L’UOMO E IL CIBO / PRIMA PARTE
Le abitudini alimentari di ciascuno di noi producono
sempre due tipi di conseguenze: sulla salute del nostro corpo e su quella della
terra. Quali sono i cibi più dannosi per la salute? Quali sono quelli a
maggiore impatto ambientale? Esiste una dieta sostenibile? A queste domande
cercheremo di dare una risposta con una serie di articoli.
Quando mangiamo, di solito ci preoccupiamo
(tuttalpiù) di cosa ci indicherà la bilancia il giorno dopo o del rimprovero
che potrebbe farci il nostro medico alla lettura dei risultati nel nostro
prossimo esame del sangue, ma difficilmente pensiamo a quanto la produzione di
ciò che mangiamo sia costata in termini ambientali (energia consumata,
occupazione del suolo, sofferenza umana e animale) e di inquinamento del
pianeta, ovvero di quanto la nostra dieta sia sostenibile.
La Fao – Organizzazione delle Nazioni
Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – dice che una dieta può essere
considerata «sostenibile» se risponde a tre requisiti: convenienza, alto potere
nutrizionale, basso impatto ambientale.
Ormai da decenni (dagli anni Sessanta del
secolo scorso) lo sviluppo economico, l’urbanizzazione e l’aumento del reddito
procapite si accompagnano ad una trasformazione delle abitudini alimentari via
via che i paesi si sviluppano. Si assiste cioè a uno spostamento verso un
maggiore consumo di cibi ricchi di zuccheri raffinati e di grassi (anche se
forniscono calorie «vuote», cioè alimenti privi di altro nutrimento oltre
all’apporto calorico) e di prodotti a base di carne, latte e uova. Questa
tendenza ha ripercussioni sia in termini di salute con un incremento a livello
globale di patologie come il diabete di tipo 2 (che viene già considerato
dall’Oms un’epidemia globale), le malattie cardiovascolari e alcune forme
tumorali, che per quanto riguarda l’impatto sull’ambiente dell’allevamento e
dello sfruttamento intensivo dei terreni agricoli.
Il peso (insostenibile)
dell’allevamento
Secondo la Fao, la produzione globale di
carne (riquadro a pag. 62) è destinata a più che raddoppiare, passando da 229
milioni di tonnellate nel periodo 1999-2001 a 465 milioni di tonnellate nel
2050, in linea con l’aumento della popolazione mondiale, che si prevede sarà di
9 miliardi di persone. Inoltre, si stima che la produzione di latte passerà da
580 a 1.043 milioni di tonnellate.
Già attualmente l’impronta ecologica della
produzione zootecnica è altamente impattante e le analisi dei diversi sistemi produttivi
alimentari dimostrano che, se permane l’attuale trend, nel 2050 le emissioni di
gas serra relative a questo comparto produttivo saranno più elevate dell’80%
rispetto ai livelli attuali, mentre aumenterà ancora la distruzione degli
habitat naturali per fare spazio ai terreni agricoli. Sempre secondo la Fao,
l’allevamento produce attualmente circa l’80% delle emissioni di gas serra
dell’intero comparto agricolo e il 18% del totale complessivo a livello
mondiale. In pratica, questo settore risulta più impattante di quello dei
trasporti. L’allevamento provoca il 9% delle emissioni totali di anidride
carbonica (CO2, soprattutto a causa degli
incendi di foreste per fare posto a pascoli), il 37% di quelle di metano (si
forma nel rumine dei bovini ed è 23 volte più impattante della CO2) e, per via delle deiezioni, il 65% di quelle
dell’ossido di azoto (296 volte più impattante della CO2). Anidride carbonica, metano e ossido di azoto sono
i tre gas serra responsabili del riscaldamento globale. A tutto ciò si aggiunge
il rilascio del 64% delle emissioni totali di ammoniaca, che causa le piogge
acide e l’acidificazione degli ecosistemi.
L’allevamento è – inoltre – responsabile
dell’uso del 70% dell’acqua consumata sulla terra (acqua impiegata nelle
coltivazioni di prodotti usati nella zootecnia, per lo più su terreni irrigati,
in aggiunta a quella necessaria ad abbeverare gli animali e a quella usata per
pulire le stalle) e di buona parte del suo inquinamento. Sebbene non ci siano
stime a livello mondiale, negli Stati Uniti si stima che l’allevamento comporti
il 55% dell’erosione dei suoli, il 37% dell’uso totale dei pesticidi, il 50%
dell’uso di antibiotici e un terzo del carico di azoto e di fosforo nell’acqua
potabile. Inoltre il 10% delle specie minacciate perde il proprio habitat a
causa dell’allevamento, che è quindi corresponsabile della perdita di
biodiversità.
I costi del cibo per gli
animali allevati
Gli animali d’allevamento sono «macchine»
(così – purtroppo – sono considerati negli allevamenti) poco efficienti in
termini di conversione di proteine vegetali in proteine animali, perché
consumano molte più calorie vegetali, di quante ne producono sotto forma di
carne, latte e uova. Per produrre una caloria di origine animale, ne vengono
consumate circa 15 di origine vegetale, sotto forma di mangimi.
Per l’utilizzo zootecnico, negli Stati
Uniti vengono impiegati il 70% degli alimenti vegetali (cereali e semi oleosi),
in Europa il 55%, mentre in India solo il 2%. Gli allevamenti intensivi
competono per il cibo con gli umani, considerando che il 50% dei cereali e il
75% della soia prodotti nel mondo vengono destinati agli animali allevati. Una
persona con una dieta ad elevato consumo di carne attualmente necessita di
circa 4.000 metri quadri di terreno per la produzione di foraggio e cereali per
nutrire gli animali necessari, mentre per un vegetariano bastano 1.000 metri
quadri. Attualmente si stima che siano disponibili circa 2.700 metri quadri di
suolo coltivabile a testa a livello mondiale, ma per l’aumento della
popolazione nel 2050 tale disponibilità pro capite sarà di 1.200-2.000 metri
quadri.
Oltre all’impiego di almeno la metà dei
suoli fertili dell’intero pianeta per la produzione di cereali, semi oleosi,
proteaginose (colture industriali a elevato tenore proteico per la produzione
di mangimi) e foraggi, poiché per produrre più carne è indispensabile puntare
all’ottimizzazione delle rese agricole, l’allevamento industriale comporta un
enorme uso di fertilizzanti, diserbanti e pesticidi. Negli Stati Uniti l’80% di
tutti gli erbicidi viene impiegato nei campi di mais e di soia destinati
all’alimentazione animale.
In Italia l’atrazina (erbicida) utilizzata
nelle coltivazioni di mais e bandita 25 anni fa per la sua cancerogenicità è
ancora presente nell’acqua del Po e si pensa che ci vorranno ancora parecchi
anni per eliminarla. Nel bacino del Po sono contaminate le acque superficiali e
buona parte di quelle sotterranee.
I costi della produzione
della soia
In Sud America ci sono forse le
conseguenze più gravi da allevamento intensivo. Qui, in soli tre paesi –
Brasile, Paraguay e Argentina – viene prodotto il 95% della soia mondialmente
esportata. Questa monocoltura è responsabile della deforestazione di una parte
rilevante della foresta amazzonica sia per ricavarne terreni agricoli, sia per
la costruzione di reti stradali per il trasporto del prodotto ai porti
principali. Inoltre, poiché la soia coltivata in questi paesi è in buona parte
Ogm, essa è responsabile del massiccio uso del Roundap (glifosato) della Monsanto,
un pesticida probabilmente cancerogeno secondo l’«Agenzia internazionale per la
ricerca sul cancro»(Iarc). In particolare, a esso sarebbe associato il linfoma
non-Hodgkin. I danni provocati da questo erbicida sono ingenti non solo per
l’ambiente, ma anche per i contadini e per le loro famiglie, che si ammalano
sempre di più, dal momento che lo spargimento sui campi avviene per mezzo di
aerei. Un’altra conseguenza della monocoltura di soia è l’accaparramento del
terreno da parte dei latifondisti, con l’esproprio (spesso tramite l’uso delle
armi) delle popolazioni rurali, che sono costrette ad abbandonare la terra
abitata da generazioni e ad andare ad aumentare il numero di presenze nelle
periferie delle grandi città. Infine questa monocoltura comporta il massiccio
uso di acqua fossile per irrigazione e provoca lisciviazione e progressiva
desertificazione del terreno (fenomeno comune a ogni tipo di coltivazione
intensiva in cui ci sia uso di grandi quantità di fertilizzanti e di
irrigazioni con acqua di falda ricca di sali minerali). In Italia la soia viene
utilizzata negli allevamenti (dopo la proibizione dell’uso delle farine
animali, a seguito della crisi della «mucca pazza») e quella d’importazione dai
paesi sudamericani (quindi prevalentemente Ogm) ammonta al 95% del totale.
Il consumo di energia
fossile
Per quanto riguarda il consumo espresso in
Kcal di energia fossile necessaria per la produzione di 1 Kcal di alimento, il
rapporto più sfavorevole riguarda la carne di agnello con 57:1, seguito da quella
di manzo con 40:1, 39:1 per le uova, 14:1 per il latte e la carne di suino,
mentre per il grano il rapporto è di 2:2.
È evidente che è necessario ridurre i
consumi di carne, sia per salvaguardare la nostra salute, che per un minore
impatto ambientale, ma anche per salvaguardare la salute e i diritti di
popolazioni, che vengono espropriate dei loro terreni e a cui viene impedito di
coltivare piante per la loro sussistenza, nel rispetto della biodiversità, che
invece va persa.
Per non parlare del fatto che è
assolutamente sbagliato considerare gli animali come macchine per produrre
cibo, prive di sensibilità e di consapevolezza di sé, infliggendo loro le
peggiori sofferenze, quando ormai sono moltissimi gli studi di etologia che
hanno dimostrato esattamente il contrario. Sono innumerevoli gli esempi di
grande intelligenza e di sensibilità nel mondo animale, di cui comunque
l’essere umano fa parte. Invece di avere pretese di superiorità sugli altri
animali e trattarli come merci piuttosto che come esseri viventi, dovremmo
prendere esempio dai grandi carnivori, che predano esclusivamente quando hanno
fame, non sprecano nulla e solitamente si nutrono di animali per lo più già
deperiti.
L’altra faccia
della soia (e della quinoa)
L’UOMO E IL
CIBO / SECONDA PARTE
La sua dentatura dimostra che l’essere umano è
onnivoro. Anche per questo è riuscito ad adattarsi all’ambiente. Oggi il
problema è trovare una dieta che risponda alle esigenze nutritive e, allo
stesso tempo, rispetti gli animali e l’ambiente. I pro e i contro della scelta
vegetariana e di quella vegana.
Come dimostra la nostra dentatura, in cui
sono contemporaneamente presenti sia canini di modeste dimensioni, ma comunque
atti a mangiare carne, che denti molari e premolari per triturare vegetali
(mentre gli incisivi servono per mordere ogni tipo di cibo), l’essere umano è
onnivoro e forse questa caratteristica ha determinato il successo evolutivo
dell’Homo sapiens, per la sua grande capacità di adattamento all’ambiente e a
tutti i tipi di cibo in esso presenti. Tuttavia non siamo erbivori, cioè non
disponiamo del corredo enzimatico necessario per ricavare energia dalla
cellulosa, lo zucchero complesso maggiormente presente nei vegetali. Per non
andare incontro a carenze vitaminiche, soprattutto di vitamina B12 e di
aminoacidi essenziali, presenti nella carne e che non siamo capaci di
sintetizzare in proprio, siamo quindi costretti a mangiare di tanto in tanto
cibi di origine animale. In pratica, ciò che dobbiamo introdurre nel nostro
organismo con l’alimentazione è strettamente correlato al nostro Dna, ereditato
dai nostri antenati, che in effetti si cibavano anche, ma non solo, di carne.
Vegetariani e vegani:
non va tutto bene
Resta il dilemma del rispetto degli
animali. Da questo punto di vista la dieta che meglio concilia quest’ultimo con
le nostre esigenze nutritive è quella latte-ovo-vegetariana, anche se si
rischia di eccedere nel consumo di latte e uova, per ottenere la stessa qualità
di principi alimentari presenti in quantità superiore nella carne. Inoltre,
questa dieta è inadatta per gli intolleranti al lattosio e per coloro che hanno
problemi di ipercolesterolemia familiare.
La dieta vegana, nata come scelta etica
del rispetto per gli animali e per l’ambiente, esclude invece totalmente i
prodotti di origine animale e li sostituisce con prodotti vegetali
particolarmente ricchi di proteine come la soia (abbondantemente utilizzata
nella cucina vegana per produrre alimenti che ricordano, per consistenza, la
carne e i prodotti caseari senza avere però le stesse proprietà nutritive), la
quinoa, le mandorle, l’avocado e gli anacardi. In realtà questa dieta è
controversa perché, per ricavare le proteine necessarie, utilizza grandi
quantità di soia, con il grande impatto ambientale che essa comporta
(disboscamenti, impoverimento dei suoli, ecc.).
Un altro alimento largamente utilizzato
nella cucina vegana (ma non solo) è la quinoa coltivata in Bolivia, Cile, Perù
ed Ecuador. Si tratta di una pianta erbacea della famiglia delle Chenopodiacee
(a cui appartengono anche spinaci e barbabietole), dalle grandi proprietà
nutritive perché composta per il 60% da amido e per il 12-18% da proteine
ricche di due aminoacidi essenziali: la lisina e la metionina. La lisina è
necessaria allo sviluppo e alla fissazione del calcio sulle ossa e inoltre
favorisce la produzione di anticorpi, ormoni ed enzimi. La metionina ha
un’azione lipolitica e partecipa ai processi di detossificazione e di
eliminazione dei prodotti metabolici di scarto.
Nel 2013 la quinoa è stata dichiarata
«cibo dell’anno» dall’allora segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e la
sua produzione è stata interessata da un vero e proprio boom, vista la domanda
a livello mondiale. In Bolivia, i terreni destinati alla produzione di questa
pianta sono passati, nel giro di pochi anni, da 10.000 a 50.000 ettari e il 90%
dei semi prodotti è destinata all’esportazione. In pratica i terreni, che in
passato producevano una grande quantità di colture diverse, si sono trasformati
in monocolture di quinoa. Data la grande richiesta, il prezzo della quinoa è
aumentato fino a triplicare, al punto che per i contadini del Perù, per i quali
questa pianta è sempre stata parte della cucina tradizionale da migliaia di
anni, è diventato impossibile cibarsene. In Bolivia il suo prezzo è diventato
quattro volte tanto quello del riso o di altri cereali. La quinoa viene perciò
venduta quasi del tutto o scambiata con Coca-Cola, dolciumi e cibo della dieta
occidentale. Anche per questa causa, attualmente il 19,5% dei bambini peruviani
(dato Unicef) soffre di malnutrizione. Inoltre, in passato la quinoa veniva
coltivata solo sui pendii delle Ande, mentre i terreni più a valle erano
destinati all’allevamento di lama e alpaca. Ora molti di questi terreni sono
utilizzati per la coltivazione della pianta, mentre gli allevamenti si sono
notevolmente ridotti e sono stati confinati nelle zone collinari, riducendo
ulteriormente le possibilità di sostentamento del popolo andino. A tutto questo
si aggiunge l’uso di fertilizzanti e di anticrittogamici di scarsa qualità, che
inquinano il suolo, le falde acquifere e l’aria, impoverendo il terreno, la cui
resa sta diminuendo progressivamente.
Altro alimento controverso presente spesso
nella dieta vegana sono gli anacardi coltivati per il 40% nel Vietnam, spesso
da tossicodipendenti condannati ai lavori forzati in centri di recupero, mentre
il restante viene prodotto nelle zone più povere della Costa d’Avorio e
dell’India. Qui gli anacardi vengono ripuliti dai loro gusci a mani nude dalle
donne, che non possono permettersi i guanti per proteggersi dall’olio caustico
formato dagli acidi anacardici cardolo e metilcardolo, i quali provocano ferite
permanenti simili a ustioni sulla pelle.
La dieta mediterranea
È evidente che la dieta vegana è molto
rispettosa degli animali, ma non altrettanto delle persone che producono parte
del cibo utilizzato. Questa dieta sarebbe forse più rispettosa sia degli
animali che degli umani, se utilizzasse esclusivamente frutta e verdura,
cereali e oleaginose a Km 0. Resta il fatto che necessita dell’integrazione di
vitamine del gruppo B, in particolare di B12, per non incorrere nel rischio di
anemia perniciosa e di disturbi neurologici ed è decisamente sconsigliata per i
bambini, gli adolescenti, le donne in gravidanza e in allattamento.
Per chi non può fare a meno della carne,
la dieta più rispettosa dell’ambiente è quella mediterranea, che prevede un
abbondante consumo di cereali, di ortaggi e frutta, un consumo medio di pesce e
un limitato consumo di carne e di latticini, mentre gli zuccheri semplici sono
ridotti al minimo indispensabile.
I gas serra delle risaie
Sia la dieta vegetariana che quella
vegana, se particolarmente ricche di riso possono avere un certo peso a livello
di impatto ambientale. Questo perché, come si è visto da recenti studi, tra i
principali produttori di gas serra al mondo ci sono le risaie a sommersione,
che emettono metano e protossido di azoto in quantità tali da potere essere
paragonate all’attività di almeno 200 centrali a carbone per quanto riguarda il
loro effetto sul riscaldamento globale, ma la stima è per difetto, se si
considerano le emissioni sul lungo periodo. Perché avviene tutto ciò? Il riso,
almeno nel 75% dei casi, viene coltivato in sommersione, tecnica che soddisfa
sia le esigenze idriche che quelle di termoregolazione delle piante, con
limitazione delle escursioni termiche a cui esse sarebbero esposte se coltivate
su terreno asciutto. Questo però comporta che si crei un ambiente anaerobico
sommerso con la crescita di batteri anaerobi metanogeni, che riescono a
ottenere metano dalla digestione dell’amido presente nelle radici delle piante,
liberandolo nell’atmosfera. Per quanto riguarda la produzione di protossido di
azoto, essa deriva dalla nitrificazione e denitrificazione del suolo, a seguito
dell’uso dei fertilizzanti azotati. Considerando l’estensione delle risaie
sulla Terra, le emissioni di metano ad esse dovuto rappresentano il 20% del
totale. Tali emissioni possono variare a seconda del clima, dell’annata e del
modo di coltivare il riso. Mediamente per la coltura in sommersione continua
vengono emessi 185 Kg/ha/anno, mentre per la semina interrata con sommersione
differita vengono rilasciati 115 Kg/ha/anno e infine 5Kg/ha/anno per la semina
a irrigazione turnata, che però rende il 40% in meno come prodotto. Il rovescio
della medaglia è che man mano che diminuisce la produzione di metano delle
risaie, aumenta quella di protossido d’azoto, gas serra 12 volte più potente
del metano stesso e 296 volte più della CO2, come già detto.
Nelle risaie a sommersione continua ne viene rilasciato 1 Kg/ha/anno, per la
semina interrata a sommersione differita 1,6 Kg/ha/anno e per quella a
irrigazione turnata 4,5 Kg/ha/anno. Se tutte le risaie del mondo fossero
convertite a irrigazione turnata, le emissioni annue di metano diminuirebbero
di 12 Tg, ma occorrerebbe detrarre l’incremento di protossido di azoto
stimabile in 7,7 Tg di metano equivalente. Questo però comporterebbe la
riduzione del 30% della produzione mondiale di riso, che è la seconda coltura
più importante per la nutrizione umana dopo quella del frumento. Ne varrebbe la
pena? La risposta è ardua, perché altri studi hanno dimostrato che elevati
livelli di CO2 causerebbero una riduzione
dei tassi di minerali, di proteine e di vitamine di questo cereale, vale a dire
che i gas serra stanno anche rendendo il riso meno nutriente.
Nel nostro piccolo
Quello che possiamo fare noi, per pesare
meno sull’ambiente con la nostra alimentazione è probabilmente fare sempre
attenzione alla provenienza dei cibi, prediligendo quelli a Km 0, o addirittura
coltivandoci qualche ortaggio e frutta direttamente in proprio, se possibile
(per pomodori e insalata bastano un paio di cassette di terra sul balcone), in
modo da non favorire più di tanto il trasporto su gomma.
Obesi e denutriti,
il paradosso alimentare
L’UOMO E IL CIBO / TERZA PARTE
Ai giorni nostri stiamo assistendo a un
vero e proprio paradosso, per quanto riguarda l’accesso al cibo a livello
mondiale. Secondo il rapporto Food security and nutrition in
the world (Lo stato della sicurezza alimentare e nutrizione nel
mondo) del 2018, realizzato congiuntamente da cinque agenzie Onu – la Fao
(Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura),
il World Food Programme (Programma alimentare
mondiale, Pam), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef),
l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms / Who) e il Fondo internazionale
per lo sviluppo agricolo (Ifad) – attualmente vi sono al mondo 821 milioni di
persone denutrite e 672 milioni di obesi.
Fame zero: obiettivo
fallito
Per quanto riguarda la fame nel mondo, non
solo siamo ancora lontani dall’obiettivo che si erano prefissati gli stati di
eliminare la fame entro il 2030 (il Sustainable development goal of
zero hunger, l’obiettivo dell’annullamento della fame con uno
sviluppo sostenibile), ma negli ultimi tre anni si è assistito a un trend in
crescita, con una persona su nove al mondo che soffre la fame, soprattutto in
Africa, Asia e America Latina, praticamente un ritorno alla situazione di dieci
anni fa. Stanno nuovamente aumentando il rischio di insufficienza di peso alla
nascita, il ritardo nella crescita e l’anemia nelle donne gravide, rispetto al
minimo storico di 783,7 milioni di persone denutrite nel 2014.
Le cause di questa tendenza al rialzo del
numero di persone denutrite (vedi anche l’articolo seguente a pag. 68, ndr)
sono molteplici. Ai gravi conflitti che interessano diversi paesi si è aggiunta
una notevole variabilità climatica, spesso con fenomeni estremi, che
compromettono la produzione delle risorse alimentari, quindi la loro
disponibilità continuativa.
Le alterazioni climatiche causano non solo
la riduzione della quantità degli alimenti, ma anche della qualità dei
nutrienti e della loro diversità.
Altre cause importanti sono il crescente
fenomeno dell’urbanizzazione (nel 2008 il numero delle persone che vivono in
città ha superato quello degli abitanti delle zone rurali); la volatilità dei
prezzi degli alimenti a seguito dell’aumento della speculazione finanziaria,
che ha vincolato il prezzo del cibo ad altre commodity (prodotti
primari o materie prime, che rappresentano fondamentali oggetti di scambio
internazionale perché sono fungibili, cioè sono gli stessi indipendentemente da
chi li produce), ad esempio alle quotazioni del petrolio. Questo è accaduto, ad
esempio, tra il 2010 e il 2011 quando vi fu un rialzo dei prezzi dei prodotti
alimentari di quasi il 20% che ridusse alla fame altri 44 milioni di persone,
grazie alle operazioni finanziarie dei trader e degli
investitori che considerano il cibo semplicemente come un qualunque oggetto di
indicizzazione e di speculazione finanziaria.
La diffusione delle
tossine
Altra causa dell’aumento della fame nel
mondo è stata una maggiore diffusione e contaminazione degli alimenti da parte
di aflatossine o altre micotossine: tossine prodotte da muffe o funghi, di cui
le specie più comuni che colpiscono i vegetali sono l’Aspergillus, soprattutto
nel mais, il Penicillium, una muffa che contamina i cereali e i legumi in fase
di raccolta e di conservazione, il Fusarium, una muffa, che contamina le piante
e i semi durante la coltivazione, nonché i prodotti alimentari derivati.
Sicuramente i cereali, il mais in primis,
sono i vegetali più colpiti. Seguono i legumi, le arachidi, le noci, le
mandorle, il cacao e tutti i loro derivati, nonché le spezie. Possono risultare
contaminati anche latte e carne, se i mangimi per animali a base di mais sono
stati precedentemente contaminati. Va ricordato che l’aflatossina B1 è un
cancerogeno del gruppo 1, cioè il più pericoloso e colpisce soprattutto il
fegato.
Senza verdure, senza
frutta
La malnutrizione è spesso causata anche
dalla dieta povera di nutrienti derivati dai diversi tipi di verdure. Purtroppo
molto spesso gli enti finanziatori, i donatori e i governi si concentrano sulla
produzione e fornitura di calorie, piuttosto che di nutrienti. Basti pensare
che, da ormai quasi tre decenni, nell’Africa subsahariana e in Asia la
produzione di alimenti si è concentrata soprattutto sulle commodity come mais, frumento e riso e molto meno
sui prodotti autoctoni come miglio, sorgo e ortaggi. Per buona parte dei
poveri, le verdure rappresentano spesso un bene di lusso e la ricerca agricola
internazionale impiega molti più fondi negli studi per il miglioramento della
produzione dei cereali che di ortaggi e frutta. Questo significa non essere
lungimiranti, perché la produzione di frutta e di ortaggi è il modo più
sostenibile ed economico per porre rimedio alla malnutrizione – dovuta a
carenze di micronutrienti, come la vitamina A, ferro e iodio -, che colpisce
circa un miliardo di persone in tutto il mondo. Tali carenze comportano uno
sviluppo mentale e fisico inadeguati, causano cecità e anemia soprattutto
nell’infanzia e inoltre una riduzione delle prestazioni lavorative e
scolastiche, che si ripercuotono sull’economia di comunità povere e già gravate
da altri problemi sanitari. La denutrizione e la malnutrizione infatti hanno
ripercussioni sul sistema immunitario, che risulta meno efficiente nella difesa
dalle malattie, le quali si presentano perciò di gravità e durata superiori
rispetto a quanto succede nelle persone alimentate bene. Si è osservato che
ridotti consumi di verdure sono correlati a tassi di mortalità più alti per
bambini sotto i 5 anni di età. Attualmente sono circa 151 milioni al mondo,
circa il 22%, i bambini sotto i 5 anni con un ritardo nella crescita. In Niger
ad esempio, le persone hanno a disposizione giornalmente circa 100 grammi di
verdura, mentre la dose giornaliera di frutta e verdura raccomandata è di circa
600-800 grammi e questo paese è tra quelli con le più alte percentuali di
malnutrizione e di mortalità infantile al mondo.
Attualmente oltre due terzi del suolo
terrestre sono rappresentati da terreni coltivati per lo più a monocolture.
Questo comporta la perdita di biodiversità agricola, nonché l’impossibilità per
i piccoli agricoltori di accedere ai mercati. Per risolvere il problema della
fame, tra le altre cose, è perciò indispensabile tornare ad un sistema agricolo
salutare, sostenibile e praticabile, dove trovano spazio i piccoli agricoltori,
che devono potere accedere a mercati dove le loro merci siano valutate
equamente, in modo da ricavare un reddito dal proprio lavoro.
È poi fondamentale imparare (e insegnare)
a cucinare gli ortaggi in modo da preservarne le proprietà nutritive. Spesso
infatti le verdure vengono cotte troppo a lungo, perdendo così gran parte dei
nutrienti, quindi per migliorare il loro valore nutrizionale è necessario
abbreviare i tempi di cottura.
Per migliorare la produzione agricola
sostenibile sono indispensabili servizi di divulgazione agricola nelle comunità
rurali, gestiti da persone realmente competenti. Attualmente nell’Africa
subsahariana i divulgatori agricoli, che un tempo fornivano informazioni su
nuove varietà di sementi, sulle tecnologie per l’irrigazione e sulle condizioni
atmosferiche, sono stati sostituiti da commercianti di fertilizzanti e di
pesticidi, spesso con scarsissime conoscenze e formazione. Un aiuto in tal
senso potrebbe venire dalla tecnologia informatica. Esistono già servizi su
internet come «FrontlineSms», che offrono informazioni in tempo reale e
permettono agli agricoltori di rimanere in contatto tra loro e con potenziali
clienti. Inoltre, poiché in Africa l’80% di coloro che coltivano la terra sono
donne, che solitamente hanno maggiori difficoltà di accesso alle informazioni
tramite passaparola, internet rappresenta un modo per ottenere le stesse
informazioni, che di solito sono una prerogativa maschile. Laddove
l’agricoltura è praticata maggiormente da donne, che quasi mai sono
proprietarie del terreno, un miglioramento nella legislazione per l’accesso
femminile alla proprietà, all’istruzione e al credito bancario, potrebbe
rappresentare un ulteriore passo avanti per un’agricoltura di qualità e
sostenibile.
Geografia dell’obesità
L’altra faccia di un’alimentazione
inadeguata e di un’infrastruttura agricola carente è rappresentata dal dilagare
a livello mondiale dell’obesità che colpisce 672 milioni di persone nel mondo.
Secondo uno studio condotto da Majid Ezzati dell’Imperial College di
Londra e da oltre mille ricercatori della Ncd Risk Factor Collaboration sulle
variazioni dell’indice di massa corporea (Bmi), cioè del rapporto tra altezza e
peso di oltre 112 milioni di persone di 200 paesi tra il 1985 e il 2017, sta
cambiando la geografia globale dell’obesità. La tendenza all’aumento di peso è
presente quasi ovunque e questo fenomeno risulta più accentuato nelle aree
rurali dei paesi poveri o a medio reddito. Quando l’indice di massa corporea è
nel range 19-24, la persona ha un peso nella norma, tra 25-30 è in sovrappeso,
oltre 30 è obesa. Lo studio ha dimostrato che nell’intervallo di tempo
considerato, le donne dei paesi presi in esame hanno acquisito 2 punti di Bmi e
gli uomini 2,2 in media, corrispondenti a un aumento ponderale di circa 5-6
chilogrammi. In particolare gli aumenti ponderali sono stati più marcati per le
donne nelle aree rurali in Egitto e in Honduras (con 5 punti in più), per gli
uomini nell’isola caraibica di S. Lucia, in Barhein, Perù, Cina, Repubblica
Dominicana e Stati Uniti (con oltre 3,1 punti in più). I motivi di tale aumento
soprattutto nelle zone rurali possono ascriversi a modesti aumenti di reddito,
ad una agricoltura più meccanizzata, ad un maggiore uso dell’auto. Se però
consideriamo l’aumento di peso della popolazione mondiale e facciamo un
confronto tra molti dei cibi consumati attualmente e quelli consumati prima del
secondo conflitto mondiale, ci rendiamo conto che a farla da padrone sono
quantità smodate di cereali prodotti e trasformati, soprattutto mais e soia.
A tutto mais
Il granoturco o mais, grazie alla sua
enorme capacità di adattamento ad ogni tipo di terreno e alla sua altrettanto
enorme versatilità di trasformazione, è presente in tutto ciò che mangiamo o
quasi. Esso viene usato come mangime per animali d’allevamento: bovini, ovini,
suini, pollame, ma anche salmoni e pesci gatto. Queste specie sarebbero
erbivore o tutt’al più onnivore le prime quattro e carnivore le ultime due, se
considerate in natura, ma che vengono riprogrammate tutte come vegetariane
dalla moderna zootecnia. Troviamo poi il mais in ogni cibo confezionato. Se
diamo un’occhiata agli ingredienti, spesso vi troviamo componenti come amido
modificato, lecitina, mono-, di-, trigliceridi, coloranti che danno un
gradevole aspetto dorato, acido citrico: sono tutti derivati del mais. E che
dire delle bevande gassate o di quelle non gassate al gusto di frutta, dove è
onnipresente l’Hfcs (High Fructose Corn Syrup), uno
sciroppo dolcificante a base di fruttosio ricavato dal mais, che fece la sua
apparizione nel 1980? O della birra, il cui alcool deriva dalla fermentazione
del glucosio sempre proveniente dalla stessa pianta? Del resto uno dei primi
impieghi della montagna di mais a disposizione, negli anni ’20 del secolo
scorso, fu proprio quello di distillarlo e di trasformarlo in whisky nella
valle dell’Ohio. All’epoca il mais dette origine a una massa di alcolizzati,
oggi ci fa diventare obesi.
E perché c’è tutto questo mais (e soia) da
impiegare ovunque? Perché il prezzo delle materie agricole tende a scendere con
il tempo, specialmente se aumenta la produzione nei campi o la lavorazione. C’è
quindi una tendenza da parte degli agricoltori a seminare sempre più e a
occupare nuovi terreni, per potere avere lo stesso guadagno. Questo spiega
l’espansione delle monocolture.
Grassi e zuccheri,
attrazione fatale
L’UOMO E IL
CIBO / QUARTA PARTE
L’obesità è una condizione che favorisce varie
patologie: diabete, ischemie, tumori. Evitarla è possibile con stili di vita
adeguati. E una dieta con meno grassi e zuccheri, più frutta e verdure.
In alcuni paesi, ad esempio negli Stati
Uniti, l’obesità è diventata un’epidemia, probabilmente il problema sanitario
più pressante da risolvere, con un costo per la collettività stimato in circa
90 miliardi di dollari annui. Attualmente tre statunitensi su cinque sono in
sovrappeso e uno su cinque è obeso. Questo problema riguarda tanto gli adulti
che i bambini e i giovani: dal 1970 a oggi il numero di giovani americani in
sovrappeso è triplicato e attualmente rappresenta un terzo del totale.
Patologie e costi
sociali
All’obesità e al sovrappeso sono associate
spesso malattie croniche che hanno un grave impatto sulla speranza di vita come
le malattie cardiovascolari, i tumori e il diabete di tipo 2 (che un tempo
veniva definito «diabete dell’adulto», ma attualmente colpisce sempre più
spesso anche i giovani). Oltre a un’alimentazione scorretta, l’obesità e le
patologie a essa correlate sono associate anche a una riduzione dell’attività
fisica.
Secondo uno studio dell’Oms, ogni anno
muoiono circa 3,4 milioni di persone al mondo per patologie correlate con
l’obesità. Inoltre, sarebbero correlati all’obesità il 44% dei casi di diabete,
il 23% delle malattie ischemiche del cuore e il 7-41% di alcuni tipi di cancro
(esofago, pancreas, colecisti, colon-retto, mammella, endometrio, rene).
Per quanto riguarda le malattie
cardiovascolari, esse rappresentano la prima causa di morte a livello mondiale
con 17,5 milioni di morti all’anno allo stato attuale e una previsione per il
2030 di 23 milioni di decessi. Nel solo continente europeo queste malattie
causano ogni anno circa 4,3 milioni di morti. In Italia, nel 2015 si sono
verificati 240mila decessi per questa causa, cioè il 37% dei decessi totali,
con un aumento dell’8,8% rispetto all’anno precedente (43% uomini, 57% donne).
Negli uomini prevale come prima causa di morte la malattia ischemica
coronarica, mentre nelle donne prevalgono le malattie cerebrovascolari.
Inoltre, le malattie cardiovascolari rappresentano la più frequente causa di
ricovero ospedaliero (14,6% del totale dei ricoveri in Italia nel 2016).
Secondo l’Oms, tre quarti della mortalità cardiovascolare a livello mondiale
potrebbe essere prevenuta con adeguate modifiche allo stile di vita e
dell’alimentazione e con il controllo di fattori di rischio come
l’ipertensione, l’ipercolesterolemia e il diabete (che da solo raddoppia la
probabilità di contrarre una malattia cardiovascolare). I costi totali di
queste patologie, comprendenti non solo quelli diretti (servizi ospedalieri,
farmaci, assistenza domiciliare, ecc.), ma anche quelli indiretti (perdita di
produttività lavorativa dovuta alla malattia o alla morte prematura dei
pazienti) sono elevatissimi.
Tumori e diabete 2
Altre patologie croniche legate anche a
una scorretta alimentazione e uno scorretto stile di vita sono i tumori.
Secondo l’International Agency for Research on Cancer (Iarc), nel 2018 si sono
verificati nel mondo 9,6 milioni di decessi per tumore.
In Italia, i tumori rappresentano la
seconda causa di morte con più di 178mila decessi nel 2015 (mille casi in più
dell’anno precedente) e la prima causa di perdita di anni di vita per malattia,
disabilità o morte prematura, con oltre 3 milioni di anni in totale.
Anche per queste patologie i costi
complessivi sono ingenti: negli Stati Uniti, nel 2018, sono stati spesi per
farmaci antitumorali 133 miliardi di dollari contro i 96 del 2013.
Attualmente si parla addirittura di
«tossicità finanziaria» a causa del continuo aumento dei prezzi dei farmaci
oncologici, che incidono molto spesso direttamente sul bilancio economico del
malato.
In Europa, nel 2018, si sono spesi 18
miliardi di euro soltanto per il cancro al polmone; in Italia, il sistema sanitario
ha destinato circa 16 miliardi di euro per i pazienti oncologici.
Nel 2018 sono state formulate 373mila
nuove diagnosi di cancro (mille nuove diagnosi al giorno).
Il diabete di tipo 2 è un’altra patologia
strettamente associata alle abitudini alimentari e allo stile di vita, laddove
vi sia familiarità per questa malattia. Ogni anno si registrano più di 7
milioni di nuovi casi al mondo e le stime per il 2025 prevedono che ci sarà il
7,1% della popolazione mondiale colpita, pari a circa 380 milioni di persone.
Si tratta di una malattia altamente impattante sia per il malato, per le
complicanze che può comportare, sia per gli elevati costi socio-economici. Tra
le complicanze del diabete ci sono l’insufficienza renale, la retinopatia
diabetica, la microangiopatia diabetica che può portare all’amputazione degli
arti inferiori, neuropatie e danni al sistema nervoso e la predisposizione alle
malattie cardiovascolari.
Attualmente in Italia le persone colpite
da diabete 2 sono 3,4 milioni (200mila nuovi casi all’anno). Secondo l’Istat,
in Italia la prevalenza del diabete 2 è passata dal 3,9% nel 2012 al 5,7% nel
2016.
La prevalenza del diabete e delle altre
patologie croniche correlate all’obesità e al sovrappeso è in crescita non solo
nei paesi industrializzati, ma anche in quelli in via di sviluppo e si correla
a un progressivo aumento della popolazione mondiale dovuto soprattutto a un
aumento della vita media, oltre che a uno stato d’indigenza, che porta ad
acquistare cibo di scarsa qualità. Tutto ciò va a aggiungersi all’aumento delle
malattie neurodegenerative, demenze in primis, che sono anch’esse in parte
correlate a una dieta carente o scorretta. Nel siero dei pazienti di Alzheimer
e di quelli affetti da demenza vascolare sono stati riscontrati bassi livelli
di vitamina E, C, zinco, carotenoidi e albumina, mentre gli studi sul
colesterolo e sul rapporto tra acidi grassi saturi/polinsaturi della dieta
dimostrano un coinvolgimento del metabolismo dei grassi nell’insorgenza delle
neurodegenerazioni, oltre che delle malattie cardiovascolari.
Una dieta carente di calcio e di vitamina
D si correla a un aumentato rischio di osteoporosi nella popolazione anziana,
con conseguenti possibili fratture patologiche. L’assunzione quotidiana di
questi nutrienti riduce fino all’8% il rischio di fratture. Le perdite
quotidiane di calcio vanno prevenute eliminando gli stili di vita scorretti,
come l’eccessivo consumo di carne, di sodio (sale) e di alcolici, nonché il
fumo e il sovrappeso e svolgendo una moderata attività fisica.
«Benessere» e
dipendenza: come il cibo spazzatura attrae
Le patologie croniche correlate
all’obesità rappresentano un grave problema socioeconomico nei paesi
industrializzati, ma rischiano di diventare un problema insormontabile per i
paesi in via di sviluppo, già gravati dalla presenza di altre malattie, oltre
che dalla penuria di risorse economiche. Purtroppo, le popolazioni più povere
spesso acquistano cibo di bassa qualità per quanto riguarda i nutrienti, ma
altamente calorico, il cosiddetto cibo spazzatura. Questo è dovuto al fatto che
l’industria alimentare ha reso gli alimenti a alto contenuto energetico i più
economici sul mercato, se valutiamo il costo per caloria. Il costo medio di una
caloria di zucchero è infatti sceso drasticamente dagli anni ’70 del secolo
scorso a oggi. I poveri sono quindi portati a spendere le loro poche risorse in
cibi più a buon mercato, ricchi di carboidrati e di grassi (questi ultimi
derivati spesso dalla soia, dalla colza e dalla palma da olio), che risultano
tuttavia molto appetibili (i cibi grassi infondono una sensazione di benessere,
lo zucchero è in grado di creare dipendenza).
È chiaro che per arginare il problema
delle patologie correlate ai disordini alimentari si deve agire su più fronti,
a partire da un’agricoltura più diversificata e sostenibile, grazie all’impegno
dei governi e della ricerca scientifica, unitamente alla preparazione di cibi
più salubri da parte dell’industria alimentare, per arrivare a una mirata
attività di informazione della popolazione sia da parte delle scuole, che delle
aziende sanitarie. Nel contempo dovrebbero essere calmierati i prezzi di frutta
e verdura di qualità, limitando la speculazione finanziaria in questo settore.
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