Ousemane scende da una utilitaria
polverosa nello spazio antistante la foresteria dove vive da un anno, sulla
Statale 16 per Foggia. Con lui, quattro amici. Vengono da una giornata di
lavoro nei campi di pomodori nei dintorni di San Severo, nel distretto della Capitanata,
principale area di produzione di oro rosso del Sud Italia.
Dal 2017 la foresteria Casa Sankara offre
riparo a 250 lavoratori agricoli provenienti da Mali, Senegal, Ghana, Costa
d’Avorio. Alcuni arrivano dagli insediamenti informali dell’ex Pista aeroportuale
di Borgo Mezzanone, di Borgo Tre Titoli e da una moltitudine di masserie
occupate a macchia di leopardo in un raggio di 50 km da Foggia. Ma la maggior
parte è uscita dal Gran Ghetto, la baraccopoli nella piana tra San Severo e
Rignano Garganico, sgomberata nello stesso anno. I terreni su cui sorgeva, di
proprietà regionale, sono stati posti sotto sequestro dalla Direzione
distrettuale antimafia di Bari per presunte infiltrazioni criminali nella
gestione del caporalato nei campi. Poco tempo dopo e a pochi metri distanti è
tuttavia nata una seconda baraccopoli. Qui, al picco della stagione, si
concentrano oltre 2mila persone, in baracche improvvisate di legna, teli di
plastica e lamiera. Aspettano di essere convocate dai caporali, a cui
pagheranno il costo del trasporto ai campi (dai 2 ai 5 Euro). I caporali poi
otterranno un’altra percentuale (dai 20 ai 50 centesimi) dal datore di lavoro
per ogni cassone raccolto dai membri della loro squadra.
Ed è dal Gran Ghetto che arriva Ousemane,
senegalese di 28 anni, dove ha vissuto per più di un anno. «A Casa Sankara
abbiamo avuto la possibilità di mettere da parte un po’ di soldi per comprare
la nostra macchina. È intestata a uno di noi, ma è di tutti e cinque. Nel
ghetto non ce l’avremo mai fatta» commenta il ragazzo, alzando lo sguardo verso
la facciata di un prefabbricato dove troneggia il murale di Thomas Sankara,
politico e rivoluzionario del Burkina Faso che si impegnò per la riduzione
della povertà attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei
privilegi delle classi agiate. «Tutte le mattine venivano a prendermi intorno
alle 4 con un furgone. Alle 5 riempivo già cassoni di pomodori. E poi di notte,
nella baracca dovevo combattere con i topi. Dovevo lasciare al capo (il
caporale) i soldi per dormire, per andare a lavoro, per farmi accompagnare in
ospedale. Non è facile lavorare tante ore col caldo» aggiunge mentre si
avvicina a un gruppo di ragazzi tornati da poco dai campi, distesi a riposare
all’ombra di un albero. Sulla Statale 16 sfrecciano autotreni che trasportano
decine di cassoni di pomodoro nelle industrie della Campania, dove verrà
trasformato.
«Abbiamo sempre sostenuto che la chiusura
dei ghetti sarebbe stata possibile se ci fosse stata un’alternativa. Così nel
2017, dopo la chiusura della baraccopoli di Rignano, la prefettura ha
trasferito una parte di quelle persone a Casa Sankara» spiega Hervé Latyr Faye,
presidente di Ghetto Out, capofila della rete di associazioni vincitrici del
bando della Regione Puglia per l’utilizzo, per cinque anni, dell’azienda
Fortore. Un’altra parte è ospitata nella struttura Arena, di proprietà del
comune di San Severo.
«Ci sono molte richieste di accesso a Casa
Sankara, per cui abbiamo dovuto introdurre dei requisiti, ma non chiudiamo le
porte a chi non ha i documenti. Accogliamo, ascoltiamo e valutiamo la
possibilità di intraprendere un percorso» continua Latyr Faye. «Molte persone
che avevano perduto i loro documenti ora sono regolari. Rintracciamo i legali,
recuperiamo i documenti. Abbiamo un avvocato che ci aiuta in questo. Persone
che hanno vissuto nel ghetto per anni e che non hanno mai avuto la possibilità
di rinnovare i loro documenti, arrivando a Casa Sankara hanno avuto la
residenza perché abbiamo un accordo con il comune di San Severo. Molti hanno
vissuto qui per un periodo e hanno trovato una sistemazione altrove perché
hanno raggiunto l’autonomia economica grazie a un lavoro dignitoso» continua
mentre camminiamo attraverso i prefabbricati della struttura di accoglienza,
disposti ordinatamente e decorati da murales. In uno slargo, una targa cita
Nelson Mandela «La libertà è una sola. Le catene imposte a uno di noi pesano
sulle spalle di tutti». Intorno i panni stesi ad asciugare.
Per contrastare il caporalato, qui si
lavora sui venti ettari di terreni abbandonati messi a disposizione dalla
Regione, sedici dei quali coltivati a canapa per uso terapeutico, settore in
cui la Puglia registra la maggiore attività in Italia. «Abbiamo stipulato una
collaborazione con un’azienda di Bari che ci garantisce i semi e l’assistenza
tecnica, mentre noi di Casa Sankara ci impegniamo con la manodopera, remunerata
degnamente» aggiunge Latyr Faye. Vicino al campo dalle piante che superano il
metro di altezza, i filari dell’uva quasi pronta per la raccolta. «Stessa cosa
per il vigneto: noi ci mettiamo la manodopera e un agronomo di un’azienda
locale ci supporta nelle varie fasi della coltivazione».
Da un lato del sentiero di breccia, gli
operai lavorano all’ultimazione dei nuovi moduli abitativi inaugurati lo scorso
31 luglio dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Ospiteranno
altri 400 posti letto, con infermeria, cucina e mensa, sportelli mobili di
avviamento e sicurezza sul lavoro attraverso i progetti finanziati dal Fondo
asilo migrazione e integrazione (Fami) e dal programma operativo nazionale del
ministero del Lavoro e delle Politiche sociali (Pon Inclusione).
«Senza questi lavoratori l’agricoltura
pugliese non potrebbe resistere», scrive Emiliano sulla sua pagina social. «Per
questo abbiamo dato vita a questo esperimento delle foresterie. Diamo così
dignità alla produzione agricola fatta in modo legale e umanamente sostenibile,
e soprattutto contrastiamo il caporalato, perché tutto ciò che è bestiale,
illegale, che soffoca i diritti umani ed è frutto di abuso, prepotenza,
arroganza e di mafia non può essere venduto da un Paese civile, fa solo danno».
Nello stesso giorno è stato attivato
anche Senza Caronte, il servizio di trasporto del sindacato
Flai Cgil, finanziato dalla Regione, per i lavoratori residenti a Casa Sankara
e nel ghetto di Borgo Mezzanone, da e per i luoghi di lavoro, evitando così
l’intermediazione illegale da parte dei caporali. Proprio questo meccanismo,
che vede i braccianti stipati in furgoni, ha innescato all’inizio di agosto
dello scorso anno due gravi incidenti, provocando 16 vittime con la stessa
dinamica: uno scontro tra un tir e il furgone dei lavoratori, di ritorno da una
giornata di raccolta di pomodori.
«Presto ripartiranno i corsi di italiano.
Abbiamo dovuto sospenderli perché lo spazio adibito alla scuola abbiamo
preferito darlo a chi aveva bisogno di un tetto sotto cui stare» dice il
presidente di Ghetto Out. Parlare italiano è uno dei modi di liberarsi dal
caporalato: i caporali servono ai padroni che non saprebbero come dare ordini
ai lavoratori, senza la mediazione linguistica dei caporali. Intanto altre
utilitarie con cinque passeggeri entrano a Casa Sankara. «La macchina è il
grande potere del caporale. Se gliela togli, diventa nessuno» commenta Latyr
Faye.
I caporali hanno diversi ruoli nella vita
dei braccianti: si occupano, dietro compenso, del trasporto dalle abitazioni ai
campi agricoli, degli alloggi in cui dormono fino al cibo. Ma soprattutto del
reclutamento e dell’organizzazione dei lavoratori. In questa intermediazione
tra il datore di lavoro e il bracciante, l’illecito sta nel fatto che il
compenso viene trattenuto direttamente dalla paga del bracciante e
nell’arbitrarietà con cui il caporale decide chi lavora e chi no, spesso
trattenendo anche i documenti delle persone, rendendole ricattabili. E di
conseguenza, sfruttate.
Se nei distretti settentrionali – Emilia
Romagna e Lombardia – la raccolta è stata quasi integralmente automatizzata, al
Sud, e in particolare in Capitanata, gli appezzamenti delle circa 3.500 aziende
locali sono più piccoli e meno adatti alla meccanizzazione. Ed è qui, dunque,
che risulta il modello estremo dello sfruttamento lavorativo nell’agricoltura,
in cui si concentrano simultaneamente violazioni dei diritti su più livelli. Il
rapporto 2018 dell’Ispettorato nazionale del lavoro attesta che circa il 50%
delle aziende agricole pugliesi risulta essere irregolare, mentre il 64% dei
lavoratori in nero. Il 75% delle persone assunte in agricoltura risultano prive
di regolari documenti di soggiorno. Non vengono rispettati neanche i contratti
da 50-60 euro a giornata, come richiede il contratto collettivo nazionale del
comparto agricolo.
Secondo le stime del Rapporto Flai Cgil
(Osservatorio Placido Rizzotto, 2018) le infiltrazioni mafiose nella filiera
agroalimentare e nella gestione della domanda e offerta di lavoro attraverso la
pratica del caporalato muovono un’economia illegale e sommersa di oltre 5
miliardi di euro.
A livello nazionale, sono tra i 400 e i
430 mila i lavoratori stranieri esposti al rischio di ingaggio irregolare, e di
questi 130 mila sono in condizione di grave vulnerabilità. Le donne sotto
caporale percepiscono un salario inferiore del 20% rispetto ai loro colleghi.
Nei gravi casi di sfruttamento analizzati, alcuni lavoratori migranti
percepiscono un salario di 1 euro l’ora, mentre in media si guadagna 3-4 euro
per un cassone di 375 chili per 30 euro al giorno. I lavoratori stranieri
costituiscono circa un quarto del totale in agricoltura (Dossier statistico
immigrazione, Idos 2018) dove, di fatto, il caporalato è l’unico mezzo di
reclutamento della manodopera. Ma non mancano gli italiani, come ci ricorda la
morte di Pasquale che poche settimane fa si è accasciato mentre raccoglieva
angurie nel caldo asfissiante di una serra della provincia di Napoli, a
Giugliano. Aveva 55 anni e neanche lo straccio di un contratto.
La figura del caporale è piombata
nell’immaginario collettivo italiano nel 1990 con Pummarò, film del regista pugliese Michele Placido che
racconta le vicissitudini di un ragazzo ghanese. Ma quello del caporalato è un
sistema che è sempre esistito. «Scancèlletece dalla società, pe
nui poveretti pietà nun ce ne sta» cantava Matteo Salvatore negli
anni Sessanta, conosciuto come il più grande cantore sullo sfruttamento.
Narrava la vita di stenti e fatica dei braccianti del Tavoliere delle Puglie
assoggettati ai caporali, italiani come loro. Continuando in questa
digressione, è importante ricordare che proprio in queste terre avvenne il
primo omicidio di un parlamentare da parte dei fascisti: Giuseppe Di Vagno,
parlamentare che si schierò a fianco dei contadini colpiti dalla violenta e
sanguinosa reazione degli agrari all’occupazione pacifica delle terre incolte e
dalla repressione poliziesca. Erano gli anni del biennio rosso (1919-1921),
anni di importanti lotte sociali che attraversavano il Paese. «Nel settembre
1921 i delitti commessi dagli squadristi si contavano già a centinaia in tutta
Italia, ma per la prima volta era ucciso un parlamentare. Non era un caso che
questo grave crimine politico fosse stato commesso in Puglia. Già nel 1913 le
leghe bracciantili pugliesi erano più numerose di quelle di qualsiasi altra
regione italiana» scriveva il giornalista e storico Leo Valiani su l’Espresso in occasione dei cinquant’anni
dell’uccisione dell’onorevole Di Vagno.
Se, però, i vecchi caporali avevano un
rapporto con la comunità e il territorio e i braccianti erano parte integrante
di un sistema sociale che fungeva loro da riferimento, nel corso degli ultimi
decenni, la presenza di caporali stranieri ha rappresentato – e rappresenta –
una profonda mutazione antropologica di questo fenomeno. I nuovi lavoratori
stranieri vivono nell’invisibilità dei ghetti e finiscono per essere sradicati
dal territorio, non avendoci alcun contatto se non quello nei campi agricoli.
Le relazioni temporanee e distaccate tra caporale e lavoratore non trovano più
neanche il conforto dell’appartenenza a una comunità. «Ed è questa doppia
condizione di estraneazione (rispetto al paesino del Tavoliere di cui non sanno
niente e, soprattutto, rispetto al caporale con il quale, per quanto loro
connazionale, non hanno alcun vincolo sociale, comunitario) che trasforma i
braccianti in schiavi» scriveva il giornalista e scrittore Alessandro Leogrande
in Uomini e caporali (Feltrinelli, 2008).
Nel 2016 il Parlamento ha approvato la
legge 199 contro il caporalato che penalizza il datore di lavoro che «sottopone
i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfitta del loro stato di
bisogno». Le azioni promosse dalla Regione Puglia per lo smantellamento dei
ghetti e il superamento del caporalato vanno nella giusta direzione. Ma non
basta. Lo scorso 4 luglio un decreto del ministero del Lavoro ha istituito un
tavolo operativo per monitorare e organizzare interventi di contrasto a questo
fenomeno: la legge 199 risulta insufficiente, avendo carattere prevalentemente
repressivo perché interviene sul fatto avvenuto e non sulle cause.
Quali sono queste cause? Pensiamo alle
passate di pomodoro vendute a 49 centesimi, il modello del sottocosto che ha
riempito il mondo della grande distribuzione. Un mondo dietro cui si nasconde
lo sfruttamento non solo dei braccianti, ma anche dell’ambiente. I 49 centesimi
delle conserve di pomodoro sono determinati dalle aste online a doppio ribasso
che permettono ad alcuni gruppi, soprattutto discount della grande
distribuzione, di acquistare enormi partite di prodotti, per lo più conservati,
come le passate di pomodoro, a un prezzo irrisorio. Lo fanno sui prodotti a
loro marchio per poi venderli a pochi centesimi. La conseguenza è che chi
produce e trasforma il pomodoro non rientra nei costi di produzione. L’unica
alternativa che si ha a disposizione è quella di tagliare i costi del lavoro e
della qualità. La qualità si abbassa perché si deve aumentare la resa di
produzione, aumentando quindi l’uso di prodotti chimici sul campo. Il costo del
lavoro nei campi di pomodoro diventa altresì sfruttamento e caporalato. Secondo
l’Anicav, l’associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali, il
fatturato dell’industria del pomodoro si aggira sui 3 miliardi di euro.
L’Italia è il secondo trasformatore mondiale, dietro la California e seguita
dalla Cina e detiene il 50% della produzione a livello europeo. Eppure,
nonostante questi numeri, il pomodoro italiano vede ogni anno diminuire il
prezzo della materia prima e del prodotto trasformato.
Ci sono diverse azioni politiche e
culturali sul territorio pugliese che rispondono a queste problematiche e che
rilanciano il comparto. Dal 2014 Sfruttazero è uno di queste. Le associazioni
Solidaria di Bari e Diritti a Sud di Nardò (Lecce) autoproducono salsa di
pomodoro, trasformando l’oro rosso in simbolo di emancipazione e riscatto. «Non
è solo un progetto agricolo, ma anche una reazione allo status di sfruttato che
vivono in queste terre italiani e stranieri. Siamo partiti da questo, ma
avevamo un’idea di carattere politico: mettere insieme le esigenze e i bisogni
quotidiani delle persone, come avere dei documenti, un reddito, un lavoro» dice
Gianni De Giglio di Solidaria. «Negli ultimi anni, a livello nazionale si sta
finalmente accendendo il dibattito sulle responsabilità della grande
distribuzione che, attraverso le multinazionali, impone il prezzo del prodotto
e non solo. Spesso l’imposizione è anche sulle quantità e le modalità di
produzione che scaricano i costi sulla filiera agricola a ritroso. Il capro
espiatorio è il caporalato, non escludendo ovviamente tutte le responsabilità
che questo fenomeno ha» aggiunge De Giglio.
L’investimento su questo progetto è stato
avviato attraverso una campagna di crowdfunding, un
finanziamento dal basso con il quale ciascuno ha potuto donare una somma a
piacimento. «Siamo passati dalle 2.500 bottiglie del primo anno ai poco più di
22mila vasetti di quest’anno, con una produzione di pomodori di 270 quintali.
Siamo cresciuti anche a livello contrattuale perché quest’anno Sfruttazero ha
stipulato 30 contratti con retribuzione prevista dal contratto nazionale
agricolo. Ben lontani dai 3-4 euro a cassone, come purtroppo avviene nella
maggioranza dei casi» chiosa Rosa Vaglio di Diritti a Sud.
Tutto il processo produttivo, dalla
piantumazione dei pomodori fino alla distribuzione del prodotto viene
autogestito. “L’etichetta narrante” fornisce informazioni dettagliate sulla
varietà dei pomodori utilizzati, sul luogo della coltivazione e della
trasformazione e su tutti i costi sostenuti che vanno a determinare il prezzo
di ogni singolo vasetto di salsa. La coltivazione avviene secondo i principi
dell’agroecologia, nel rispetto dell’ambiente. Vengono impiegate solo varietà
locali di pomodoro, come il San Marzano e il Fiaschetto. Perché è questo il
punto di forza del made in Italy: la biodiversità che varia da regione a
regione. E la scelta delle due associazioni risponde alla volontà di
differenziare una merce che sugli scaffali della grande distribuzione è sempre
più standardizzata e che fa sì che le qualità tipiche del luogo di produzione
perdano peculiarità: un prodotto uguale a quello che si può trovare su
qualsiasi altro scaffale nel mondo. Dalla California alla Spagna, dalla Turchia
alla Cina.
La trasformazione avviene in un
laboratorio di Bari autogestito dall’associazione Solidaria, mentre a Nardò in
un’azienda locale che rispetta i diritti dei lavoratori. È proprio nelle
campagne di Nardò che nel 2011 ha avuto luogo la più grande mobilitazione dei
braccianti agricoli schiavizzati – a un anno e mezzo dopo quella di Rosarno, in
Calabria – che è riuscita a guadagnare una forte eco nazionale. A seguito di
questi fatti, nel 2017 la sentenza di primo grado del tribunale di Lecce
porterà all’arresto quattro imprenditori salentini e nove africani, tra cui
l’algerino Saber Ben Mahmoud Jelassi detto Sabr, che diede il nome all’indagine
giudiziaria condotta nel 2011. Sentenza, però, ribaltata dalla Corte d’Appello
lo scorso aprile che ha visto l’assoluzione di undici dei tredici condannati
perché, al tempo dei fatti, il reato di riduzione in schiavitù non era previsto
dalla legge.
La distribuzione della salsa Sfruttazero
avviene all’interno del circuito Fuori Mercato, rete nazionale che collega
realtà solidali ed etiche – mercatini di autoproduzioni, cucine e spacci
popolari, spazi autogestiti e piccole botteghe – in contesti urbani e rurali da
Nord a Sud sull’esempio del movimento dei Sem Terra brasiliani e del Soc Sat
andaluso, sindacato che difende i braccianti nella regione del sud della
Spagna. «Il 50 per cento della salsa prodotta va nei gruppi di acquisto
solidale delle grandi città. Certo, la nostra salsa ha un prezzo diverso
rispetto a quella presente nella grande distribuzione. Se non avessimo delle
associazioni che trasmettono ciò che facciamo, che corrisponde a ciò che fanno
anche loro, non riusciremo ad avere questo tipo di risposte» continua Vaglio.
L’autocertificazione partecipata rende il
consumatore parte integrante della filiera, avendo la possibilità di seguire
tutte le fasi lavorative. «Abbiamo molte persone che vengono nei campi a vedere
come si lavora. C’è inoltre una scheda tecnica che è un quaderno di campagna e
basta incrociare le giornate di lavoro con i dati presenti su questo quaderno
per vedere effettivamente che tipo di trattamenti vengono fatti» dice Angelo
Cleopazzo di Diritti a Sud.
Ma ci sono delle criticità. «Noi non siamo
contadini. In agricoltura non ci si inventa, si ha bisogno di sperimentare, di
documentarsi e affidarsi ai consigli di persone più esperte. Ma non è questo il
grande limite. In questi anni abbiamo conosciuto moltissime persone africane,
ma pochissimi contadini. Pochissime persone che già nella loro terra lavoravano
in campagna. Non sono qui e non vengono qui per coltivare i nostri campi. Molti
di loro hanno altre aspirazioni. Lo fanno perché è l’unico sbocco lavorativo
che trovano, sfruttato e mal pagato. Molti giovani italiani sono lontani
dall’agricoltura da tantissimi anni. A Nardò, ad esempio, che ha un’estensione
terriera importante, l’istituto agrario ha chiuso. Quindi è una questione di
approccio sistemico» chiosa Cleopazzo.
L’agricoltura è il principale settore
lavorativo del Sud Italia, ma molti giovani non ne vogliono sentir parlare.
Secondo il Rapporto sull’economia e sulla società del Mezzogiorno della Svimez,
l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, il 72% di chi
emigra da queste terre ha meno di 34 anni. Dal 2002 al 2017 c’è stato un vuoto
giovanile pari al numero di abitanti della città di Napoli: poco meno di un
milione di persone. «Manca nel vissuto culturale del Paese questa attenzione al
cibo, alla cura della terra, alla produzione agricola. C’è bisogno di una nuova
fase di una riforma grande in termini agrari a livello nazionale. C’è bisogno
di tornare a parlare di questi temi per riuscire a incidere anche sulle volontà
e le aspirazioni di chi si vuole effettivamente cimentare nel lavoro in campagna.
C’è in questo un grande limite» aggiunge ancora Cleopazzo.
Il due per cento del ricavato della salsa
Sfruttazero viene destinato ad una cassa di mutuo soccorso con cui le due
associazioni sostengono mobilitazioni per i braccianti agricoli e per tutte quelle
realtà che hanno carattere politico. «Ci autogestiamo – è scritto sulla pagina
social del prodotto – e lo facciamo in tutte le fasi di quella che per noi non
è una filiera. È lotta di classe».
Mariangela Di Marco, insegnante
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