Oggi ci inondano la rabbia, il dolore e la desolazione. L’Amazzonia brucia,
il bosco Chiquitano è ferito a morte e tra
le fiamme brucia anche parte delle nostre speranze per la Bolivia e per il
mondo. Non so se questi sentimenti si possano trasformare in qualcosa
di migliore. Per il momento, fanno solo male e generano un’amarezza liquida che
sgorga dagli occhi anche se non si vuole.
Questo sentimento si aggiunge, come un fiume amaro, al malessere quotidiano
di respirare un’aria avvelenata nelle città, bere acqua insicura e malsana,
mangiare alimenti contaminati con agenti chimici… Questa nozione di
vulnerabilità sembra accompagnarci sempre di più e si aggiunge all’orrore dei
crimini contro le donne, la tratta di bambini e bambine, il vedere che la
violenza e l’ideologia machista stanno guadagnando terreno, e
poi il teatro cinico e surreale dei politici che pende come una spada di
Damocle dell’assurdo sopra le nostre teste. Ci sentiamo sempre più
preda di decisioni ignoranti, stupide e arbitrarie sulle nostre vite e su
quelle degli esseri che amiamo.
Siamo diventati vittime di un potere che si impone a forza di decretoni e
barzellette maschiliste grottesche; che ci avvolge con discorsi
rivendicativi di una nazione che non esiste più, perché si é fusa con la
cultura del gran capitale, con il suo desiderio di potere assoluto, con il suo
ideale di crescita infinita, con le sue ansie di modernità egolatra e
fallocentrica e che traspira una soggettività inondata di ignoranza, ambizione
e calunnia.
È un potere che disegna paesaggi di spoliazione dalla comodità di una
soffice poltrona e in voli costosi su elicotteri privati. Una realtà
“prodotta” nel torpore di questa vita distaccata dalla vita. Perché
l’ignoranza e il potere del capitale sono osceni e il loro desiderio è quello
della disciplina e del controllo sui corpi, “su tutti i corpi”, come dice
Eliane Brum, quelli delle donne, degli uomini, dei bambini, dei fiumi, delle
acque, delle foreste, dei loro animali, della terra.
Vorrei credere che la rabbia e il dolore sono oggi una piccola speranza
perché sono nati dall’empatia con questa territorialità estesa e dolorosa che
ci arriva dalla Chiquitanía. Migliaia di animali calcinati, migliaia di persone
colpite, migliaia di alberi consumati. Quasi un milione di ettari in
cenere. La nostra Casa Grande in fiamme.
La distruzione senza rimedio del bosco a causa della deforestazione ci
condanna a una morte lenta. Come se non lo sapessero quelli che ci hanno portato
a questa situazione limite. Il bosco, il Gran Chaco Chiquitano e
l’Amazzonia, sono una fonte di vita perché assicurano i cicli della
biodiversità, dell’acqua, della purificazione dell’aria rarefatta del
pianeta. L’Amazzonia é una fonte generosa e magica di acqua e umidità
per il continente, perché i suoi alberi la producono in forma di vapore nelle
nuvole che volano verso altre regioni con il vento, portando pioggia, tenerezza
e vita alla terra. Antonio Nobre, scienziato appassionato dell’Amazzonia,
affermava tempo fa che queste “nubi volanti”, prodotto della magia e della
generosità degli alberi, potrebbero essere in pericolo per l’effetto della
deforestazione e che questo grande polmone di aria e vitalità potrebbe dare
inizio a un processo irreversibile, se la misura della deforestazione
oltrepassa un certo limite.
Questo dono della terra – invisibile come i popoli indigeni che si prendono
cura e proteggono il bosco, invisibile come il lavoro delle donne per prendersi
cura della vita, invisibile come la forza e il valore della gente che collabora
per spegnere il fuoco – é stato distrutto. Le decisioni di Morales e
García Linera, nel caso boliviano, hanno condotto a una depredazione del
territorio e del tessuto sociale senza precedenti. La loro
scommessa a favore dell’etanolo, la loro permissività con i transgenici e la
conseguente espansione delle coltivazioni, lo stimolo all’allevamento su larga
scala per l’esportazione di carne in Cina, le loro leggi e decreti per ampliare
la frontiera agricola di piccoli produttori e coloni, le politiche per ampliare
la frontiera del gas e petrolio nella giungla fino a considerare il fracking come
alternativa e, come corollario, l’approvazione della Legge 741 e del
Decreto 3973 che hanno autorizzato gli “incendi controllati”, sono state azioni
critiche che con le loro dinamiche hanno condotto al disastro.
Mai come ora abbiamo vissuto tanta violenza contro la Natura. E i suoi gestori non
sono coscienti di questo. É proprio lì che risiede il pericolo maggiore:
nell’ignoranza del danno e della distruzione prodotti dalla loro azione; nella
mancanza di limiti che viene dalla cultura dell’impunita che sostiene la
burocrazia dello Stato Plurinazionale, quello che Hanna Arendt chiamerebbe “la
banalità del male”.
Abbiamo vissuto addormentati: “Ci succede qualcosa”, dice la gente, “non
reagiamo più”; prima un solo grido fermava gli impostori, faceva cominciare la
ribellione. Oggi ci superano i meccanismi di un potere che cresce impune con
gli altoparlanti della pompa magna populista. Dopo che tutto è già stato
distrutto e il fuoco continua ad assediare i territori, i principali
responsabili di questa tragedia elaborano una post-verità in stile
hollywoodiano per risistemare le pedine sulla loro scacchiera. Anziché
l’incendio, é la la spettacolarizzazione del Supertanker (aereo cisterna, ndt)
che arriva a salvare il piccolo villaggio e che diventa il protagonista principale.
Il “cambiamento climatico” comincia a ballare nelle bocche dei negazionisti e
non avrà nessuna conseguenza.
Ma la storia può essere implacabile e Morales sarà ricordato, da oggi e per
sempre, come il maggior depredatore indigeno dell’Amazzonia e del Chaco. Questa
tragedia provocata dall’ambizione politica ed economica autoreferenziale e
autoritaria deve essere documentata, spiegata alle generazioni successive. Perché
è una politica sui corpi che riproduce il potere patriarcale ed ecocida in tutti
i territori, e la Bolivia non é un’eccezione. La distruzione
dell’Amazzonia è il risultato dell’alleanza del patriarcato autoritario e
violento con il grande capitale che esige vita per costruire i suoi castelli di
plastica. Bisogna nominarla per imparare che il poco che resta si deve
CURARE, restaurare, proteggere. Per sapere che ciò che conta non é l’intelletto
impostore che trucca l’ingiustizia e la distruzione con parole come quelle di
García Linera, ma la coscienza dei limiti, il sapere che il fuoco brucia, che
la mancanza di acqua uccide, che il machismo denigra, che la
violenza distrugge, che l’ambizione e il calcolo politico corrompono, che
l’eccesso di permanenza al potere è malsano e può arrivare a essere criminale.
Abbiamo bisogno di limiti, ci dice la teologa ecofemminista
brasiliana Ivone Guebara, e credo che la coscienza di questi limiti deve essere
costruita con amore, ma anche con ribellione e disubbidienza, con la forza
dell’indignazione che nasce da un ethos della cura della vita, oggi assente nei
governi della nostra America. Non so se siamo ancora in tempo.
Forse l’unica speranza sta nei nostri corpi, che hanno la qualità della
memoria, del movimento, dell’interconnessione auto-riflessiva e
relazionale. Oggi l’unica ribellione possibile è quella del corpo in
connessione con la natura, un’alleanza con le altre specie e gli esseri che
sono nati assieme agli umani e sono diventati prigionieri della razionalità
capitalista patriarcale ed ecocida. I nostri corpi hanno sentimenti e
questi possono essere trasformati dalla sensazione di oppressione e immobilità
a cui conduce la paura ad una sensazione di ribellione e ricerca di nuovi
orizzonti dalla terra. Da questa terra dolce che, sebbene bruciata e
danneggiata a morte, custodisce i corpi degli alberi e degli animali
sacrificati; e contiene le ceneri che – nel dolore profondo del nostro essere –
stanno muovendo una connessione vitale nelle nostre acque interne: quelle della
mente, dei sentimenti e del cuore.
Si tratta di qualcosa che, ovviamente, i gerarchi del saccheggio non
capiranno mai.
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