Silenziosamente, ma anche inconsapevolmente, il Centro regionale di
programmazione non esiste più. È probabile che, involontariamente, andando
forse al di là delle intenzioni e del (troppo) entusiasmo dei volenterosi ma
maldestri e disattenti riformatori, il consiglio regionale, accogliendo, con
altrettanta disattenzione, le proposte della prima Giunta Pigliaru,
abbia inserito fra le norme regionali da cancellare la legge 11 luglio 1962, n.
7 “Compiti della Regione in materia di sviluppo economico e sociale della
Sardegna”, nella quale gli articoli 13, 14 e 15 avevano istituito e
disciplinato il Centro regionale di programmazione il cui principale scopo era
quello di curare “la predisposizione dei piani e dei programmi” relativi
agli interventi previsti dal Piano di Rinascita.
Il Centro, quindi, è stato formalmente soppresso dalla legge 20 ottobre
2016, n. 24, nella quale l’allegato A contiene un elenco di leggi regionali (fra
le quali la legge 7/1962), approvate fra il 1949 e il 1972, che la legge 24
abroga espressamente. La medesima legge ha anche stabilito che le disposizioni
abrogate sopravvivano ma solo per quanto riguarda “la disciplina dei
rapporti sorti nel periodo della loro vigenza e per l’esecuzione degli impegni
di spesa assunti in base alle disposizioni medesime”. Il Centro continua
quindi ad operare, ma per un periodo di tempo limitato e solo per ciò che
riguarda le attività consolidatesi prima dell’entrata in vigore della legge
24/2016: da quel momento in poi il Centro deve considerarsi soppresso. Nulla è
detto sulla sorte del personale e su chi dovrà ereditare e esercitare le tante
e delicate attività attribuite al Centro.
Il Centro di programmazione nacque nel 1962, anno in cui in
Italia prendeva l’avvio il primo governo di centro–sinistra, che comprendeva
democristiani, socialdemocratici e repubblicani, mentre il Partito socialista
italiano si asteneva sul voto di fiducia. Le norme regionali istitutive del Centro,
ispirandosi allo spirito dell’Italia del miracolo economico e
all’organizzazione della prima programmazione nazionale di Ruffolo – La
Malfa, puntavano a creare una moderna struttura tecnocratica, costruita
secondo un modello aziendalistico, slegata e separata dall’amministrazione
regionale e con competenze e responsabilità diverse da quelle della
tradizionale burocrazia regionale, alla quale restava affidata la gestione
delle funzioni amministrative nelle materie di competenza della Regione, mentre
il Centro di programmazione – nelle intenzioni – diveniva la struttura
trainante degli interventi straordinari e assumeva la responsabilità
dell’elaborazione dei piani e dei progetti per l’attuazione del primo Piano di
Rinascita e, più complessivamente, del processo di sviluppo economico della
Sardegna.
Il Centro era cioè immaginato come la struttura servente dell’assessorato
della Rinascita (che diverrà in seguito assessorato della Programmazione) al
quale le norme del Piano di Rinascita affidavano la regia degli interventi
straordinari a favore della Sardegna: la predisposizione dello schema generale
di sviluppo della Sardegna, l’elaborazione del piano organico di interventi,
dei programmi pluriennali e dei programmi annuali. L’assessorato doveva inoltre
proporre le iniziative per assicurare il coordinamento dei programmi
dell’amministrazione regionale e degli enti regionali con lo schema generale di
sviluppo e con il piano ed i programmi straordinari di intervento nonché curare
“il coordinamento, in sede regionale, dei programmi deliberati dai
competenti organi statali, da enti pubblici operanti in Sardegna o da enti
locali, con lo schema generale di sviluppo e il piano e i programmi
straordinari di intervento”.
Con una disposizione che presentava evidenti aspetti di illegittimità
costituzionale (“Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede
mediante concorso”), era previsto che il personale del Centro, “composto
da personale qualificato nelle discipline economiche, sociali, statistiche,
tecniche ed amministrative”, con una dotazione organica che in un primo
momento non doveva superare le 25 unità, venisse assunto “a tempo
determinato e per chiamata diretta” e che il rapporto di lavoro dovesse
avere una durata pari a quella del Piano di rinascita con un trattamento
economico stabilito, di volta in volta e del tutto discrezionalmente, dalla
Giunta regionale.
Il Centro poteva anche utilizzare “personale comandato dallo Stato e da
enti pubblici, nonché personale alle dipendenze della Regione”.
Le buone intenzioni della legge istituiva si esaurirono molto rapidamente e
il Centro, da aspirante eccellenza della burocrazia tecnocratica, si trasformò
in una struttura del sottogoverno regionale, dove i potenti di turno
collocavano con facilità i loro collaboratori, ai quali, in cambio di una
comoda e ben retribuita sistemazione, era richiesto il solo requisito della
fedeltà al clan o la parentela giusta, senza alcuna valutazione delle
competenze professionali e delle capacità personali.
L’utilità del Centro per raggiungere il consenso elettorale ne garantì la
sopravvivenza anche dopo l’esaurirsi del primo e del secondo Piano di Rinascita
e lo trasformò in una struttura alla quale nel corso degli anni fu affidata la
gestione dei fondi relativi a finanziamenti genericamente “straordinari”, prima
nazionali e poi anche europei.
Col passare del tempo nella Regione si costruì, più o meno consapevolmente,
una forma di governo “duale” con una doppia cabina di comando, nella quale al
partito di maggioranza relativa (di regola la Democrazia cristiana) spettava la
presidenza della giunta regionale e il governo della Regione, mentre al secondo
partito della coalizione (di regola il Partito socialista italiano) era
attribuita la guida dell’assessorato della Programmazione cui faceva capo il
Centro, il quale, a sua volta, era responsabile dei fondi, nazionali e europei
gestiti con ampi margini di autonomia, relativi a quasi tutti gli interventi
che non rientravano nella gestione ordinaria dell’amministrazione regionale.
Questo assetto, rimasto sostanzialmente immutato fino ad oggi, sembra destinato a
cadere con la soppressione del Centro regionale di programmazione. Resta
tuttavia da chiedersi come saranno gestite tutte le delicatissime funzioni
attualmente affidate al Centro, prime fra tutte quelle relative alla cosiddetta
“programmazione unitaria” e quale destino aspetta il personale del Centro.
L’ipotesi più probabile è che la giunta prenda atto dell’errore e
predisponga rapidamente un disegno di legge per resuscitare il Centro di
programmazione riconsegnandogli le funzioni esercitate da sempre.
Una seconda ipotesi, più ottimistica ma probabilmente meno realistica, è
che, preso atto della involontaria soppressione del Centro, Giunta e Consiglio
si impegnino a cancellare quella che è certamente un’anomalia sia organizzativa
che funzionale, creando al suo posto una struttura di livello apicale interna
all’amministrazione regionale, da collocare preferibilmente presso la
presidenza della Regione (che deve riappropriarsi del ruolo di governo
ultimamente depotenziato a favore dell’assessorato della programmazione),
definendone il nuovo ruolo, le nuove competenze e il rapporto con le restanti
strutture dell’amministrazione, anche sulla base degli obiettivi e dei
fabbisogni della programmazione unitaria.
In questo nuovo assetto il personale dovrebbe essere assorbito e
reinquadrato nell’amministrazione regionale, mantenendo il ruolo e le funzioni
esercitate finora ma ponendo nel contempo fine agli anacronistici,
ingiustificati e illegittimi privilegi di cui ha goduto finora.
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