Il covid-19 aggredisce i polmoni, blocca il respiro,
uccide soffocando, chiude in casa quelli che non stanno ancora male. I suoi
epicentri (la pianura Padana, la provincia dell’Hubei, il NordReno-Westfalia)
sembrano essere territori con la massima concentrazione di inquinanti
nell’aria, dove la gente ha respirato male per anni.
Sono quelli che
ora le foto dai satelliti ci mostrano liberati dalla coltre di particolato e
ossidi di azoto che li nascondeva: infatti anche a Milano l’aria è più pulita;
il traffico si è spento, rumore e congestione sono scomparsi. Gli esseri umani
soffocano, ma la Terra respira. Prova evidente di un’inimicizia a lungo
coltivata.
L’emergenza coronavirus è una sciagura. Il male
peggiore viene senz’altro dal nostro confinamento forzato in casa, vissuto come
un’imposizione: l’interruzione della socialità fondata sull’incontro, che i
collegamenti web non possono certo sostituire. In secondo luogo, ma solo
perché colpisce un numero minore di persone, viene la perdita del posto di
lavoro (e del reddito) o la minaccia di perderlo.
Poi, e sempre e solo per il minor numero di persone
colpite, il cinico oblio degli esclusi: di chi deve continuare ad andare al
lavoro benché la sua produzione sia necessaria, perché il padrone lo vuole e il
Pil lo esige; di chi non può rinchiudersi in casa perché non ce l’ha; di chi non
ha nemmeno più il permesso di stare per strada perché Salvini gli ha tolto la
protezione umanitaria e nessuno ha voluto restituirgliela. Sono tutti
potenziali e pericolosi focolai di infezione, innanzitutto per loro, ma tali da
vanificare gran parte delle prescrizioni imposte anche a tutti gli altri.
Poi ci sono le cose positive, che bisogna valorizzare:
una esplosione di solidarietà, in particolare verso gli anziani (proprio quelli che i tagli alla sanità condannano a morire con la
selezione che si svolge alle porte degli ospedali); poi l’aria pulita, il
silenzio, le strade senza auto che restituiscono alla città connotati umani; i
tempi di vita rallentati, lo spazio per tornare a riflettere e pensare.
E anche l’eclisse, su web e TV, degli odiatori seriali
e dei loro pronubi. Ma soprattutto, la scoperta, per tutti, della
fragilità di un sistema che traeva la sua forza dalla pretesa di essere
insostituibile: There is no alternative.
Ora tutti cominciano a parlare del dopo, di quando
l’emergenza sarà finita. Ma l’emergenza non finirà più. Questa, cioè
quella del coronavirus, non è in gran parte che una delle tante manifestazioni
di un’emergenza ben maggiore che ci attanaglia da tempo: quella climatica e
ambientale, che non verrà certo meno con la scomparsa (definitiva?) di questa
pandemia.
Ne arriveranno altre, o magari anche la stessa, mai
veramente debellata, mentre scioglimento dei ghiacci, incendi di foreste,
liberazione del metano (insieme a miliardi di batteri sconosciuti) dal
permafrost, innalzamento del mare, uragani, alluvioni, siccità e
desertificazione continueranno per la loro strada. Senza conseguenze su
produzioni e Pil?
Le tante manifestazioni della crisi climatica non
faranno che moltiplicare le rotture delle forniture e la dissoluzione di molti mercati
di questa economia globalizzata; non tutte le fabbriche e non tutti gli uffici (fornitori di servizi “immateriali”) riprenderanno il lavoro;
disoccupazione, precariato e mancanza di reddito sono destinati ad aggravarsi e
la maggior parte delle istituzioni, dall’Unione europea ai Comuni, ne usciranno
ancor più screditate di ora: la loro inerzia (il “Tutto deve continuare come
prima”) è tanto più oltraggiosa quanto minore è la loro distanza dalla
vita quotidiana dei loro cittadini e delle loro cittadine. Il disorientamento è
destinato a crescere per tutti; anche per l’establishment, che già da tempo ha
mostrato di aver perso molte delle sue certezze.
Si sta creando, un vuoto gigantesco di pensiero e di
prospettive, che potrà essere colmato o dal fascismo del XXI secolo, in veste
di sovranismo; oppure dalla mobilitazione per un futuro riconciliato con clima
e ambiente, se questa prospettiva saprà tradursi in un progetto
concreto e soprattutto unitario.
Ma non è cosa che possa essere rimandata solo al dopo,
a quando potremo finalmente uscire dalle nostre case e tornare a incontrarci, a
discutere faccia a faccia, a manifestare, a lottare. Anche perché, come
dimostra la vicenda del decreto Salvini, gli uomini al potere si affezionano
molto alle misure che limitano le libertà, e cercheranno di conservarne quante
più possibili.
Dunque, non c’è un “dopo”; quel futuro comincia ora o
mai più. L’emergenza ha mostrato a tutti che le nostre vite
possono cambiare radicalmente in pochi giorni, e non solo in peggio; per molti
versi anche in meglio. Quel meglio dobbiamo saperlo raccogliere, valorizzare e
sviluppare ora, dando alle nostre esistenze nuove fondamenta: che sono la
riconciliazione degli esseri umani con la Terra, della vita quotidiana con il
resto del vivente, del lavoro con l’ambiente, delle produzioni, materiali e
immateriali, con la dignità che spetta a chi le produce, a chi le usa, a chi ne
subisce le conseguenze. Se non ora, quando?
da qui
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