Greta Thunberg ha mosso le montagne. Un anno fa era una ragazzina isolata e solitaria che si sedeva tutti i venerdì davanti al Parlamento svedese con il suo cartello e il suo impermeabile giallo. Lunedì 23 settembre è stata la protagonista del vertice di cosiddetti Grandi della Terra, che lei ha fustigato come Gesù i mercanti del tempio. D’altronde quei “Grandi” non sono molto più che mercanti: vivono di do ut des e non vedono altro. In mezzo c’è stata una serie ininterrotta di incontri con figure più o meno ai vertici di qualche organizzazione o istituzione europea che l’hanno per lo più (non tutti) omaggiata, senza trarne alcuna conseguenza; ma anche una gragnuola di insulti e villanie al suo indirizzo da parte di diversi media, fiduciosi nella accertata ignoranza del loro pubblico su quale sia lo stato effettivo del pianeta (e, di conseguenza, anche il loro).
Ma quello che ha
accompagnato e determinato la parabola ascendente di Greta è stata la
comparsa, prima, e lo sviluppo dirompente, poi, di un movimento mondiale di
giovani, per lo più studenti, che ha coinvolto (finora) quattro milioni di
ragazze e ragazzi (almeno cinque, con la prossima scadenza del 27 settembre) e
non dà alcun segno di ripiegare. Crescerà ancora, e molto, nei prossimi
mesi, fino a che – speriamo – la staffetta non sarà passata in mano a una
mobilitazione più generale, anche di adulti, e soprattutto di lavoratori,
cittadine e cittadini, associazioni e comitati finalmente consapevoli dei
pericoli che sta correndo il genere umano.
Per ora, comunque “il
pallino” è in mano al movimento Friday for future e ai suoi
comprimari. Non tutti se ne sono accorti, ma i temi che questo movimento
solleva e continuerà a sollevare in tutto il mondo con crescente insistenza
sono destinati a dominare il dibattito e un numero crescente di scelte
politiche di qui in poi. Perché la crisi climatica e ambientale contro cui
si batte è reale, incalzante e ineludibile. Chi continuerà a chiamarsene fuori
finirà emarginato. Questo non riguarda solo i negazionisti dichiarati come
Trump e Bolsonaro, ma anche quelli “nascosti”, che a parole riconoscono i
cambiamenti climatici in corso (magari non la loro gravità), ma poi continuano
a comportarsi come niente fosse: al governo, nelle istituzioni, nella vita di
tutti i giorni. Perché loro la risposta alle conseguenze (non alle cause) della
crisi climatica ce l’hanno. Primo: respingere con la forza e con le leggi i
migranti costretti ad abbandonare le loro terre dal degrado ambientale.
Secondo, continuare a bruciare gas, petrolio e carbone fregandosene degli
impegni presi, facendo i free riders mentre altri paesi dovranno
affrontare costi e disagi di una più o meno convinta conversione produttiva.
Terzo, usare la stretta verso i migranti per apprestare strumenti di
repressione (come i decreti Salvini) con cui far fronte alle prevedibili
rivolte che anche da noi il degrado dei territori e la crisi economica prodotta
dalla stagnazione secolare non mancherà di provocare. Tre “soluzioni” che non
risolvono nulla e fanno precipitare la crisi. Ma sul fronte opposto non tutto è
così chiaro. E là dove di queste cose si è cominciato a discutere stanno venendo
a confronto due prospettive divergenti.
La prima è quella che
ripete Greta: dobbiamo far crescere la pressione su governi e istituzioni
perché comincino ad agire. Loro sanno che cosa fare, ma non lo fanno. Che
cosa occorre fare glielo dicono gli scienziati, ma non li ascoltano. Il fatto è
invece che i governanti non sanno assolutamente che cosa fare; non ci hanno mai
pensato. Ma non lo sanno nemmeno gli scienziati, che sanno benissimo (non
tutti, ma i climatologi certamente sì) quello che sta per succedere se non si
interviene e che hanno (alcuni di loro) anche messo a punto molte conoscenze e
mezzi tecnici per farvi fronte. Ma non sanno e non possono
sapere come. Perché ciò comporta la mobilitazione e l’attivazione
delle popolazioni interessate, che è il cuore della politica (quella che i
“politici” non fanno). Molti, soprattutto nel mondo industriale “più
avvertito”, abbracciano questa posizione: fate in modo che i governi
introducano incentivi e penalità per promuovere la conversione; al resto penserà
l’industria, cioè noi, mossi dalla convenienza. È la green economy,
la soluzione adottata con il protocollo di Kyoto (1997) che affidava a
meccanismi di mercato la transizione verso un mondo ripulito dai combustibili
fossili. E stata un fallimento.
Che cosa bisogna fare
allora? Bisogna lavorare per mettere la scelta delle soluzioni da adottare
nelle mani di chi è già o sarà interessato alla propria sopravvivenza insieme a
quella di tutta la specie umana, a pagare il meno possibile i costi della
transizione, mettendoli a carico di chi può permetterselo e soprattutto a chi è
responsabile del disastro in cui ci ha precipitato: industria e finanza. Le
regole per farlo, per ora sono elementari: quelle di Extinction Rebellion:
“Dire la
verità”: nessun politico può permettersi di spiegare ai suoi concittadini
ed elettori le dimensioni effettive del disastro che incombe su tutti e poi
continuare a fare come se niente fosse. Infatti, per fare un esempio, il Comune
di Milano ha dichiarato l’emergenza climatica, ma si è ben guardato dallo
spiegare alla cittadinanza che cosa significa. “Convocare le
assemblee” (e soprattutto farle convocare dalle istituzioni): non solo per
“dire la verità”, ma per esaminare, insieme a tecnici e scienziati disponibili,
quali sono le soluzioni che si possono adottare localmente e quali quelle per
cui occorre lottare a livello generale. “Agire subito”: non aspettare
politica, istituzioni e imprese: ciò che si può fare subito lo si comincia a
fare o a pretendere: a scuola, nel quartiere, nelle aziende, nei servizi
pubblici, negli acquisti. Ed è moltissimo.
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