Durante un incontro con un gruppo di genitori (mentre parlavo del bisogno che
hanno i bambini, anche a scuola, di giocare di più all’aperto, di correre, di
far capriole, di buttarsi nei mucchi di foglie secche, di saltare i fossi, di
giocare con la terra, di costruire con materiali diversi) ho
criticato sia l’eccessiva propaganda che alcuni colleghi fanno a proposito dei
presunti risultati educativi ottenuti grazie alle loro Lavagne Interattive Multimediali,
sia l’uso eccessivo dei tablet e degli smartphone da parte dei bambini.
In questi casi infatti, invece di adoperare le mani per realizzare qualcosa di concreto, le dita si limitano a “toccare” alcune parti dello schermo che, a loro volta, avviano un’applicazione o un procedimento virtuale; di conseguenza ho parlato dei rischi di una sorta di “analfabetismo motorio”.
Nel farlo ho inventato un parola che non esiste: ho detto infatti che “i bambini che touch…ciono troppo potrebbero avere problemi perché sono diversi gli studi sulle interazioni con lo sviluppo neurocognitivo, il sonno, la vista, le funzioni metaboliche e lo sviluppo emotivo in età evolutiva.”
“Touch…ciono”, che si pronuncia: “tacciono”, è una storpiatura del verbo inglese “to touch” che vuol dire “toccare” e del verbo italiano “tacere” che vuol dire “star zitti”.
Questo lapsus, solo apparente, nasconde qualcosa di voluto: cioè il tentativo di evidenziare che l’uso eccessivo di questi strumenti, anche da parte di bambini molto piccoli, sia una scelta (involontaria?) di certi genitori per zittirli “ipnotizzandoli” con le immagini di videogiochi o di filmati.
Molti bambini hanno un accesso ai loro tablet quasi illimitato ed è molto diffuso vedere nei locali pubblici i genitori che cenano tranquillamente con, seduti di fianco, i loro figli “sedati”, zitti e con lo sguardo assente, che si cibano delle immagini che provengono dai monitor del cellulare dei genitori o del tablet.
Io non voglio demonizzare l’uso di questi strumenti ma credo che i genitori dovrebbero insegnare ai bambini a farne un uso consapevole: limitando gli orari, scegliendo i giochi che fanno, controllando le attività in rete e soprattutto proponendo anche altre alternative.
Credo anche che i genitori dovrebbero insegnare concretamente ai loro figli il senso ed il valore del dialogo cioè a parlare bene insieme, fin da piccoli, sia a casa che nei locali pubblici.
È davvero molto importante altrimenti c’è il rischio di avere bambini che pensano di sapere e di saper fare perché il tablet gli ha insegnato a superare degli ostacoli, solo virtuali, ma che poi possono soffrire di un altro tipo di analfabetismo: quello emotivo.
Infatti, non avendo imparato a parlare per ascoltare e per capirsi potrebbero non essere in grado di trovare le parole per comunicare adeguatamente e soprattutto per incanalare le loro rabbie, le loro frustrazioni, le loro felicità, le loro tristezze, le loro paure, i loro bisogni insomma per esprimere i loro stati d’animo.
In questi casi infatti, invece di adoperare le mani per realizzare qualcosa di concreto, le dita si limitano a “toccare” alcune parti dello schermo che, a loro volta, avviano un’applicazione o un procedimento virtuale; di conseguenza ho parlato dei rischi di una sorta di “analfabetismo motorio”.
Nel farlo ho inventato un parola che non esiste: ho detto infatti che “i bambini che touch…ciono troppo potrebbero avere problemi perché sono diversi gli studi sulle interazioni con lo sviluppo neurocognitivo, il sonno, la vista, le funzioni metaboliche e lo sviluppo emotivo in età evolutiva.”
“Touch…ciono”, che si pronuncia: “tacciono”, è una storpiatura del verbo inglese “to touch” che vuol dire “toccare” e del verbo italiano “tacere” che vuol dire “star zitti”.
Questo lapsus, solo apparente, nasconde qualcosa di voluto: cioè il tentativo di evidenziare che l’uso eccessivo di questi strumenti, anche da parte di bambini molto piccoli, sia una scelta (involontaria?) di certi genitori per zittirli “ipnotizzandoli” con le immagini di videogiochi o di filmati.
Molti bambini hanno un accesso ai loro tablet quasi illimitato ed è molto diffuso vedere nei locali pubblici i genitori che cenano tranquillamente con, seduti di fianco, i loro figli “sedati”, zitti e con lo sguardo assente, che si cibano delle immagini che provengono dai monitor del cellulare dei genitori o del tablet.
Io non voglio demonizzare l’uso di questi strumenti ma credo che i genitori dovrebbero insegnare ai bambini a farne un uso consapevole: limitando gli orari, scegliendo i giochi che fanno, controllando le attività in rete e soprattutto proponendo anche altre alternative.
Credo anche che i genitori dovrebbero insegnare concretamente ai loro figli il senso ed il valore del dialogo cioè a parlare bene insieme, fin da piccoli, sia a casa che nei locali pubblici.
È davvero molto importante altrimenti c’è il rischio di avere bambini che pensano di sapere e di saper fare perché il tablet gli ha insegnato a superare degli ostacoli, solo virtuali, ma che poi possono soffrire di un altro tipo di analfabetismo: quello emotivo.
Infatti, non avendo imparato a parlare per ascoltare e per capirsi potrebbero non essere in grado di trovare le parole per comunicare adeguatamente e soprattutto per incanalare le loro rabbie, le loro frustrazioni, le loro felicità, le loro tristezze, le loro paure, i loro bisogni insomma per esprimere i loro stati d’animo.
dav
Forse la sto facendo più grande di quella che è ma, da maestro elementare,
sono preoccupato.
In questi casi mi aiuta l’ironia e, visto che penso spesso per paradossi, immagino certi bambini male istruiti e male educati, per quel che hanno imparato “touch…endo”, che rispondono a certe domande di certi genitori, i quali per sembrare amorevoli con i loro figli usano il “bambinese”, cioè quella lingua cantilenante piena di vezzeggiativi e di parole semplificate, come ad esempio: pappa, ciccia, bua, totò, bau, tato, cacca, babau, ecc.
… e allora mi diverto ad immaginare che, ad esempio, quando un bambino si fa male e la mamma gli chiede se si è fatto la BUA, il figlio le risponda che è troppo piccolo per avere una relazione sessuale con la moglie del BUE… o ancora quando passa un cane e qualcuno gli dice: “Amore, guarda il BAU”, il bambino indottrinato in malo modo dai tablet, scambi quella parolina per la scuola tedesca di arte e design: il Bauhaus e consideri il cane un’opera d’arte moderna… o infine quando il genitore minaccia il figlio dicendogli: “Se non fai il bravo ti faccio totò sul sederino” questo si aspetti che il genitore gli faccia l’imitazione di Antonio De Curtis, in arte Totò, sulle natiche.
Stupidaggini, ovviamente, ma che servono a provocare una reazione: ci interessano i bambini? Ci interessa cosa pensano? Ci interessa cosa provano? Gli parliamo? Li ascoltiamo? Come li ascoltiamo? Come gli parliamo?
La frase finale di una stupenda poesia di Danilo Dolci recita: “Ciascuno cresce solo se sognato”… ecco forse la domanda delle domande provocatorie è proprio questa: li sogniamo i bambini? E se sì, come li sogniamo?
Se non lo facciamo, non possiamo aspettarci che crescano, al massimo possiamo sperare che touch…ciano un po’ meno.
In questi casi mi aiuta l’ironia e, visto che penso spesso per paradossi, immagino certi bambini male istruiti e male educati, per quel che hanno imparato “touch…endo”, che rispondono a certe domande di certi genitori, i quali per sembrare amorevoli con i loro figli usano il “bambinese”, cioè quella lingua cantilenante piena di vezzeggiativi e di parole semplificate, come ad esempio: pappa, ciccia, bua, totò, bau, tato, cacca, babau, ecc.
… e allora mi diverto ad immaginare che, ad esempio, quando un bambino si fa male e la mamma gli chiede se si è fatto la BUA, il figlio le risponda che è troppo piccolo per avere una relazione sessuale con la moglie del BUE… o ancora quando passa un cane e qualcuno gli dice: “Amore, guarda il BAU”, il bambino indottrinato in malo modo dai tablet, scambi quella parolina per la scuola tedesca di arte e design: il Bauhaus e consideri il cane un’opera d’arte moderna… o infine quando il genitore minaccia il figlio dicendogli: “Se non fai il bravo ti faccio totò sul sederino” questo si aspetti che il genitore gli faccia l’imitazione di Antonio De Curtis, in arte Totò, sulle natiche.
Stupidaggini, ovviamente, ma che servono a provocare una reazione: ci interessano i bambini? Ci interessa cosa pensano? Ci interessa cosa provano? Gli parliamo? Li ascoltiamo? Come li ascoltiamo? Come gli parliamo?
La frase finale di una stupenda poesia di Danilo Dolci recita: “Ciascuno cresce solo se sognato”… ecco forse la domanda delle domande provocatorie è proprio questa: li sogniamo i bambini? E se sì, come li sogniamo?
Se non lo facciamo, non possiamo aspettarci che crescano, al massimo possiamo sperare che touch…ciano un po’ meno.
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