E’ istruttivo, e persino divertente a volte, vedere con quanta facilità si
sbagliano le previsioni sul futuro. Per esempio quella che decretava la fine
del cibo cucinato in casa. Ucciso dalle
app dei fattorini che ti portano a casa i manicaretti del
ristorante in pochi minuti e senza sbattimenti. Non era una cosa che si diceva
tanto per dire. Era una cosa fondata sui dati. Intanto il declino del cibo
cucinato in casa era un trend iniziato ben
prima delle app, a cavallo del nuovo secolo più o meno. Il
declino era stato inarrestabile al punto che nel 2017 una delle bibbie del
settore, Epicurious,
aveva sentenziato “l’abitudine di cucinare a casa sta morendo”.
E l’anno dopo era arrivato un report autorevole a chiedersi “la cucina (intesa come stanza della casa, luogo del cucinare) è finita?”. La causa non erano solo le app di food delivery, quello era stato il colpo di grazia. La vera causa era la nostra vita frenetica: chi ha tempo di andare al mercato, scegliere le cose giuste, tornare a casa, prepararle con cura e possibilmente perizia, e solo a quel punto mangiarle? Avevamo sempre fretta prima, prima del coronavirus; non avevamo mai tempo, e del cibo ci prendevamo solo la parte finale. Qualcuno arrivò a dirmi che in fondo era socialmente più economico e poi si inquinava di meno; ma culturalmente è stato un mezzo disastro. E’ in quegli anni che deve essere nata l’abitudine dell’apericena.
E l’anno dopo era arrivato un report autorevole a chiedersi “la cucina (intesa come stanza della casa, luogo del cucinare) è finita?”. La causa non erano solo le app di food delivery, quello era stato il colpo di grazia. La vera causa era la nostra vita frenetica: chi ha tempo di andare al mercato, scegliere le cose giuste, tornare a casa, prepararle con cura e possibilmente perizia, e solo a quel punto mangiarle? Avevamo sempre fretta prima, prima del coronavirus; non avevamo mai tempo, e del cibo ci prendevamo solo la parte finale. Qualcuno arrivò a dirmi che in fondo era socialmente più economico e poi si inquinava di meno; ma culturalmente è stato un mezzo disastro. E’ in quegli anni che deve essere nata l’abitudine dell’apericena.
Poi è arrivato il coronavirus, il tempo si è dilatato, squagliato come un
orologio di Dalì, e improvvisamente abbiamo riscoperto il senso e il piacere di
cucinare in famiglia. Lo capisci perché nei supermercati da settimane è sparita
la farina. Più ancora della farina: il lievito. So di conoscenti che di questi
tempi si incontrano di nascosto in strada, senza fermarsi per non dare
nell’occhio, e si scambiano una bustina di lievito. Sembrano scene di Breaking
Bad, la serie tv su una certa droga, ma questo è piuttosto Baking Bed: siamo
tutti lì che facciamo crostate, ciambelloni, paste fatte in casa, pizza e pane.
Il pane è il sacro graal di chi cucina, la prova più dura. Invece delle app di
food delivery è il momento d’oro delle app di cucina.
A livello globale sta esplodendo una app che è l’Instagram dei cuochi amatoriali: si chiama CookPad, l’ha lanciata un giapponese tempo fa, e invece dei selfie ci sono le foto dei piatti appena cucinati. In quarantena va fortissimo. “Sono tempi duri e bisogna friggere per tirarsi su”, dice Don Pasta, grande cantore dell’epopea del cibo fatto in casa con le ricette di una volta e la materia prima prodotta con amore dai contadini, “i villani” come li chiama lui.
Anche i villani hanno bisogno di aiuto, perché custodiscono un tesoro di conoscenze che non va perduto. Quanto è vero. L’altro giorno anche io ho fatto il pane: il primo era duro come un sanpietrino, il secondo era crudo. Il terzo mi sono impegnato: ho scelto le farine migliori, ho usato il lievito madre, ho fatto tutti i passaggi con calma assoluta, le piegottine, le diverse lievitazioni, l’aggiunta di un farina diversa come diceva la mia app. E alla fine era il pane più buono del mondo. Per farlo ci ho messo più di 24 ore: per una pagnotta, più di 24 ore. Non avevo mai saputo, figurarsi capito, che dietro il pane buono ci fosse tanto lavoro, tanto amore.
Forse per far passare prima questa quarantena infinita dovremmo contare il tempo con le pagnotte. La lentezza può diventare un formidabile vantaggio per ripartire. Rischiamo di diventare più profondi.
A livello globale sta esplodendo una app che è l’Instagram dei cuochi amatoriali: si chiama CookPad, l’ha lanciata un giapponese tempo fa, e invece dei selfie ci sono le foto dei piatti appena cucinati. In quarantena va fortissimo. “Sono tempi duri e bisogna friggere per tirarsi su”, dice Don Pasta, grande cantore dell’epopea del cibo fatto in casa con le ricette di una volta e la materia prima prodotta con amore dai contadini, “i villani” come li chiama lui.
Anche i villani hanno bisogno di aiuto, perché custodiscono un tesoro di conoscenze che non va perduto. Quanto è vero. L’altro giorno anche io ho fatto il pane: il primo era duro come un sanpietrino, il secondo era crudo. Il terzo mi sono impegnato: ho scelto le farine migliori, ho usato il lievito madre, ho fatto tutti i passaggi con calma assoluta, le piegottine, le diverse lievitazioni, l’aggiunta di un farina diversa come diceva la mia app. E alla fine era il pane più buono del mondo. Per farlo ci ho messo più di 24 ore: per una pagnotta, più di 24 ore. Non avevo mai saputo, figurarsi capito, che dietro il pane buono ci fosse tanto lavoro, tanto amore.
Forse per far passare prima questa quarantena infinita dovremmo contare il tempo con le pagnotte. La lentezza può diventare un formidabile vantaggio per ripartire. Rischiamo di diventare più profondi.
Nessun commento:
Posta un commento