giovedì 23 aprile 2020

Post-Covid, serve un vero piano verde - Giuseppe Onufrio*


La questione ambientale, come emerge da più parti, è profondamente interconnessa con la pandemia in corso. «Migliorare la salute dell’uomo e degli animali, insieme a quella delle piante e dell’ambiente, è l’unico modo per mantenere e preservare la sostenibilità del Pianeta» ha dichiarato a Greenpeace Ilaria Capua, virologa di fama internazionale. L’origine delle pandemie è infatti legata alla distruzione dell’ambiente e della biodiversità, del sistema alimentare basato sugli allevamenti intensivi e sappiamo che il riscaldamento globale rischia di riproporre emergenze sanitarie come quella che stiamo vivendo. Questo sia ampliando l’areale di malattie tropicali trasmissibili da zanzare, cosa già in atto con la dengue, chikungunya, e Zika, sia per lo scongelamento dei ghiacci e del permafrost che potrebbero liberare virus e patogeni anche di epoche remote. Una recente ricerca sui ghiacciai tibetani ha evidenziato la presenza di 28 virus sconosciuti e nel 2016 un focolaio di antrace, virus potenzialmente letale, era emerso in Siberia a seguito dello scongelamento del permafrost.
La questione tutta politica è quella della direzione, bisognerà dirigere gli stimoli per la ripresa economica del post-pandemia: se verso i settori tradizionali – come promette Trump per aiutare i suoi grandi elettori petroliferi – o verso nuovi settori per una svolta nel senso del «Green Deal».
I produttori di auto europei hanno già chiesto un allentamento del regime di emissioni di CO2, dunque cercano di spostare l’asse verso la conservazione del passato. Invece la necessità di una svolta è una affermazione condivisa da molti, dai Fridays For Future, dal movimento ambientalista ai promotori del Manifesto di Assisi e, anche da parte istituzionale, la necessità di un Green Deal è stata ribadita sia dal Presidente del Consiglio Conte che dalla Presidente della Commissione Europea von der Leyen.
La lettera aperta dei ricercatori raggruppati ne «La scienza al voto» ha ricordato che la riconversione dalle fossili alle rinnovabili richiede «uno sforzo limitato, rispetto a quanto stiamo facendo per il coronavirus, quantificabile in pochi punti percentuali di PIL, spalmato su molti anni e, se ben gestito, affrontabile dagli Stati e dalla comunità internazionale senza forti ripercussioni sui cittadini». E, ricordano, che i benefici delle politiche di riduzione delle emissioni di gas serra si estendono anche in termini di inquinamento dell’aria (di altri gas, che non impattano sul clima ma sulla salute). Lo smog, già responsabile di decine di migliaia di morti premature in Italia, potrebbe aver giocato, come avanzato da più parti, un ruolo nel peggiorare l’impatto della pandemia.
L’analisi dell’Economist sulla pesante crisi petrolifera legata alla pandemia da Covid19 conclude che le aziende petrolifere farebbero bene a prendere questa come un esempio di quello che verrà, dopo che la pandemia sarà finita. E, cioè, che molti nostri comportamenti cambieranno. Nel frattempo, si è verificato il crollo del prezzo del brent fino a valori negativi, fatto mai registrato nella storia, con previsioni di ripresa dopo la pandemia che gli analisti fissano a 20$ al barile, dunque un prezzo molto basso.
Anche il settore delle rinnovabili ha subito un contraccolpo dalla pandemia ma pare in proporzioni inferiori. Ed, essendo le principali tecnologie rinnovabili (solare, eolico) dedicate alla produzione di elettricità, la competizione tecnologica non è tanto col petrolio quanto col gas. Questo rimane lo spartiacque delle politiche energetiche in Italia: se continuare a frenare le rinnovabili per difendere il mercato del gas, o se accelerare, e di molto, con la transizione energetica. Il piano «verde» dell’Eni è basato su una tecnologia non provata e di dubbia sicurezza ambientale, il Ccs (reiniettare le emissioni di CO2 nel sottosuolo), protezione delle foreste (!) e troppo poche rinnovabili nell’orizzonte decisivo per le politiche climatiche. Eni continuerà a estrarre petrolio (meno) e molto gas, mantenendo dunque comunque il grosso delle emissioni di CO2 legate al core business che, invece, in una politica seria del clima deve radicalmente cambiare. Ma il governo, temiamo, non glielo chiederà dopo la riconferma di De Scalzi. Un piano serio dovrebbe puntare pesantemente a far cambiare mestiere all’azienda: rinnovabili, gas di sintesi a partire da rinnovabili, industria dell’efficienza energetica. Un vero Green Deal dovrebbe includere, tra le altre cose, il vincolo degli aiuti a banche e grandi aziende che abbiano piani coerenti con l’Accordo di Parigi. Per essere chiari, le banche che continuano a finanziare le fonti fossili dovrebbero essere escluse da qualunque aiuto pubblico. Sarà necessario rivedere in profondità il Piano Nazionale Energia e Clima (Pniec), anche in vista dell’imminente rivisitazione degli obiettivi 2030 UE a cui si ispira, limitando in particolare l’uso del gas fossile e lavorando per uno sviluppo più ambizioso delle fonti rinnovabili, specialmente prima del 2025.
Bisogna iniziare a ridurre i sussidi alle fonti fossili e spostarli verso altri settori, dalla mobilità elettrica nelle sue varie forme, agli ecoincentivi per la ristrutturazione profonda degli edifici. L’incentivazione di una mobilità sostenibile, a partire dalla ciclabilità delle città come sta già avvenendo ad esempio a Parigi, è una priorità per il progressivo rientro alla «normalità» e la difficoltà – speriamo momentanea – dell’utilizzo dei mezzi pubblici, mentre ancora il virus non è stato debellato. Un piano di ristrutturazione profonda degli edifici per aumentarne l’efficienza e l’uso di rinnovabili, avrebbe un effetto occupazionale importante in un settore centrale dell’economia italiana.
Il governo deve adesso dimostrare se fa sul serio quando parla di sostenibilità o se intende continuare a proteggere i settori fossili che ci bloccano su schemi di un passato che dobbiamo a tutti i costi superare.
*direttore di Greenpeace Italia

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