Chi salverà
i lavoratori che producono i nostri vestiti?
di Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti
Puliti
Un documento del Worker Rights Consortium,
redatto in collaborazione con la Clean Clothes Campaign, propone
un primo ragionamento sugli impatti che l’attuale pandemia da coronavirus avrà
sui lavoratori del settore moda. I Paesi ricchi metteranno a disposizione
misure economiche mai viste per fronteggiare la crisi, proteggere le loro
imprese e i lavoratori. Ma cosa succederà agli operai del
tessile-abbigliamento, addensati in Paesi a basso reddito dove le
infrastrutture sociali per tutelare i lavoratori dalle crisi spesso non
esistono o sono fragili?
Parliamo
di 150 milioni di persone che producono beni per l’America del
Nord, l’Europa e il Giappone e altre decine di milioni impiegati
nei servizi. Nel solo settore tessile-abbigliamento sono almeno 50
milioni di operai, quasi tutte donne, con stipendi di
povertà senza alcuna possibilità di accumulare risparmio.
Il documento
prova a identificare i fattori che stanno esacerbando la crisi per quei
settori, come la moda, basati su un modello produttivo
insostenibile (la fast fashion) e su filiere globali che hanno
deliberatamente prodotto una limitazione delle responsabilità dei marchi
committenti verso i fornitori, terminali ultimi delle conseguenze della crisi.
Il rischio, che in alcuni casi è già una realtà, è che i grandi player
del mercato utilizzino la pandemia per giustificare pratiche commerciali
piratesche (cancellazione degli ordini in corso o addirittura già in
consegna, rifiuto di pagare per merce già prodotta, etc..). Le imprese
fornitrici, prive della forza economica necessaria, non potranno
difendersi legalmente e, operando con margini bassissimi, non
avranno le riserve finanziarie, né l’accesso al credito, per resistere
allo shock prodotto dal blocco globale delle vendite.
In molti
Paesi produttori i governi non finanziano direttamente le misure legali
di protezione sociale per chi perde il lavoro: impongono di
farlo ai datori di lavoro. Il problema è, come sempre, l’applicazione
di tali obblighi: le imprese, in assenza di continuità produttiva per la
cessazione degli ordini per il mercato estero, potranno sottrarsi con
facilità alle loro responsabilità. Milioni di lavoratori informali o
precari saranno comunque esclusi dai benefit. Inoltre, per i
lavoratori che saranno costretti a recarsi in fabbrica si fa scottante il
tema della sicurezza: è molto improbabile che siano messe in atto
misure e protezioni individuali adeguate a garantire il distanziamento
sociale in strutture normalmente sovraffollate.
E’ chiaro
che sarà necessario un massiccio intervento pubblico per prevenire
la catastrofe economica e sociale. Ed è altrettanto chiaro che i Paesi
a basso reddito, con finanze scarse e infrastrutture di protezione sociale
deboli o inesistenti, non saranno in grado di fronteggiare le
conseguenze strutturali della crisi a medio e lungo termine. Ma i pacchetti
finanziari messi in campo dai governi a capitalismo maturo non paiono
mettere in conto misure di sostegno a favore di coloro che
hanno prodotto in larga parte la ricchezza delle loro multinazionali: i
milioni di lavoratori del Sud e dell’Est globale sono i grandi esclusi dai
salvataggi in epoca di pandemia.
Per
affrontare questa drammatica crisi e dare risposte ai lavoratori più
vulnerabili delle catene di fornitura globali, occorre uno sforzo
congiunto che veda da una parte i grandi marchi assumere
condotte responsabili nella gestione dei rapporti commerciali con i
fornitori per consentire loro di onorare gli obblighi verso i dipendenti;
dall’altra la necessità di una risposta collettiva da parte di tutti i
governi, delle istituzioni finanziarie e degli organismi internazionali affinché
sia possibile mantenere un reddito a tutti lavoratori nel mondo oggi sull’orlo
del baratro. I marchi, invece di spostare tutto il peso sulla
filiera, devono condividere la responsabilità e i costi finanziari
della crisi, mettendo al centro delle loro priorità il rispetto
degli obblighi verso i fornitori e verso tutti i lavoratori. Queste risorse
non saranno comunque sufficienti: perciò è necessario che i piani di
salvataggio multimilionari predisposti dalle istituzioni internazionali e
dai governi ricchi guardino anche ai destini dei soggetti più
vulnerabili dispersi nelle catene globali di fornitura.
Gli aiuti
futuri destinati ai Paesi produttori per far fronte alla crisi
Covid-19 dovranno essere condizionati da una parte all’impegno
dei loro governi a creare, nel medio periodo, robusti sistemi
nazionali di protezione sociale; dall’altra all’impegno delle
imprese multinazionali a siglare accordi vincolanti di filiera che
riflettano prezzi di acquisto sufficienti a garantire il finanziamento
ordinario di tali sistemi di protezione.
L’attuale
pandemia svela definitivamente l’estrema insostenibilità di un modello
di business basato sullo sfruttamento endemico di milioni di
lavoratori che ricevono salari di povertà, su una forte
asimmetria di potere tra marchi e fornitori che permette ai primi di
addossare tutte le responsabilità alle parti deboli della filiera, su una
totale assenza di accountability da parte delle imprese
committenti che dovrebbero invece essere obbligate per legge alla dovuta
diligenza sui diritti umani per identificare, prevenire, mitigare e
riparare i danni derivanti dagli impatti delle loro attività
economiche sulle comunità e sui lavoratori.
Una cosa è
certa. Questa
crisi offre l’opportunità di ripensare il modello di produzione e
consumo patologico che ha inasprito l’attuale catastrofe economica
perché non si torni al passato. E’ imperativo usare questo tempo
drammatico e fecondo per gettare le basi per una industria più equa,
sostenibile e resiliente nei fatti, non solo nelle pagine patinate dei
rapporti di sostenibilità o dei codici di condotta unilaterali che popolano i
siti delle imprese.
Le grandi
firme usano il Covid per licenziare i lavoratori del tessile - Emanuele
Giordana
In Myanmar
quattro fabbriche si stanno rapidamente riconvertendo nella produzione di
mascherine. Inutile dire che alcune sono della filiera del tessile, una delle
industrie chiave nel Paese. E’ uno dei nuovi affari connessi al coronavirus.
Affari
sacrosanti (se i prezzi delle mascherine non lievitassero come la pasta del
pane) ma che hanno puntato i riflettori sugli effetti che il virus ha su uno
dei grandi settori dell’economia globale – il tessile/calzaturiero – che ha in
Asia, dal Bangladesh al Vietnam, da Sri Lanka all’India la fucina dove le
grandi firme fabbricano a prezzi super convenienti camice e scarpe, pret a
porter e magliette della salute. In certi casi l’apparente disastro (la
mancanza di materia prima, il crollo della domanda, i divieti sulla logistica)
si trasforma persino in manna dal cielo.
Molte
aziende in Myanmar hanno approfittato della crisi per chiudere temporaneamente
e licenziare sollevando scioperi e proteste in sordina a causa del virus. Ma
altre han pensato bene di fallire per riaprire sotto altra forma. In questo
modo, denunciano i sindacalisti locali, si licenza senza problemi e si riapre
usufruendo dei vantaggi per le start-up. Cosa c’è di meglio di una crisi per
ristrutturare il profitto?
L’ondata
peggiore della crisi passa dunque soprattutto nei Paesi dove si produce su
commissione. Dove la relazione tra aziende e sindacato è fragile e dove le
garanzie per chi perde il lavoro sono minime o non ci sono. Due rapporti usciti
in marzo han cercato di fare il punto: «Abandoned?» del Center for
Global Workers’ Rights e «Who will bail out the Workers that make our
clothes?» del Worker Rights Consortium. Mettono in luce gli effetti
del Covid-19 sulle catene di fornitura. Lontane da casa.
Marchi e
distributori scaricano infatti le conseguenze del calo della domanda sui
fornitori. «Le imprese di abbigliamento pagano solo alla consegna, con le
fabbriche che sostengono i costi generali e di manodopera. E hanno il potere di
decidere di non pagare gli ordini, anche se ciò significa di fatto una
violazione contrattuale» spiegano alla Campagna abiti Puliti, sezione italiana
della Clean Clothes Campaign.
Al di là dei
furbi e di chi si approfitta della situazione, ciò significa che i proprietari
delle fabbriche esecutrici non hanno più liquidità per pagare i salari e che in
futuro il quadro potrà solo peggiorare.
Secondo
l’associazione dei produttori del tessile (Bgmea) del Bangladesh, ordini per
oltre tre miliardi di dollari sono finora stati cancellati. In Thailandia, le
fabbriche di abbigliamento continuano invece a funzionare ma gli ordini stanno
rallentando. Si teme – preoccupazione diffusa – che alcune fabbriche possano
utilizzare il Covid-19 come scusa per chiudere. E con lo stato di emergenza
scioperare è impossibile.
Le due
ricerche ricordano infine che in buona parte dei Paesi produttori di
abbigliamento, i meccanismi di protezione sociale, come l’assicurazione
sanitaria o l’indennità di disoccupazione, non esistono o sono insufficienti.
Lo stesso vale per i fondi di garanzia in caso di insolvenza.
Non di meno,
dicono ad Abiti Puliti, i due dossier sembrano aver sortito un effetto: dopo la
loro pubblicazione un certo numero di marchi ha accettato di adempiere ai
propri obblighi contrattuali e di pagare gli ordini che le fabbriche avevano
già in produzione: H&M, PVH Corp (che possiede Van Heusen, Tommy Hilfiger,
Calvin Klein e altre), Inditex (proprietario di Zara) e Target.
Stiamo
parlando di un settore – tra tessile, abbigliamento e calzature – che impiega
milioni di persone, l’80% donne secondo l’Ufficio internazionale del lavoro: si
va dagli oltre 100 milioni dell’India ai 3,6 del Bangladesh dove il tessile è
l’industria trainante dell’export. Per saperne di più c’è un blog (cleanclothes.org/news/2020/live-blog)
che aggiorna quotidianamente sugli effetti globali del virus nella filiera del
tessile/calzature.
Covid-19:
cresce l'insicurezza per i lavoratori e le lavoratrici tessili
La pandemia
globale di COVID-19 continua
a crescere e diffondersi. In questo momento, oltre un terzo della
popolazione mondiale è interessato da una qualche forma di lock down o
restrizione dei movimenti per controllare l’espansione del
virus. I lavoratori tessili nelle filiere globali, già
costretti in situazioni di vita precarie, affrontano una crescente
insicurezza man mano che le fabbriche chiudono per il calo degli
ordini e le misure governative restrittive per proteggere la salute pubblica.
In
particolare i lavoratori sono stati colpiti da ciascuna delle tre
ondate di questa pandemia. La prima si è verificata quando la Cina
ha identificato il COVID-19 nella sua popolazione: smettendo di
esportare le materie prime necessarie per la produzione di abbigliamento, ha
costretto molte fabbriche nel sud e nel sud-est asiatico a chiudere temporaneamente
e rimandare a casa i lavoratori, spesso senza preavviso e salari. La
seconda quando il virus è arrivato in Europa e negli Stati Uniti: le
aziende della moda hanno annullato gli ordini in corso senza pagarli e molte
hanno smesso di effettuarne altri; le fabbriche di fornitori, che operano con
margini ridotti a causa dei prezzi troppo bassi, sono state costrette ancora
una volta a chiudere e mandare i lavoratori a casa senza paga. L’ultima ondata
riguarda la diffusione del virus proprio nei Paesi produttori:
alcuni di essi hanno chiuso gli impianti come misura precauzionale, ancora una
volta lasciando a casa gli operai senza stipendio; altri hanno deciso di
lasciarli aperti, nonostante il significativo rischio per la salute dei
lavoratori nelle fabbriche affollate. Ciò accade anche nel segmento a
valle della filiera, dove si addensano situazioni di rischio e
vulnerabilità per quei lavoratori che nei magazzini processano gli ordini
tuttora in corso per i grandi gruppi multinazionali. Come per esempio gli oltre
500 lavoratori e lavoratrici del polo logistico di Stradella, dove
ancora sono smistati gli ordini H&M acquistati online, i quali hanno
denunciato le gravi inadempienze in materia di sicurezza ai
tempi del coronavirus.
Anton
Marcus, Sottosegretario del Free Trade Zones & General Services
Employees Union, ha
dichiarato: “L’impatto del COVID-19 sui lavoratori dell’abbigliamento in Sri
Lanka è stato immenso. I lavoratori, tornati nei loro villaggi senza avere
percepito i salari di marzo, stanno attraversando un momento molto difficile
non riuscendo a sostenere le loro famiglie. I datori di lavoro stanno
sfruttando questa situazione per licenziare e ridurre benefici e stipendi dei
dipendenti, dando la responsabilità al ritiro o alla riduzione degli ordini dei
loro clienti. In questa situazione i lavoratori a contratto saranno i più
colpiti”.
In alcuni
casi questi effetti sono stati esacerbati dalla cattiva gestione della
crisi da parte dei governi nazionali. L’India ha
improvvisamente annunciato un blocco nazionale, lasciando i lavoratori migranti
domestici senza mezzi di sussistenza o accesso ai trasporti per tornare a casa.
Alcuni di essi sono stati costretti a camminare per centinaia di chilometri
verso le loro città e i loro villaggi. In altri paesi, come la Cambogia
e le Filippine, le misure per combattere il virus stanno limitando
ulteriormente lo spazio civico, compresa la libertà dei lavoratori di
organizzarsi. In Myanmar gli imprenditori hanno usato la
pandemia come pretesto per reprimere il sindacato, assicurandosi che i
lavoratori sindacalizzati fossero i primi ad essere licenziati dalle imprese in
difficoltà finanziaria.
Due recenti
report del Worker Rights Consortium, del Penn State Center for Global Workers’
Rights e della Clean Clothes Campaign “ Who will bail out the worker s that make our clothes?”
and “Abandoned? The Impact of Covid-19 on Workers and Businesses
at the Bottom of Global Supply Chains” mettono in luce le
cause all’origine dei catastrofici effetti del Covid-19 nelle catene di fornitura. L’estrema
interconnessione e l’asimmetria di potere tipica delle catene di
approvvigionamento ha permesso ai marchi e ai distributori di scaricare
le conseguenze del calo della domanda sui fornitori. Le imprese di
abbigliamento pagano solo alla consegna – con le fabbriche che sostengono i
costi generali e di manodopera – e hanno il potere di decidere di non
pagare gli ordini, anche se ciò significa, di fatto, una
violazionecontrattuale. Ciò significa che i proprietari delle fabbriche di
tutto il mondo sono lasciati senza liquidità per pagare i salari dei
lavoratori di marzo e ancora peggio sarà per i mesi a venire, quando
nessun ordine probabilmente arriverà. Nella stragrande maggioranza dei paesi
produttori di abbigliamento, meccanismi di protezione sociale come
l’assicurazione sanitaria, l’indennità di disoccupazione o i fondi di garanzia
in caso di insolvenza sono assenti o insufficienti, in parte a
causa di decenni di pressione al ribasso sui prezzi pagati dalle imprese
committenti. Anni di incapacità di intraprendere azioni significative
sui salari hanno lasciato i lavoratori senza risparmi e senza rete.
Dalla
pubblicazione di questi due documenti, un piccolo numero di marchi ha
accettato di adempiere ai propri obblighi contrattuali e di pagare gli
ordini che le fabbriche stavano già producendo: H&M, PVH Corp., che
possiede Tommy Hilfiger e Calvin Klein, Inditex, proprietario di Zara, e
Target.
Deborah
Lucchetti della Campagna Abiti Puliti afferma: “E’ fondamentale che i marchi in
questo momento assolvano i loro obblighi contrattuali e paghino gli ordini
effettuati e in molti casi già prodotti. In questa drammatica situazione, è
urgente garantire a tutti i lavoratori nelle filiere globali risorse sufficienti
a soddisfare i bisogni delle loro famiglie e a sopravvivere alla crisi, a
partire dalla corresponsione dei salari e dei benefit dovuti per i mesi in
corso. Le imprese multinazionali hanno costruito la loro ricchezza
sull’utilizzo di milioni di lavoratori sottopagati in paesi dove non sono
presenti le infrastrutture di protezione sociale necessarie a tutelare i
lavoratori nei momenti di crisi. Questa crisi deve produrre un cambio
strutturale del modello di business, a partire dalla introduzione di meccanismi
di regolazione delle filiere global e di norme vincolanti per le imprese, a
tutti i livelli”
Le istituzioni
finanziarie internazionali si stanno già impegnando a mobilitare
miliardi di dollari per sostenere le economie dei Paesi produttori. È
fondamentale che tale sforzo includa l’impegno di mettere al primo
posto le esigenze dei lavoratori, unitamente a meccanismi che garantiscano
che tale sostegno li raggiunga direttamente. I sindacati globali hanno
formulato raccomandazioni su come queste istituzioni possano garantire
una risposta urgente ed equa alla crisi. È della massima importanza che i
lavoratori, nelle fabbriche di produzione, nella logistica e fino alla
distribuzione, siano al centro delle soluzioni economiche per
superare questa crisi e per garantire che le misure per salvaguardare la salute
delle persone non acuiscano invece loro miseria e fragilità
Il
Coronavirus e l’industria tessile: cosa succede ora ai lavoratori della grande
filiera nei Paesi a basso reddito - Giada Ferraglioni
Savar,
periferia di Dacca, Bangladesh. Nell’aprile del 2013 un edificio commerciale di
otto piani viene giù. Il crollo passa alla storia come la tragedia del Rana Plaza: 1.129 operai perdono
la vita e 2.515 restano feriti, molti dei quali gravemente. La struttura
ospitava gli stabilimenti tessili di grandi marchi commerciali occidentali. A
sette anni dalla catastrofe che portò alla luce le condizioni di miseria e
sfruttamento su cui si basano le produzioni multinazionali, un’altra emergenza
torna a colpire i lavoratori della grande filiera tessile. Come salvare dalla
crisi da Coronavirus milioni di persone in tutto il
mondo?
Se lo
chiedono le Ong. «Quello che successe in Bangladesh fu un
caso enorme su cui intervenire», racconta Deborah Lucchetti, coordinatrice
della campagna italiana Abiti Puliti (Clean Clothes),
che nel maggio del 2013 convinse 220 aziende tessili bengalesi a sottoscrivere
l’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici. «Ma
era uno. Adesso sta per arrivare un’ondata di richieste di aiuto da ogni parte
del mondo. E capire come affrontarla non sarà facile».
La campagna
Abiti Puliti è in contatto con tutte le imprese multinazionali (come il marchio
H&M) per convincerle a rispettare i diritti dei lavoratori e delle
lavoratrici nei vari stabilimenti di produzione, sia nel sud-est asiatico (vero
e proprio polmone della produzione), che nel resto del mondo. Ma ora che
l’emergenza ha di fatto bloccato gran parte della produzione – o l’ha
resa ancora meno sicura e sostenibile di quanto
già non fosse -, la campagna è in contatto diretto anche con i lavoratori della
filiera attraverso un live blog sul sito internazionale.
Parliamo
di 150 milioni di persone che producono beni per
l’America del Nord, per l’Europa e per il Giappone, e di altre decine di
milioni impiegati nei servizi. Le testimonianze non arrivano solo dal
Bangladesh. Arrivano dalla Cambogia, dall’India, dalle Filippine, dal Myanmar,
dallo Sri Lanka, dal Pakistan, dalla Malesia, dall’Indonesia. Ma anche da El
Salvador in America Latina, o dall’Italia stessa, che, oltre a essere un paese
di consumo, è anche attiva sulla produzione: «Ci sono filiere – spiega Deborah
– che fanno parte di reti globali di produzione e i quali lavoratori hanno
problemi anche nel nostro Paese».
I tre grandi
problemi della filiera
Accanto
all’emergenza sanitaria alle porte e dei dispositivi di protezione individuale
che non esistono (dal distanziamento al rifornimento di mascherine), c’è il problema
dei licenziamenti e dell’assistenza sociale. «Ci sono tre questioni enormi –
spiega Deborah – La prima, da risolvere nel breve periodo, è quella di non
lasciare i lavoratori per strada. Mentre i negozi chiudono e le filiere si
congelano, gli accordi presi con i fornitori non vengono onorati. «Se non si
pagano gli ordini ai fornitori, immediatamente questi lavoratori rimangono
senza stipendi e coperture. Nei Paesi a Basso reddito quasi nessuno ha
architetture che prevedono ammortizzatori sociali per imprese e le coperture
per i lavoratori. Le imprese chiudono e gli operai si ritrovano a essere
mandati casa».
Anche se la
pandemia dovesse finire a breve, la certezza che queste fabbriche riaprano non
esiste. «Questo è il secondo grande problema: cosa succederà ai lavoratori se
gli stabilimenti non riapriranno?», dice Deborah. «La pandemia ha messo a nudo
la fragilità di un modello economico basato sulla strozzatura dei costi e sulla
non sostenibilità. Ma in questa strozzatura ci sono le persone e le loro vite
galleggiano nell’incertezza». Il terzo problema, molto banalmente, sarà capire
come si finanzieranno le misure di assistenza richieste dalle Ong, «per fare in
modo che non finiscano solo nelle imprese».
La logistica
Il caso del
magazzino H&M di Stradella, in provincia di Pavia, dove si sono registrati
i primi due casi di contagio da Coronavirus, è un esempio
della complessità del fenomeno nell’industria dell’abbigliamento. Lì i
lavoratori e le lavoratrici della logistica (altra faccia della filiera
tessile) sono impegnate nello smistamento degli ordini dallo store online.
«Anche nei magazzini di smistamento dei capi H&M, che potremmo definire
prodotti non essenziali, ci sono situazioni di grave rischio», dice ancora
Deborah Lucchetti.
Dividere lo
sguardo su un problema comune, quindi, sembra essere una strategia sbagliata.
«Nel mondo globalizzato siamo tutti connessi», sottolinea. «Non possiamo
pensare che l’economia europea sia slegata a quella del Sud e dell’Est del
mondo. Se va a bagno quella, noi la seguiamo. Dopo questa pandemia niente sarà
come prima – conclude Deborah – potrà andare o molto peggio o molto meglio. Sta
a noi agire per il meglio».
La risposta
congiunta della società civile allo studio della Commissione Europea sul dovere
di vigilanza nella catena di fornitura
Nove
organizzazioni e reti della società civile – inclusa la Clean Clothes Campaign
– accolgono molto positivamente i risultati dello studio della Commissione
Europea sui requisiti di due diligence per la catena di fornitura pubblicato a
Febbraio 2020.
REPORT:
Impegno per la trasparenza: scopri come si comportano i marchi della moda
Nel
2016, una coalizione di sindacati e organizzazioni della società civile impegnate
nella difesa dei diritti umani e dei lavoratori ha dato vita all’Impegno
per la Trasparenza (Transparency Pledge), un insieme
di requisiti minimi per rendere trasparenti le catene di
fornitura dei brand e permettere ad attivisti, lavoratori e consumatori di
ricostruire la provenienza dei beni prodotti.
Il rapporto
“La prossima tendenza della moda: accelerare la trasparenza
di filiera nell’industria dell’abbigliamento e calzature” mostra come, da allora, decine di
marchi della moda abbiano deciso di aderire a questa iniziativa,
divulgando un numero sempre maggiore di informazioni sulle loro filiere.
La trasparenza è
ormai largamente riconosciuta come un passo importante per
favorire l’identificazione e la gestione degli abusi sui lavoratori nelle
catene di approvvigionamento del settore tessile.
“Non è
una panacea, ma è fondamentale per un’azienda che si definisce etica e
sostenibile“, ha affermato Aruna Kashyap, consulente senior per
i diritti delle donne di Human Rights Watch. “Tutti i marchi dovrebbero
essere trasparenti: per questo sono necessarie leggi che impongano la
trasparenza insieme a pratiche che garantiscano il rispetto dei diritti umani”
La
coalizione ha finora contattato 74 aziende1chiedendogli
di pubblicare le informazioni richieste dal Transparency Pledge: di queste 22
hanno aderito pienamente2, 31 solo in parte, 21
quasi per nulla3. Alle 22 virtuose, se ne sono aggiunte altre
17 di loro spontanea iniziativa4.
La
trasparenza è importante per costringere le aziende ad assumersi le proprie
responsabilità. È la
garanzia che il marchio è a conoscenza di tutte le fasi di produzione dei suoi
beni, consentendo ai lavoratori e agli attivisti da una parte di allertarlo
in caso di violazioni, dall’altro di accedere rapidamente a tutti
gli strumenti di rivalsa per gli abusi subiti.
Non possiamo
però affidarci solo alla buona volontà delle imprese. Più efficaci sarebbero norme
nazionali specifiche per imporre alle aziende la due diligence in
tema di diritti umani lungo le loro catene di fornitura, obbligandole
innanzitutto alla pubblicazione delle informazioni relative
alle fabbriche in cui si riforniscono.
Dalla metà
del 2018, la stessa coalizione è impegnata con sette Iniziative per il
business responsabile (Responsible Business Initiatives – RBIs),
per cercare di indirizzare le loro pratiche di business verso modelli
etici e promuovere la trasparenza delle filiere tra i loro membri. Ma
non essendoci obbligatorietà nella pubblicazione delle fabbriche fornitrici, i
comportamenti degli aderenti a questi gruppi variano molto: per questo la
coalizione ha chiesto a queste Iniziative di giocare un ruolo determinante,
imponendo a chi volesse diventare loro membro, come condizione
vincolante per l’adesione, almeno la pubblicazione delle informazioni
richieste dall’Impegno per la trasparenza.
“Non è
più accettabile che iniziative volte a promuovere un business responsabile e
pratiche aziendali più etiche non impongano la trasparenza alle aziende quale
requisito minimo di affiliazione” ha dichiarato Deborah Lucchetti,
coordinatrice delle Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes
Campaign. “L’accesso pubblico alle informazioni minime sulle catene di
fornitura previste dall’Impegno per la Trasparenza è vitale per consentire ai
lavoratori e agli attivisti di identificare e contrastare gli abusi nelle
fabbriche”.
Così ad
esempio ha fatto l’iniziativa americana Fair Labor Association. A
novembre ha annunciato l’obbligo per tutti i suoi aderenti di pubblicare le
informazioni sulle loro catene di fornitura in linea con lo standard del
Transparency Pledge e renderle disponibili in un formato aperto e accessibile
entro il 31 marzo 2020. L’organizzazione ha stimato che più di 50 marchi e
distributori dovranno adeguarsi a questo obbligo e che da aprile 2020
potrebbero essere soggetti a una speciale revisione in caso di inadempienza.
Il Dutch
Agreement on Sustainable Garments and Textiles (AGT) non ha reso
l’obbligo di trasparenza un requisito di adesione ma ha chiesto ai suoi membri
di fornire le informazioni al suo segretariato che a sua volta le pubblicherà
attraverso l’Open Apparel Registry, un database facilmente accessibile
che fornisce informazioni sull’affiliazione delle fabbriche ai marchi e alle
Iniziative per il business responsabile.
La United
Kingdom Ethical Trading Initiative e la Fair Wear Foundation hanno
adottato misure incrementali per migliorare la trasparenza dei loro membri. La Sustainable
Apparel Coalition, amfori, e la German Partnership on Sustainable Textiles non
hanno invece fatto nulla per legare la trasparenza ai requisiti di
affiliazione.
“I
governi possono giocare un ruolo fondamentale emanando la legislazione necessaria
ad imporre alle aziende la due diligence in materia di diritti umani lungo le
loro catene globali di fornitura e la trasparenza su dove vengono realizzati i
loro prodotti“, ha affermato Bob Jeffcott, analista politico
presso il Maquila Solidarity Network. “Tali norme sono fondamentali per
creare condizioni di parità tra le imprese e per proteggere i diritti dei
lavoratori“.
——-
1 Per maggiori informazioni sulle 74
aziende contattate dalla coalizione e le altre aziende che hanno aderito al
Pledge o si sono impegnata a farlo:
2 adidas, ASICS, ASOS, Benetton,
C&A, Clarks, Cotton On, Esprit, G-Star RAW, H&M, Hanesbrands, Levi
Strauss, Lindex, Mountain Equipment Co-op, New Balance, New Look, Next, Nike,
Patagonia, Pentland Brands, PVH Corporation, and VF Corporation.
31 imprese
si sono impegnate a pubblicare almeno la lista e l’indirizzo dei loro fornitori
ma sono ancora lontane dallo standard previsto dall’Iniziativa per la
Trasparenza. Si tratta di: ALDI North, ALDI South, Amazon, Arcadia Group,
Bestseller, Coles, Columbia, Debenhams, Disney, Fast Retailing, Gap, Hudson’s
Bay Company, Hugo Boss, John Lewis, Kmart Australia, Lidl, Marks and Spencer,
Matalan, Mizuno, Morrisons, Primark, Puma, Rip Curl, Sainsbury, Shop Direct,
Target Australia, Target USA, Tchibo, Tesco, Under Armour, Woolworths, e Zalando.
3 Di queste:
- 18 aziende non hanno ancora
pubblicato alcuna informazione
American Eagle Outfitters, Armani, Canadian Tire, Carrefour, Carter’s, Decathlon, Dicks’ Sporting Goods, Foot Locker, Forever 21, Inditex, KiK, Mango, Ralph Lauren, River Island, Sports Direct, The Children’s Place, Urban Outfitters, e Walmart. - 2 aziende hanno pubblicato solo
i nomi delle aziende e i Paesi in cui operano:
Abercrombie & Fitch e Loblaws - 1 azienda si è impegnata a
pubblicare i nomi e i Paesi nel 2020:Desigual
4Alchemist, Dare to Be, Eileen
Fisher, Fanatics, Fruit of the Loom, HEMA, KappAhl, Kings of Indigo, Kontoor
Brands, Kuyichi, Lacoste, Lululemon Athletica, Okimono, Schijvens, Toms, We
Fashion e Zeeman. Gildan ha cominciato a pubblicare dei dati ma è ancora
lontana dallo standard previsto dall’Iniziativa per la Trasparenza
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