La prossima
“guerra” tra Russia e Usa? Quella del grano. Sembra
uno scherzo, ma la battaglia commerciale che gli americani si trovano,
sorpresi, a combattere contro i russi ha implicazioni non solo economiche ma anche
politiche e persino militari. Ecco come e perché.
Negli Stati Uniti,
per la prima volta nella storia, è sceso sotto soglia duemila il numero delle
aziende agricole attive. Un’ondata di chiusure seconda solo quella degli anni
Ottanta. E anche allora in qualche modo c’entravano i russi. Una delle cause
della crisi di allora fu l’embargo deciso dal presidente Reagan
contro le esportazioni di grano verso l’Urss. In quel periodo
contribuirono allo sprofondo dei farmer americani anche il
dollaro forte, penalizzante per le esportazioni, e una serie di record nella
produzione riempirono di enormi quantità di frumento e cereali i magazzini Usa.
Situazione, questa, che si ripete anche oggi ma a livello globale. C’è
tanto grano nel mondo, troppo perché tutti possano guadagnarci. E i
prezzi sono crollati alla metà di quelli del 2012, quando toccarono il massimo.
Così gli americani
non fanno più profitti e a godere sono i russi. Diventata nel
2016, e proprio a spese degli Usa, il maggior esportatore di grano al mondo, la
Russia ha esportato nello scorso anno agricolo (chiuso il 30 giugno) più di 40
milioni di tonnellate di grano. Record mondiale degli ultimi venticinque anni.
Non basta: il raccolto russo per il prossimo anno dovrebbe toccare una quantità
che, pur essendo inferiore di 20-25 milioni di tonnellate a quello dell’anno
scorso, resta sempre il terzo migliore dell’epoca post-sovietica, dopo quelli
eccezionali del 2016 e 2017. Il tutto negli anni di una forte siccità che ha
colpito dappertutto. Tanto che, fanno notare maliziosamente i russi, l’Europa ha avuto nello scorso anno agricolo il
peggior raccolto di grano dell’ultimo decennio.
Bisogna aggiungere
un’altra considerazione: i produttori russi, con il rublo debole rispetto al
dollaro e all’euro, riescono a essere competitivi sui mercati internazionali e
a fare ugualmente grandi profitti con le esportazioni. Il grano russo è ormai arrivato ovunque, persino
nel Messico che confina con gli Usa. Così, in patria, vengono coperti i costi
dei macchinari e delle nuove semine: l’area seminata a grano in
Russia è il doppio di quella degli Usa che, a loro volta, hanno
oggi un’area seminata a grano che è la più piccola da quando, un secolo fa, si
cominciò a tenerne la statistica.
Però c’è di più.
«Il grano è il nostro petrolio», disse due anni fa Aleksandr
Tchekov, il ministro dell’Agricoltura. Fu buon profeta. Complice il
calo del prezzo del greggio (che oggi vale il 25% meno di quanto valeva nel
2014, avendo comunque superato un crollo arrivato anche al 60% del
prezzo), l’agricoltura russa oggi ha superato l’industria degli
armamenti e, con 21 miliardi di introiti nel 2017 (un quarto dei
quali generati dal solo grano), è diventata la seconda maggior fonte di reddito
(dopo, ovviamente, gas e petrolio) per lo Stato russo. Questo perché i competitor americani
ed europei perdono quote nel mercato costituito da Paesi del Medio Oriente e
dell’Africa del Nord che dipendono dalle importazioni e sentono, soprattutto
negli ultimi anni, il “peso” dell’influenza politica conquistata dalle
politiche del Cremlino.
A questo puzzle
manca solo un tassello: la Cina. Alla guerra dei dazi scatenata da Donald
Trump, Pechino ha risposto aumentando, tra l’altro, del 25% le tasse
sull’importazione di grano americano. Finora i produttori russi non hanno
potuto approfittarne in pieno perché da tempo la Cina ha deciso
una serie di restrizioni alle importazioni alimentari dalla Russia. Che cosa succederebbe, invece, se l’immenso mercato
cinese decidesse di aprirsi senza condizioni ai fornitori
russi? Non è fantascienza, nel clima di alleanza globale che si è instaurato
tra Mosca e Pechino, esercitazioni militari comprese. Potremmo vederne delle
belle.
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