(intervista di Matteo Meschiari)
Preethi Nallu, lei ha ricevuto svariati riconoscimenti internazionali, è
uno dei volti noti nell'analisi e nella divulgazione delle migrazioni su scala
planetaria e da qualche tempo ha iniziato a concentrarsi su eventi climatici
estremi e il loro impatto sui flussi migratori umani. Come è arrivata a
occuparsi di questi temi e perché?
Come migrante che ha avuto il privilegio di fare una carriera negli Stati
Uniti, in Europa e altrove, ho sviluppato una naturale inclinazione per
l’esplorazione di una delle questioni più significative del nostro tempo. Lungo
il percorso ho scoperto che la migrazione non è solo una questione umanitaria:
è un problema di sviluppo, è un problema di identità, è un problema di
innovazione e, soprattutto, è certamente un problema ambientale. Questa
multi-fattorialità è diventata ancora più evidente trattando la migrazione in
vari contesti, tredici paesi diversi, con le loro specificità ma anche con
trend e temi che si sovrappongono. Quindi, attraverso giornalismo e ricerca, ho
iniziato a collegare le cause della migrazione e della dislocazione con i
cambiamenti climatici, che oggi sono diventati un fattore dominante. È chiaro
che abbiamo bisogno di più giornalismo delle soluzioni, di iniziative
didattiche e di formazione specializzata su come affrontare il cambiamento
climatico attraverso uno spettro tematico più ampio. I proclami apocalittici
sui danni irreversibili e le prognosi del “troppo poco troppo tardi” servono a
ben poco e non motivano i lettori a farsi carico della loro parte di fardello.
Come giornalisti dobbiamo enfatizzare gli sconvolgimenti in atto e i movimenti
sociali in diversi ambiti e parti del mondo, dalle comunità agricole in Bolivia
ai movimenti indigeni in Nuova Guinea, e non solo i climate strike occidentali,
efficacemente brandizzati e ripetuti a scadenza annuale.
Il disastro ambientale globale è un fatto. Alcuni paesi non se ne sono
accorti, vivono in una specie di bolla che dirotta la percezione, altri lo
stanno già vivendo sulla propria pelle. Vuole raccontarci un caso per tutti,
per far capire a chi non capisce che cosa sta accadendo realmente? Penso
all’erosione delle coste e all’innalzamento del livello del mare. Quali scenari
migratori possiamo immaginare da qui a 10 anni? E tra 20?
Per quanto riguarda il mio lavoro, vorrei arrivare a comprendere meglio
l'impatto del cambiamento climatico sulle migrazioni umane, all'interno e al di
là dei confini nazionali. Gli studi più recenti riportano che il numero di
migranti e richiedenti asilo verso l'Unione Europea triplicherà ogni anno, e
questo unicamente a causa dei cambiamenti climatici e indipendentemente dalle
turbolenze politiche ed economiche nei paesi di origine. I dati che registrano
il nesso tra il clima nel paese di partenza e le domande di asilo disegnano una
curva a U. Così, più alto è il drastico cambiamento di temperatura, più alto è
il numero di domande di asilo. Allo stesso modo, durante un'indagine per Orb
Media sull'innalzamento dei mari e le inondazioni urbane pubblicato
da Internazionale Magazine, la reporter Annia Ciezadlo e io abbiamo
scoperto che l'aumento di oltre 1 grado delle temperature globali rispetto ai
livelli preindustriali sta effettivamente causando più inondazioni in tutto il
mondo, specialmente nei centri urbani densamente popolati. La nostra indagine
ha coinciso con il rapporto di riferimento sul cambiamento climatico pubblicato
dal gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite lo scorso ottobre, che ha
previsto che l'aumento di temperatura di 1,5 gradi avverrà molto prima di
quanto ci aspettavamo, cioè in soli dodici anni. Quindi le città che hanno
subito delle severe inondazioni lo scorso anno e che noi abbiamo studiato –
Toronto, Lagos, Kochi, Rio, Amburgo – potrebbero essere sott'acqua entro il
2100 al più tardi. I campanelli d'allarme stanno suonando più forte, ma c'è
anche molta dissonanza, e dovremmo iniziare ad ascoltare più attentamente,
perché le conseguenze del cambiamento climatico nella nostra realtà quotidiana
sono già qui. Come giornalisti è nostra responsabilità illuminare le
contraddizioni che emergono dai nuovi dati e presentare la realtà con molta più
chiarezza.
Compagnie di assicurazione e banche sanno perfettamente quello che sta
succedendo. Eppure tra i negazionisti del cambiamento climatico ci sono nomi
influenti in posizioni di enorme potere. È miopia politico-economica oppure
calcolo? Il disastro ambientale è un business? Intanto Winners and Losers del
cambiamento climatico variano nel corso degli anni. Parlare di scenari futuri è
un “gioco” praticato da studiosi ed esperti, anche di sicurezza nazionale. Qual
è la sua opinione? Ha senso fare previsioni? Si è fatta uno scenario possibile
basato sui dati attuali?
È ovvio a questo punto, senza dover citare ulteriori statistiche, che i
pattern delle migrazioni umane non solo stanno accelerando, ma stanno anche
cambiando rotta secondo modalità in grado di scombussolare comunità ed
ecosistemi costruiti nel corso dei secoli attorno a questi habitat umani,
soprattutto in contesti agrari e pastorali. Non lo vedo come un “gioco”:
conosco numerosi studiosi e ricercatori, fin da quando mi sono occupata di
COP15 (15th Conference of the Parties), la prima a
includere partiti al più alto livello politico, che stanno cercando di colmare
le lacune informative nel dibattito sui cambiamenti climatici. Ma ha ragione,
può diventare un “gioco di ipotesi” che perde credibilità quando i dati sono
decontestualizzati o quando vengono adottati dei presupposti troppo generici.
Ad esempio, “ci sono troppe persone nel mondo rispetto alle risorse esistenti”.
È certamente vero che ogni essere umano che si aggiunge al pianeta è un
ulteriore carico sulle risorse, ma questo peso è molto più elevato per ogni
essere umano che nasce in un paese ricco. Quello che voglio dire è che dobbiamo
prendere in considerazione la natura e l'entità del consumo da parte dell'uomo
e non solo la sua mera esistenza.
Ad esempio, l'India ha una densità di 450 persone per km2, mentre gli Stati
Uniti solo 36. Ma mediamente in India una persona consuma intorno ai 7000 Kwh,
mentre l'americano medio ne consuma quasi 75.000! Un altro luogo comune che
dobbiamo sfatare sul tema dell'impatto climatico è che saranno colpite solo le
comunità svantaggiate da un punto di vista socio-economico. In realtà vi sono
prove sempre maggiori del fatto che l'impatto fisico e psicologico dell'aumento
delle temperature influenzerà le fasce di tutto il mondo, non solo le comunità
sottosviluppate. Abbiamo bisogno di report più solidi su come e perché ciò
accadrà, indipendentemente dal potere d'acquisto. Ad esempio, i ricchi
potrebbero avere accesso all'acqua anche in caso di diminuzione dei flussi
idrici nei fiumi, ma non possono sfuggire alla crescente concentrazione di
inquinanti nocivi e alla contaminazione dell'acqua se i loro sistemi di
depurazione vengono meno e la circolazione diminuisce. Sarebbero in grado di
isolare le loro comunità da rifugiati e migranti che sfuggono alla scarsità di
risorse, ma non potrebbero tenere al di fuori il resto della troposfera!
Arjun Appadurai pensa che l'immaginazione sia un elemento chiave per
prendere coscienza della condizione presente e per agire nell'immediato futuro.
Ha una sua idea al riguardo?
Non penso che si tratti di una crisi dell'immaginazione. Ciò di cui abbiamo
bisogno è una crisi collettiva della coscienza. Si tratta anche di assumersi
una responsabilità individuale e non limitarsi ad alzare le mani al cielo e
additare la follia di alcune invisibili forze in gioco nei nostri governi e
nella cosiddetta comunità internazionale. Ad esempio, spesso accusiamo i
governi di alterare le informazioni relative al cambiamento climatico per
perseguire i propri interessi. Questo sicuramente accade, ma ci sono stati
anche casi in cui le loro istanze sono state accantonate perché non era
lo zeitgeist del momento. Come Kumi Naidoo, ex presidente di
Greenpeace e attuale segretario generale di Amnesty International, mi ha fatto
notare in un'intervista durante il vertice delle Nazioni Unite su rifugiati e
migranti nel 2017, il rapporto della CIA sui cambiamenti climatici che è stato
reso pubblico nel 2002 ha analizzato i nessi tra cambiamento climatico,
conflitto e dislocamento, riportando che alcune delle maggiori minacce alla
pace, alla sicurezza e alla stabilità deriveranno dai cambiamenti climatici e
non dalle usuali minacce terroristiche. Nel tempo ci sono stati parecchi
rapporti di intelligence di questo tipo. Ma pare che noi facciamo caso a tali
problemi soltanto in base a dei cicli preconfezionati di notizie – tre anni fa
è stata la volta della “crisi” della migrazione globale in risposta alle
immagini strazianti delle traversate del Mediterraneo, anche se l'accelerazione
del movimento migratorio era in corso in altre parti del mondo da ben più di un
decennio. Quest'anno è la “crisi” del cambiamento climatico come reazione
ai climate strike che sono stati organizzati, alle conferenze
e alla risonanza delle voci di singoli attivisti. Non sto dicendo che la risposta
sia di per sé una cosa negativa. Come giornalisti e come pubblico dobbiamo però
continuare a trattare l'argomento tra un picco e l'altro dei nuovi cicli
mediatici e definire l'agenda. I titoli possono calare, ma i mari non lo
faranno.
Che cosa pensa del termine “Antropocene”?
Nell'immediato contesto della nostra conversazione, mi viene naturalmente
in mente il cambiamento climatico causato dall'attività umana, un cambiamento
climatico antropogenico. Mi ricorda anche un titolo del Guardian da
far rizzare i capelli. Ho letto qualcosa del tipo "Gli scienziati
proclamano l'alba dell'epoca antropocenica ... o l’alba dell'era caratterizzata
dai consumi umani”. In quanto antropologo, lei è nella posizione migliore per
sapere che cosa questo significhi e quando sia iniziato – se
la causa sia da ricercare nell'agricoltura come principale mezzo di
sostentamento o nella rivoluzione industriale. In base alla mia limitata
comprensione del termine, credo che la classificazione di Antropocene come era
geologica causata e dettata dalle attività umane potrebbe spianare la strada a
un maggiore approfondimento su come i nostri consumi abbiano influenzato il
pianeta. Soprattutto, spero che l'uso di questa parola oltre i confini del
mondo accademico porterà a ciò che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk
definisce giustamente “un’ineguagliabile urgenza di carattere politico-morale”.
Infine, il termine mi ricorda i tassi senza precedenti in base ai quali gli
umani hanno aumentato i consumi, seguendo ciò che le nostre società e i nostri
sistemi chiamano “progresso”. Mi chiedo allora se alla base di questa
discussione non ci sia la necessità di un nuovo, intimo riesame del significato
di “progresso” in questa fase della storia umana.
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