, dunque un prezzo molto basso.
Anche il
settore delle rinnovabili ha subito un contraccolpo dalla pandemia ma pare in
proporzioni inferiori. Ed, essendo le principali tecnologie rinnovabili
(solare, eolico) dedicate alla produzione di elettricità, la competizione
tecnologica non è tanto col petrolio quanto col gas. Questo rimane lo
spartiacque delle politiche energetiche in Italia: se continuare a frenare le rinnovabili
per difendere il mercato del gas, o se accelerare, e di molto, con la
transizione energetica. Il piano «verde» dell’Eni è basato su una tecnologia
non provata e di dubbia sicurezza ambientale, il Ccs (reiniettare le emissioni
di CO2 nel sottosuolo), protezione delle foreste (!) e troppo poche rinnovabili
nell’orizzonte decisivo per le politiche climatiche. Eni continuerà a estrarre
petrolio (meno) e molto gas, mantenendo dunque comunque il grosso delle
emissioni di CO2 legate al core business che, invece, in una politica seria del
clima deve radicalmente cambiare. Ma il governo, temiamo, non glielo chiederà
dopo la riconferma di De Scalzi. Un piano serio dovrebbe puntare pesantemente a
far cambiare mestiere all’azienda: rinnovabili, gas di sintesi a partire da
rinnovabili, industria dell’efficienza energetica. Un vero Green Deal dovrebbe
includere, tra le altre cose, il vincolo degli aiuti a banche e grandi aziende
che abbiano piani coerenti con l’Accordo di Parigi. Per essere chiari, le
banche che continuano a finanziare le fonti fossili dovrebbero essere escluse
da qualunque aiuto pubblico. Sarà necessario rivedere in profondità il Piano
Nazionale Energia e Clima (Pniec), anche in vista dell’imminente rivisitazione
degli obiettivi 2030 UE a cui si ispira, limitando in particolare l’uso del gas
fossile e lavorando per uno sviluppo più ambizioso delle fonti rinnovabili,
specialmente prima del 2025.
Bisogna
iniziare a ridurre i sussidi alle fonti fossili e spostarli verso altri
settori, dalla mobilità elettrica nelle sue varie forme, agli ecoincentivi per
la ristrutturazione profonda degli edifici. L’incentivazione di una mobilità
sostenibile, a partire dalla ciclabilità delle città come sta già avvenendo ad
esempio a Parigi, è una priorità per il progressivo rientro alla «normalità» e
la difficoltà – speriamo momentanea – dell’utilizzo dei mezzi pubblici, mentre
ancora il virus non è stato debellato. Un piano di ristrutturazione profonda
degli edifici per aumentarne l’efficienza e l’uso di rinnovabili, avrebbe un
effetto occupazionale importante in un settore centrale dell’economia italiana.
Il governo
deve adesso dimostrare se fa sul serio quando parla di sostenibilità o se
intende continuare a proteggere i settori fossili che ci bloccano su schemi di un
passato che dobbiamo a tutti i costi superare.
*direttore
di Greenpeace Italia
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