martedì 15 ottobre 2019

Mont’e Prama: la Megalopoli dei Veleni - Dario Serra




Prologo
Durante un convegno, un professore ordinario di geofisica annuncia ai presenti che le prospezioni da lui effettuate con lo strumento del georadar presso l’area archeologica di Mont’e Prama dimostrano l’esistenza di una megalopoli di 16 ettari, che viene definita “la Pompei della Sardegna”[1]. Già in passato si era parlato addirittura della rilevazione di possibili imponenti strutture e manufatti nelle aree contermini al sito[2]. Una probabilità ma non una certezza. Il professore era stato in precedenza coinvolto nelle operazioni di scavo e ricerca presso il sito in questione ma aveva abbandonato il progetto per alcune tensioni con la Soprintendenza, sfociate in poche ma significative dichiarazioni – da ambo le parti – dal tono recriminatorio e forse anticipatorio della vicenda in epigrafe[3].
Sempre in sede di presentazione dei risultati degli studi compiuti negli ultimi anni con il georadar, il medesimo docente cita inoltre alcuni graffiti di un santuario ipogeico al di sotto di chiesa cristiana, non lontano dal sito, che raffigurerebbero un vulcano, associabile a Pompei e all’eruzione del Vesuvio, e la potenziale presenza di strutture sommerse nel vicinissimo Stagno di Cabras[4].
Perplessità esprimono gli archeologi, sia a mezzo stampa sia sui social poiché, effettivamente, il georadar è uno strumento in grado di rilevare anomalie nel terreno, ma senza la possibilità di stabilire con certezza la tipologia e la cronologia di queste, in assenza di uno scavo (tra le tante immagini esemplificative fornite dal georadar, cito due articoli in nota a disposizione del lettore)[5]. In estrema sintesi, il georadar è uno strumento importante ma ausiliario che suggerisce all’archeologo dove può essere utile estendere l’area di scavo oppure effettuare un saggio che possa aiutare nella comprensione di un contesto. Il georadar non fornisce certezze, ma indizi e probabilità. Non è detto che l’anomalia riscontrata corrisponda ai nostri desiderata: potremmo infatti imbatterci, ad esempio, anche in semplici cavità del terreno o massi erratici che lo strumento rileva come anomalie nel sottosuolo. Il georadar non mostra le strutture e non le data.
L’immaginazione dunque può accendersi davanti a chiazze incomprensibili e far viaggiare lontano nel tempo, e talora anche lontano dalla realtà. In assenza di scavi, sottoterra può esservi tutto e il contrario di tutto. Ma questo tutto si scontra poi con la cronologia: conviene subito richiamare un testo fondamentale quanto il suo autore, Robert Tykot: Radiocarbon dating and absolute chronology in Sardina and Corsica[6].
La questione sul sito di Mont’e Prama è una brace sempre pronta ad infiammarsi. La ragione risiede principalmente nell’incertezza dello status del patrimonio culturale nel nostro paese oltre che nelle esasperanti fazioni in cui si frammenta la società italiana e sarda, e non ci si riferisce soltanto al patrimonio archeologico ma anche, ad es., a quello archivistico, per toccare un tema che purtroppo non ha lo stesso risalto mediatico e politico di Mont’e Prama[7].
Parte dei social insorge, denunciando, ex multis: lo stallo nella prosecuzione degli scavi, interrotti da circa 2 anni; il silenzio[8] che si sarebbe nuovamente rimpossessato del “sito più importante della Sardegna” (rimando ad un link istituzionale per una sintetica storia del sito e degli scavi)[9]; l’autorizzazione all’impianto di un vigneto in un’area prospiciente gli scavi, episodio rimarcato dallo stesso docente[10]; l’incompetenza degli archeologi. Così, come di consueto sui temi che riguardano l’archeologia in Sardegna (ma, in verità, non solo in questo campo), ci si accapiglia malamente.
Su Facebook compare un commento del MIBACT che definisce il georadar una truffa[11], cui segue una nota di smentita da parte del medesimo Ente, che lo definisce un commento individuale da parte di una dipendente che, senza autorizzazione, ha speso il nome dell’istituzione[12]. Interviene il Ministro[13]. Interviene il Comune interessato[14]. Si parla di nuovo della collocazione ideale dei materiali rinvenuti nel sito (scissi tra Museo Archeologico Nazionale di Cagliari e Civico Museo Marongiu di Cabras)[15]. Il Presidente della Regione è accusato dall’opposizione di non aver ancora accreditato dei fondi stanziati dal governo regionale precedente per il Comune interessato[16].
Gli archeologi esprimono la loro[17], alcuni giornalisti e scrittori che da tempo denunciano quelle che ritengono essere una serie di gravi inadempienze da parte della P.A., in particolare da parte degli archeologi della Soprintendenza, ribattono e non di rado si arriva agli insulti. Addetti ai lavori, divulgatori, appassionati, esperti e sedicenti tali litigano tutti insieme. È bene precisare che gli avvenimenti ora richiamati sono soltanto la parte più recente di una complessa vicenda che richiederebbe un apposito ed approfondito saggio di diritto amministrativo e dei beni culturali[18].
I Sardi si dividono, come da copione millenario, in numerose correnti che si odiano tra loro, i famosi “cantoni” nuragici: storie di cantonate. Ma parliamo del sito più importante (o forse più mediatico) della Sardegna.

Il Sito di Mont’e Prama.
L’area archeologica di Mont’e Prama è sita nella Penisola del Sinis, territorio del Comune di Cabras (OR), costa centro-occidentale della Regione a Statuto Speciale della Sardegna, Italia. A seguito del rinvenimento fortuito di frammenti statuari nei primi anni ’70, vengono compiuti nel 1975, nel 1979 e nel biennio 2014-2016 e 2017-2018 vari interventi tra scavi archeologici sistematici, saggi e interventi di recupero.
Riassumendo in estrema sintesi e con un pizzico di semplificazione: si tratta di un’area funeraria di cultura nuragica, risalente ad un periodo compreso prevalentemente tra l’Età del Bronzo Finale (facies della ceramica c.d. grigio-cenere, sec. XII-X a.C., Pre o Protogeometrico) e la Prima Età del Ferro (facies della ceramica grigio-cenere, IX-metà/seconda metà dell’VIII sec. a.C., di tipo Geometrico ma con persistenze della tradizione ceramica precedente)[19]. Di recente, tali acquisizioni sono però state meglio precisate dalla dottrina archeologica.
Durante quest’ultima Età, il sito divenne oggetto di una monumentalizzazione, che – probabilmente ma si lascia il beneficio del dubbio – non dovette andare oltre il terminus della metà dell’VIII sec. (stante l’assenza di rinvenimenti ceramici ascrivibili alla facies dell’Orientalizzante Antico in tutta la Penisola del Sinis). Vennero innalzate un gruppo di statue antropomorfe in calcare, commercialmente ed affettuosamente conosciute come “i Giganti”[20], rappresentanti pugili, arcieri, guerrieri armati di spada e scudo (stilisticamente corrispondenti alla bronzistica figurata nuragica), accompagnate da c.d. modelli di nuraghe e betili, questi ultimi stilisticamente affini a quelli prospicienti le c.d. Tombe di Giganti, cioè sepolcri collettivi – forse familiari – databili a partire dall’Età del Bronzo Medio. Le sculture sono state rinvenute frammentarie, in una discarica punica formatasi intorno al IV sec. a.C. La datazione al carbonio dei resti umani contenuti nelle tombe conferma l’inquadramento cronologico sopra accennato, con due importanti eccezioni discusse dagli archeologici[21]. Strutture contermini alla necropoli sono state parzialmente indagate. Tralasciamo le frequentazioni del sito successive alla fase punica per non complicare il quadro.
Tra la metà e la fine del VII sec. a.C., dunque circa un secolo dopo il terminus proposto per la monumentalizzazione (attenzione, cento anni, in storia, non sono pochi) si registra la trasformazione dell’emporio commerciale e scalo portuale strategico di Tharros, alcuni km a Sud di Mont’e Prama (forse già in precedenza “gestito” da una compartecipazione di élites nuragiche e genti levantine, questi ultimi – prevalentemente imprenditori commerciali ed armatori – secondo dinamiche già ampiamente messe in luce dagli archeologi in alcuni contesti isolani di scavo) in una realtà urbana di cultura fenicia, consacrata dal suo pomerium. Le mutue relazioni tra Oriente (anche semitico) e Sardegna (con scambi culturali e commerciali da una parte all’altra del Mediterraneo) non si riducono all’Età del Ferro, e non è mai stata un mistero, ma necessita soltanto costanza di studi anche interdisciplinari, con umiltà e prudenza, senza pregiudizi di alcun tipo.
Il sito desta grande interesse da un punto di vista in primis archeologico (definizione delle facies, indagini stratigrafiche, metodologie etc.), antropologico, di storia dell’arte (comparazioni con la statuaria etrusca, italica centromeridionale, greca continentale etc.), di storia della Sardegna in generale e forse anche di storia giuridica della Sardegna pre-romana, stante il fatto che le numerose tombe a pozzetto individuale sembrerebbero attestare, per questa fase, l’emergere ed il consolidarsi di una aristocrazia locale, con sviluppi forse simili (ma mai analoghi) e comparabili con la fase monarchica della Roma del periodo Orientalizzante ed Arcaico dei re. Considerata l’assenza di fonti storiografiche scritte coeve, in particolare con riguardo all’assetto giuridico-amministrativo, molte considerazioni che possiamo fare sono deducibili, in via presuntiva, da un’analisi dei contesti insediativi e dei rinvenimenti di cultura materiale correttamente disposti nella loro sede cronologica.
Le precisazioni cronologiche sono vitali: se si fa indagine storiografica (archeologica, storica, storico-giuridica, archivistica etc.), e più in generale in qualunque disciplina scientifica che ambisca a questo riconoscimento, la cronologia al pari della matematica non può essere un’opinione. Può essere oggetto di correzione, ma mai di sottovalutazione. La complessità del sito richiede dunque prudenza estrema.
La sua collocazione – in quanto necropoli ai piedi di collina – e gli elementi distintivi non costituiscono affatto un unicum, rappresentando un tipico marcatore territoriale dell’Età del Bronzo Finale e della Prima Età del Ferro: a titolo meramente esemplificativo, si possono citare le necropoli anche monumentali dell’Età del Ferro in Italia (Etruria, Daunia, Sodacavalli, etc.), talune delle quali caratterizzate dall’innalzamento di stele, betili o menhir, e statue antropomorfe come segnacoli delle tombe sottostanti.
Ancora qualche appunto di archeologica e storia della Sardegna non guasterà. I nuraghi (sopra richiamati in rapporto ai modellini statuari rinvenuti) sono costruzioni megalitiche dell’Età del Bronzo Medio/Recente della Sardegna. Splendidi esempi di architettura, rappresentano senza dubbio un unicum nel Mediterraneo occidentale. Essi denotano non solo l’avanzatissimo livello di conoscenze ingegneristiche raggiunto dai Sardi ma sono sicuramente i testimoni di una complessa organizzazione sociale che, nel Sinis, raggiunse uno dei massimi livelli, con un’occupazione capillare del territorio in cui la collina di Mont’e Prama rappresentò per secoli soltanto un’appendice di uno sfaccettato sistema giuridico-amministrativo, forse già assai gerarchizzato, con un modello organizzativo teso ad “imbrigliare” il territorio per sfruttare al massimo le risorse (aree agricole, saline, bacini idrici ricchi di pesce, aree di legnatico, cave, approdi portuali naturali) come risulta evidente dal censimento e dagli studi (spesso pioneristici) compiuti negli anni ’80 e ’90 dagli archeologi Salvatore Sebis, Gianni Tore ed Alfonso Stiglitz, pubblicati in riviste scientifiche o volumi ben noti a chi svolge ricerca storica in maniera seria e completa.
Sappiamo che durante l’Età del Bronzo Finale non si costruiscono più nuraghi: il sistema sociale e giuridico precedente collassò per ragioni ancora da accertare pienamente. Il nuraghe (anzi, il sistema incentrato sui nuraghi) perse la sua funzione originaria, e talora divenne luogo di culto: la sua stessa rappresentazione divenne oggetto di culto ed idealizzazione nei gruppi scultorei dei modelli di nuraghe e dei betili del contesto di Mont’e Prama, in cui sembra evidente l’assimilazione della torre centrale dei nuraghi complessi al betilo. Ciò potrebbe essere rappresentativo di una ideologia religiosa sicuramente sconosciuta nella fase precedente, in un mix di simbologia solare di tradizione mediterranea occidentale con altra di ispirazione mediterranea orientale in sincretismo tra loro.
E, rispetto all’Età precedente (Bronzo Recente), la perdita della funzione giuridico-amministrativa del nuraghe corrispose ad una riduzione degli abitati per sinecismo, concentrandosi presso snodi viari naturali o in prossimità di siti strategici per la gestione del territorio nel nuovo assetto amministrativo. L’abitato o gli abitati di riferimento della necropoli ad oggi non li conosciamo ma potrebbero essere dislocati lungo gli assi viari naturali, considerato che non si può parlare, per questa fase, di contesti urbani, ma protourbani, taluni dei quali di notevoli dimensioni (Procaxius/Sa Pedrera, S’Archeddu de sa Canna).
Ogni metro quadrato del Sinis contiene una stratificazione verticale od orizzontale ascrivibile a tutte le fasi di antropizzazione della Penisola, dal Neolitico Medio (cultura di Bonuighinu, datazione calibrata[22] intorno al 4800-4300 a.C., la cui straordinaria necropoli di tombe a pozzetto, di orizzonte Neolitico Medio-Superiore, presso il sito di Cuccuru is Arrius, dalla quale proviene la famosa statuina femminile, ad oggi non fa quasi più notizia) sino all’età contemporanea.
Chi osserva attentamente le carte di distribuzione degli insediamenti si renderà conto che o si considera l’intera Penisola del Sinis come una “Pompei”, ed allora anche tutta la Sardegna con le migliaia di siti archeologici di varie epoche distribuiti in tutta l’Isola, oppure si deve smettere di utilizzare impropriamente termini tipici del sensazionalismo mediatico e non della scienza.
Sono attualmente oggetto di dibattito, non solo tra gli archeologi, la cronologia della necropoli di Mont’e Prama e la possibilità di una sovrapposizione cronologica tra l’ultima fase di Mont’e Prama e la prima fase delle inumazioni fenicie a Tharros; la spiegazione del perché la civiltà nuragica nel Sinis (sottolineo, nel Sinis) abbia perso progressivamente i suoi caratteri distintivi; la spiegazione del perché si siano rinvenuti (durante scavi ottocenteschi) bronzi nuragici in contesti funerari fenicio-punici di Tharros (presso o in prossimità dell’ingresso di sepolture fenicio-puniche); la questione del rapporto tra nuragici e fenici/levantini nel Sinis; la questione del DNA dei Sardi nell’ottica dei suddetti punti.

Identità culturale, trasformazioni sociali e rivendicazioni politiche: storia e pseudo-storia.
La questione sembra assumere i toni aspri e velenosi di un dibattito politico ed identitario, talora negazionista della Storia, talora poco consapevole (per non dire a scapito) non soltanto della metodologia archeologica, ma anche del metodo scientifico in generale. Mont’e Prama si erge al centro di una questione identitaria e politica. Taluni lamentano il mancato riconoscimento della propria storia, lamentano un’identità negata.
La Storia è utile per interpretare il presente, ma non è corretto farne un’interpretazione politica per cambiare uno o più fatti riguardanti ad es. la società, la lingua, la scrittura, ed altri aspetti di una complessa e variegata civiltà come quella sarda.
C’è tanta voglia di rivalsa nazionalistica in Sardegna, perché si percepiscono le ingiustizie patite nel corso dei millenni, ma questa Storia dovrebbe insegnare ai Sardi anche quali sono state le cause del colonialismo, ed individuare correttamente le soluzioni per i problemi attuali. Se contravveniamo a questa regola, o non stiamo facendo Storia (e allora va benissimo una chiacchierata informale e divertente) oppure stiamo giocando ad un gioco virtuale di strategia in cui possiamo prenderci la libertà di far scontrare Babilonesi contro Vichinghi.
Bisogna distinguere necessariamente la narrazione scientifica dalla narrazione di fantasia perché, rispetto alla prima, quest’ultima non è basata su un metodo rigoroso su cui si fondano le teorie da dimostrare ricavate da un procedimento che unisce le acquisizioni della logica greca (e poi greco-romana) a quelle del metodo scientifico formulato nel Seicento. Il pregiudizio, poi, è sempre sbagliato: non si può pretendere a tutti i costi che la propria teoria o idea prevalga sulla realtà di fatto, se il contesto e gli indizi dicono il contrario, né si possono fabbricare “prove” se la realtà non corrisponde al proprio desiderio.
Conviene da subito citare a questo proposito, introducendo la questione identitaria, uno storico medievale, Régis Boyer, e le sue belle considerazioni apparse su una monografia di carattere divulgativo “La vita quotidiana dei Vichinghi (800-1050), in cui l’autore demolisce alcuni luoghi comuni e spiega al lettore medio le ragioni della trasformazione dei Vichinghi:
il vichingo cessa di essere tale nel momento in cui accetta il battesimo. In ogni caso, l’osservatore non può che restare stupefatto per la facilità e soprattutto la rapidità con la quale i vichinghi seppero adattarsi alle nuove condizioni. Nel corso di due o tre generazioni non erano più scandinavi, ma, ad esempio, normanni di Normandia o russi[23]
La biologia e l’antropologia danno conto anzitutto della costante trasformazione dell’essere umano, e questo è uno dei punti cruciali da comprendere.
In tema di trasformazioni, ad esempio, taluni dei nostri nonni hanno continuato a vestire in costume tradizionale sardo sino agli anni ’60, dismesso il quale non può dirsi che sia venuta totalmente meno la loro identità. Sicuramente, una parte importante si è affievolita in conseguenza delle trasformazioni sociali vissute. Possiamo dibattere anche aspramente sul motivo che ha portato i nostri anziani a dismettere il costume e, in numerosi paesi della Sardegna, ad abbandonare la lingua.
Esemplificative di questo clima confuso e convulso, in cui la storia viene trasformata mediante il ricorso improvvisato o strumentalizzato ad altre discipline, sono ad es. le rivendicazioni pseudostoriche – ma in verità politiche – che assumono la forma di una tesi secondo cui si sostiene che sia il latino a derivare dal sardo. Il linguista riderà davanti a tesi simili, scarsamente fondate e sostenibili, ma il fatto che simili procedimenti “logici” non siano isolati è significativo di un atteggiamento che sta dilagando: il revisionismo e la reinterpretazione storica per fini politici volta a creare, a tutti i costi, una nuova storia, anzi una narrazione quasi letteraria, talora con fini politici talaltra con fini autocelebrativi insiti nel sensazionalismo. Una fanta-storia che viaggia insieme alla fanta-archeologia o con una fantasiosa esegesi documentale. Una narrazione che ricorre a termini propri del sensazionalismo per dotarsi di tono ma anche clamore mediatico.
Questo procedimento è controproducente per la causa sarda, che va perseguita in primo luogo a livello di cambiamento di certi aspetti errati ed atavici della società sarda stessa.
Le trasformazioni culturali, il quadro di instabilità politica, la mancanza di riforme strutturali e, soprattutto, inutile negarlo, la mala gestione della res publica tanto a livello nazionale che locale hanno contribuito ad inasprire la questione identitaria (e l’insicurezza economica) dei Sardi, portando ora gli stessi a cercare un rifugio e a (ri)scoprire le proprie origini (giustamente), valorizzare o concorrere a valorizzarle con attività divulgativa (libertà garantita dalla Costituzione repubblicana seppur con alcuni limiti di opportunità che si diranno a breve). In campo divulgativo, sono apprezzabili ed interessanti anche per l’archeologia ufficiale gli studi archeo-sperimentali di vari studiosi indipendenti o appassionati che tendono a sensibilizzare e far avvicinare gli individui alla propria storia e alle proprie radici.

Questa riscoperta e consapevolezza delle proprie origini, tra le varie tematiche affrontate nel film “L’uomo che comprò la luna” del regista Paolo Zucca, come reazione alla presa di distanza dalla propria cultura insita talora nel comportamento dei Sardi, non è affatto un male, a patto che sia diretta alla ricerca di una verità storica non sfalsata da sensazionalismi o revisioni politiche del momento.
Ma i Sardi che si interrogano sul perché l’isola stia andando incontro ad un inesorabile spopolamento a fronte di risorse potenzialmente sfruttabili, tendono talora a sovrapporre storia e fanta-storia (col rischio di una pericolosa ed irreversibile confusione), ed al contempo vanno costruendo la megalopoli del veleno, una città di rancori sociali che riemerge dal fango degli insulti sotto i quali sta scomparendo la solidarietà tra Sardi, ammesso che sia mai esistita dalle origini.
In maniera analoga ai Vichinghi, come rileva Régis Boyer, che sfata l’immagine stereotipata del vichingo distruttore, privo di intelligenza e dedito soltanto a massacri, bisogna sfatare il mito dell’isolamento dei Sardi, che viene citato a volte a sproposito oppure negato quando si tratta di analizzare, ovviamente da un punto di vista politico, contesti come quello di Mont’e Prama. Perché, se storiografia, archeologia e società nei Paesi Scandinavi ammettono che i propri avi, i vichinghi, si sono trasformati in altri popoli una volta mutati certi aspetti della loro cultura a contatto con altre popolazioni, non si può fare altrettanto in Sardegna, dove esempi di interazione ed adattamento sono presenti da epoche assai remote della storia europea?
Ed in verità, lo scarso interesse dei libri di storia per culture importanti e cruciali per la storia del Mediterraneo e dell’Europa non colpisce purtroppo soltanto la cultura nuragica e, perché dimenticarla, quella prenuragica. Una riscrittura della storia deve seguire i parametri oggettivi del metodo scientifico che permettano di distinguere narrazione storica accurata (comprensiva anche delle diverse teorie su uno stesso punto, se scientificamente argomentate) da una narrazione fantastica o dal romanzo storico.
I Sardi partecipano di elementi di persistenza tipici dell’essere isolani (tradizioni ancestrali, rispetto di antiche norme e consuetudini, talora resistenza all’innovazione) come pure possiedono una capacità sorprendente di adattamento, trasformazione e di attitudine al raggiungimento di una eccellenza in vari ambiti e che li ha resi famosi nel mondo.
Qualcuno talora parla della capacità di adeguamento dei Sardi nel quadro dei rapporti culturali e commerciali del Mediterraneo antico, ma a volte nega questa capacità quando si tratta di valutare l’apporto culturale levantino o berbero. Ci intriga il vichingo che si adatta culturalmente e linguisticamente alla mutata realtà geografica e storica nella quale si trova a vivere, magari pur perdendo rilevanti parti della propria originaria cultura, mentre il Sardo, lo stesso Sardo che commercia con il Mediterraneo Occidentale ed Orientale, innegabilmente dovette acquisire elementi allogeni che, alla fine, portarono ad una sua progressiva trasformazione.
Gli avvenimenti storici portano il Sardo medio contemporaneo a modificare moltissimi aspetti della propria cultura per sopravvivere ai cambiamenti, senza modificare l’essenza della propria identità.
Costituisce un’operazione storica scorretta rinnegare la cultura sarda del periodo fenicio, punico (con apporti genetici e culturali berberi, iberici ed altri), romano, romano-cristiano (e dunque, ancora il Nord-Africa, Libia, Egitto, Bisanzio etc.), in quanto rileviamo una dominazione straniera, per poi riaffermare la sardità durante il periodo dei Giudicati. La dominazione romana nelle province non portò mai alla soppressione del diritto e delle identità provinciali. Un inumato del periodo romano acquisisce elementi di cultura latina ma è un Sardo del periodo romano, è un Sardo dunque che merita di essere studiato perché spesso mantiene elementi culturali fondamentali per comprendere le civiltà precedenti, stesse considerazioni valgono per la fase fenicia e punica.
I Giudicati, e tutte le nostre ancestrali tradizioni, sono il prodotto di una lunga stratificazione in una società sarda non omogenea, e sono elementi della specificità dei Sardi. Dobbiamo tenere presente questo se intendiamo criticare la realtà multiculturale antica e al contempo affermare la bellezza della diversità di canti, riti, costumi e tradizioni popolari isolane, perché sono il primo conseguenza dell’altro.

È analoga la questione dell’utilizzo dei recenti studi genetici per rilanciare ora un’ipotesi ora un’altra, che merita qualche precisazione per chiudere l’argomento sulla crisi di identità.
La complessità del DNA di ciascuno di noi, la nostra ancestry di Sardi, indica una stratificazione genetica che ha avuto inizio (almeno) nel Paleolitico Superiore, presumibilmente con gruppi di cacciatori-raccoglitori (la cui provenienza è assai dibattuta), sebbene l’impronta caratterizzante il genoma sardo sembra sia ascrivibile al Neolitico Recente, cioè con la cultura di Ozieri ed in conseguenza di un probabile boom demografico collegato al consolidarsi dell’agricoltura. Gli studi genetici indicano una importante componente anatolica nei Sardi. Questo combacia con l’opinione di quegli studiosi che vedono nel Neolitico europeo e sardo un fenomeno socioculturale collegato ad una migrazione di agricoltori provenienti dall’Asia Minore. Infatti, in Asia Minore, durante il Neolitico, si sarebbe originato l’aplogruppo H, diffusosi poi in tutta Europa e Sardegna proprio a partire dall’Anatolia[24].
Tanto ci sarebbe da dire sulle relazioni genetiche con gli Iberi, con i Baschi, con gli Irlandesi del periodo Neolitico, poiché i recenti studi mostrano le relazioni genetiche tra questi popoli e i Sardi. Possiamo ricordare che, nell’Irlanda pre-celtica, il DNA di un individuo sepolto in una necropoli del neolitico irlandese mostra interessanti affinità genetiche con Sardi e Iberi antichi.
Impossibile soffermarsi pure sugli aplogruppi specifici sardi (SSH), ed impossibile illustrare anche per sommi capi l’avvincente storia (genetica e non) degli antichi Iberi, gruppo umano del paleolitico europeo. Alcuni studi hanno messo in luce una componente delle Steppe, per alcuni riconducibile ad un’espansione di gruppi umani asiatici durante l’Età del Bronzo, ma altri studi hanno ulteriormente suggerito il collegamento tra cultura del Vaso campaniforme e gruppi umani siberiani o dell’estremo Oriente[25].
Siamo dunque sicuramente eredi di una civiltà plurimillenaria, importante ed assai variegata, nella misura in cui accettiamo la stratificazione culturale e genetica della nostra storia, accettando finalmente di essere Sardi nella misura che la storia ha testimoniato, e provando a correggere i difetti atavici che tanto piacciono a chi loda la divisione tribale esasperata per poi esaltare la storia sarda. Unità e solidarietà non significano annientamento della differenza. Ricordo infatti, se proprio vogliamo fare dietrologie e storie coi “se” e coi “ma”, che questo atteggiamento è la causa degli insuccessi militari che hanno portato gli eserciti stranieri ad invadere l’isola con successo.
Mont’e Prama è fondamentale per la comprensione della civiltà nuragica del Bronzo Finale/Primo Ferro ma non può diventare, neppure per legittimi fini identitari ed economici, il sito con priorità assoluta rispetto a migliaia di altri ascrivibili a epoche assai distanti tra loro, a pena di condannare insediamenti neolitici, domus de janas, dolmen, chiese paleocristiane, necropoli puniche, città punico-romane, nuraghi semplici e complessi che sono tutti insieme parte della nostra storia. Talora in Italia, scavi bloccati, siti non ancora scavati o non valorizzati non dipendono sempre da comportamenti ritenuti come dolosi della P.A. ma dalla limitatezza dei fondi stanziati o da procedure amministrative complesse a garanzia di tutti gli interessi, pubblici, privati e diffusi, coinvolti nel procedimento.

Libertà di ricerca scientifica: i criteri caratterizzanti l’attività scientifica ed il dialogo interdisciplinare.
Tutto quanto detto sin qui deve ora essere considerato alla luce del diritto costituzionale, in particolare dell’art. 33 Cost.
Ricordiamo innanzitutto che l’art. 9 Cost. sancisce che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica.

L’art. 21 Cost. riconosce e garantisce la libertà di manifestazione del pensiero, attraverso la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo con i limiti stabiliti dalla costituzione e dal diritto penale. Tale diritto si articola nella possibilità riconosciuta agli individui di esprimersi liberamente, di utilizzare ogni mezzo tecnico per diffondere il proprio pensiero, di informarsi ed essere informati, di riportare fedelmente le posizioni altrui o chiederne preventivamente l’autorizzazione alla pubblicazione. Nei limiti costituzionali, che ricostruiamo in via interpretativa, e di cui le leggi penali sono espressione, ritroviamo l’onorabilità, l’identità, l’intimità e la riservatezza, la sicurezza della Nazione, il buon costume.
Secondo l’art. 33 Cost., l’arte e la scienza sono libere e ne sono liberi l’insegnamento. Il principio di libertà di arti e scienze consacrato nella Carta costituzionale, che possiamo anche leggere in relazione all’art. 21 Cost. (ma al primo si riconoscono ulteriori profili di specificità giuridica rispetto al secondo), è il prodotto di una reazione a forme di autoritarismo e censura che, specie a partire dall’Inquisizione, hanno portato alla messa all’indice di opere scientifiche e/o d’arte reputate eretiche o immorali, per arrivare alla rimozione dal posto di lavoro, sotto il fascismo, di insegnanti reputati dissidenti rispetto al credo di regime.
Quindi, è sacrosanto il diritto di svolgere attività di studi e ricerca indipendenti, è sacrosanto il diritto di esprimere il proprio pensiero (scientifico e non) e di divulgarlo nei limiti stabiliti dalla Costituzione e dalle leggi penali. È del pari sacrosanto il diritto di ritenere un’opinione altrui, scientifica o non scientifica che sia, come condivisibile o meno, e la Carta costituzionale dà diritto di dissentire da un partito o da uno scienziato, senza che siano stabiliti strumenti coercitivi per reprimere il dissenso, sempre se espresso in maniera compatibile con la Costituzione e il diritto penale. L’art. 33 Cost. consacra anche il diritto di informarsi scientificamente.
Però, è anche vero che occorre operare una distinzione ermeneutica (cioè, interpretativa) tra i due articoli della Costituzione: pensiero e scienza sono strettamente collegati, ma la nozione di scienza stabilisce un qualcosa di diverso e specifico: si tratta di una attività volta alla scoperta di una determinata verità scientifica o ipotesi (natura e cronologia di un sito archeologico; analisi di un campione di sentenze di una certa Corte volto a valutare lo status o la natura giuridica di un determinato istituto giuridico; analisi di un fondo archivistico volto a valutare certi avvenimenti, documenti o dati bibliografici di una certa persona in un certo luogo etc.), e questa verità scientifica o ipotesi viene comunicata dopo che è stata preventivamente accertata con un procedimento logico-scientifico che tiene conto di leggi in parte specifiche di una certa disciplina (es. geologia, diritto, archeologia, paleografia, chimica, fisica) in parte comuni a tutte le discipline (premessa, obiettivi di ricerca e domande di ricerca, metodologia, affidabilità dell’oggetto di analisi, analisi e descrizione della realtà, enucleazione di ipotesi interpretative).
La libertà di scienza consacrata dalla carta costituzionale dunque respinge una imposizione che vada ad incidere sugli elementi sopra descritti come comuni a tutte le scienze, magari con il fine di imporre una certa visione del mondo[26].
Questo non significa che non si debba rispettare il principio delle competenze maturate durante un corso di studi e una specializzazione: laurea, dottorato, esperienza lavorativa, pubblicazioni scientifiche in un determinato ambito sono un indice di affidabilità e garanzia dello scienziato che comunica il proprio pensiero (sempre che utilizzi il metodo comune sopra descritto). Nessuno può essere esentato dal rispetto del metodo scientifico, se intende fare scienza. Ed è sicuramente compatibile con quanto detto, l’interdisciplinarietà negli studi, che talora viene vista come una minaccia ed invasione di campi altrui ma che, se ben attuata, costituisce un arricchimento non soltanto individuale per un certo scienziato ma anche un valore aggiunto per la comprensione di un determinato campo a patto che lo studioso intraprenda un serio ed onesto processo di apprendimento funzionale alla scientificità del suo lavoro.
Il dialogo fisiologico tra discipline non deve essere confuso con l’appropriazione improvvisata. Un ragionamento impostato su un rigido metodo scientifico nel senso sopra descritto (affidabilità delle fonti, materiale probatorio) è un primo e importante passo per il riconoscimento della scientificità del ragionamento stesso.

Ed è proprio il problema dell’interpretazione del contenuto del diritto di cui all’art. 33 Cost. che, se inteso in chiave estesa o espansiva, rischia di incrinare il rapporto tra libertà di ricerca scientifica e verità scientifica che deve fondare un settore scientifico, e questo confine è dato in primisa) dal principio di competenza acquisita mediante i propri studi scientifici (stando attenti all’ulteriore principio di univocità negli studi, che potrebbe risultare un bavaglio arbitrario anche all’interno di un medesimo settore se si porta alle estreme conseguenze il principio di ultra-settorializzazione delle competenze); ma, in via dirimente, soprattutto b) dal rispetto del metodo scientifico nella dimostrazione di una determinata tesi.
È infatti necessario, da un lato, limitare l’eccesso di interpretazione espansiva dell’art. 33 Cost. in modo che resti ben distinta la differenza tra ciò che scienza è rispetto a ciò che scienza non è (scienza e pseudo-scienza debbono essere tenute distinte), senza cadere in una totale limitazione della libertà di ricerca che possa imbavagliare teorie innovative perché magari scomode (anche da un punto di vista politico) per la comunità scientifica globale (ricordiamo il processo a Galileo), la quale non deve assurgere o farci cadere nella tentazione di considerarla un comitato scientifico con potere di giurisdizione indiscutibile e unico detentore della verità scientifica.
Allora, l’elemento dirimente non potrà che essere, in primo luogo, l’applicazione rigida del metodo scientifico, tenendo fermo il principio di competenza degli studi compiuti nonché quello di coerenza degli stessi, da intendersi in maniera temperata, aperta cioè all’interdisciplinarietà e alla possibilità di crescita professionale dello scienziato che aspiri ad incrementare la propria preparazione nella sua attività di ricerca.
E la pubblicazione dei risultati della propria ricerca è un diritto, ma anche un dovere.
Tale ragionamento non va dunque confuso con le eventuali disfunzioni a livello individuale o amministrativo che possono accadere e che i cittadini o gli altri soggetti legittimati dall’ordinamento sono tenuti a denunciare in quanto portatori di diritti soggettivi o interessi legittimi alla legalità e correttezza dell’azione amministrativa dei Comuni, delle Regioni, delle Soprintendenze.
Questi aspetti non rientrano nel campo di applicazione dell’art. 33 Cost. quanto in quello delle norme sulla P.A. sancite dalla Costituzione e dalle principali leggi ordinarie ed amministrative: tali problematiche non consentono agli individui, spesso scarsamente informati, di procedere al linciaggio, attuato tramite social, della generalità degli scienziati additati in maniera sommaria come oppressori e conniventi di un sistema improntato all’occultamento di una verità ritenuta scomoda. La creazione di una categoria contro la quale scagliarsi ben ricorderebbe tristi vicende proprie dei regimi totalitari. Sempre nell’ottica del diritto va letta la questione del vigneto, prima di procedere a sommari giudizi. L’apposizione di un vincolo deve rispondere ai principi dell’azione amministrativa e alla normativa in materia, questo perché ci sono voluti secoli prima che si passasse dalla concezione dell’onnipotenza della pubblica amministrazione alla nascita della giurisdizione amministrativa, alla creazione della categoria degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi nel processo amministrativo, alla enucleazione dei principi di efficienza, imparzialità e cooperazione con il privato in modo che si muovesse dalla concezione del cittadino-suddito al cittadino-parte attiva nei procedimenti amministrativi che lo riguardano, come quello di esproprio ad esempio. È in base a tutti questi principi, posti a garanzia del singolo, che si contempera il difficile rapporto tra interessi pubblici e privati. La certezza di ciò che giace sottoterra viene raggiunta soltanto con lo scavo archeologico.
In conclusione, un divertente commento apparso nei giorni scorsi sui social ci mette in guardia dai pericoli dei giudizi sommari. Mont’e Prama di Cabras testimonia numerose Età, successive a quelle del Bronzo e del Ferro: Età della Plastica, Età dell’Odio Avanzato, facies del bronzo contemporaneo, suddivise territorialmente in cantoni e cantonati.

Diego Serra is an historian and legal comparatist, LL.B. in History of Law, LL.M. in Constitutional law, Ph.D. in Comparative Law of the University of Genoa, former tutor of Roman Law and History of Law and former student of the School of Archivists, collaborator as a volunteer of Dr. Sebis, Honorary Inspector for the Archaeological Superintendence of the Province of Oristano (OR, Italy).

NOTE:
6.      In R. Skeates, R.D. Whitehouse (a cura di), Accordia Specialist Studies onItaly Prehistory 3, Archaeological Monographs of the Brithish School at Rome, Ac-cordia Research Institute: 115-145. London. 
7.      A ciò si connette la situazione delle Università pubbliche, del finanziamento e qualità della ricerca in Italia e del sistema complessivo che dovrebbe collegare l’Università al mondo del lavoro. Il quadro è patologico, drammatico e doloroso per i Sardi dai 18 ai 35 anni. 
9.      https://monteprama.it/. Vedi anche la nota 14 di questo articolo. 
16.  Vedi, La Nuova Sardegna, 26 Settembre 2019, pag. 3. 
17.  Ibidem, nella stessa pagina, l’intervento dell’archeologo Giovanni Ugas. 
18.  Il sito è stato oggetto di interrogazioni parlamentari da parte dell’On. Pili (allegato 2 al seguente documento): http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/bollettini/html/2017/01/26/07/allegato.htm?fbclid=IwAR2oxnlBMBF2CW1fogw8UNLf8FCmHmeiThnauT1fWDMLWLgk7Lq-FiUr-aM#
19.  Impossibile citare in questa sede tutte le fonti: onde evitare l’esclusione di alcune opere, essendo tutte fondamentali e nessuna esclusa per la successione cronologica in rapporto alla cultura materiale, si rimanda il lettore a tutti i lavori sul nuragico in Sardegna di Salvatore Sebis, Alfonso Stiglitz e Alessandro Usai per le facies nuragiche nella Provincia di Oristano. Per una immediata consultazione della cronologia: https://monteprama.it/eroi-o-giganti/il-sinis-degli-eroi/contesto-storico/ 
20.  La questione circa la correttezza scientifica del nome “popolare” e “commerciale” è stata oggetto di aspre polemiche, stante la decisione di modificarne la nomenclatura da “Giganti” a “Eroi”: http://www.sardegna.beniculturali.it/it/449/noi-siamo-eroi?fbclid=IwAR2aSmr_yJ2uyjW8cKc802Av48U3-fLTXorZQLuOm6jz7PePgs9rSUOwB8A 
22.  Si vedano, per le datazioni e la descrizione della faciesex multis: R. Tykot, sopra citato, nonché C. Lugliè La ceramica di facies S. Ciriaco nel Neolitico superiore della Sardegna: evoluzione interna e apporti extrainsulari, in Le comunità della preistoria italiana. Studi e ricerche sul Neolitico e le Età dei metalli. Atti della XXXV Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria in memoria di Luigi Bernabò Brea (Lipari, 2-7 giugno 2000), Firenze, I.I.P.P., pp. 723-733; C. Lugliè, Paglietti G., La piccola statuaria femminile della Sardegna neolitica. Proposta di una seriazione evolutiva attraverso l’applicazione di metodi stilistici e dimensionali, in Tanda G. e Lugliè C., a cura di, Il Segno e l’Idea. Arte preistorica in Sardegna, Cagliari, CUEC, 2008, pp. 11-52. 
23.  BUR Rizzoli, Milano, 1994, p. 26. 
24.  Si rimanda al seguente lavoro collettaneo per tutte le considerazioni sulla genetica qui svolte: https://www.cell.com/ajhg/fulltext/S0002-9297(19)30111-9?fbclid=IwAR3QGd_O-zOS1nkTUyiZvfTZ6vIHQshTc3nv9FPrLhjR-av74Mmg5uHUj4w#secsectitle0040 
25.  Non è chiara l’attribuzione cronologica della componente iraniana, poiché per alcuni potrebbe essere il risultato delle suddette migrazioni neolitiche di agricoltori mediorientali, per altri un fenomeno riconducibile ai suddetti popoli delle Steppe tra calcolitico ed età del Bronzo, per altri ancora un’acquisizione genetica recente collegata in un recente studio (che non fornisce però una adeguata spiegazione) alla presenza dei Fenici in Sardegna. La questione dei Fenici, forse geneticamente ne introduce un’altra: la questione dei Berberi o Amazigh, chiamati da Cicerone Libici (“i Sardi discendono da un ramo dei Libi”). Chi erano? Essenzialmente, li conosciamo come i mercenari di Cartagine, come un popolo che ebbe reciproche relazioni ed influenze con i vicini Cartaginesi, da questi indipendenti sia culturalmente sia (in seguito, nel corso della storia) militarmente. Ogni Sardo troverà questa componente berbera, indicata con l’etichetta North-Africa, e che tutti i test datano ad un arco cronologico compreso tra i 2400 e i 2000 anni fa. Conosciuti come Lybi dai Greci, gruppo umano di pelle chiara per distinguerli dagli Etiopi, gruppo umano di pelle scura, i Berberi furono una popolazione guerriera che si incontrò e scontrò l’Egitto dei Faraoni, dando persino una dinastia di Faraoni berberi. Popolazione parlante una lingua semitica, essi vennero poi in contatto con Cartagine e con la Sardegna durante la rivolta dei mercenari. 
26.  Riepilogativa, per chiunque, da non giurista, fosse interessato ad approfondire l’argomento, è la breve analisi di Nocilla: http://www.bibliotecaprovinciale.foggia.it/capitanata/2005/2005pdf/2005_17_181-189_Nocilla.pdf


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