domenica 20 ottobre 2019

Giovani sardi in fuga col sogno del lavoro, in un anno via 3.500 - Piera Serusi



È un'emorragia continua, un movimento inarrestabile e il peggio è che, al momento, non si vede rimedio. Sono 3.500 i sardi che lasciano l'Isola per andare a lavorare all'estero, senza contare i 10mila che fanno le valigie per prendere la residenza nella penisola. Una fuga ripresa regolarmente all'inizio del Duemila (oltre un migliaio all'anno), con un'impennata evidente (2.593) nel 2013 e poi la perdita fissa, costante con oltre 3mila residenti espatriati prevalentemente in Germania, Regno Unito e Spagna. Si tratta perlopiù di giovani laureati della fascia tra i 25 e i 34 anni, nonché i ragazzi di 18-24 anni. Ma fanno le valigie anche i quarantenni e i cinquantenni, tanti dei quali partono con la famiglia. A conti fatti, secondo i dati DemoIstat, dal 1995 a oggi gli emigrati sardi all'estero sono 40.500, con oltre 27mila giovani (18-35 anni) trasferiti definitivamente.

Ieri e oggi
«Noi non dovremmo farne un problema di quelli che partono, perché la mobilità delle persone, e soprattutto dei giovani, oggi è un fatto normale. Il problema vero - avvisa Sabrina Perra, sociologa dell'Università di Cagliari - è legato a quanti non tornano e, soprattutto, a coloro che non arrivano. I giovani partono anche dalle regioni più ricche, dall'Emilia Romagna come dalla Lombardia, ma non è un'emergenza perché appunto c'è una mobilità continua. In Sardegna non è così: qui non ci vuole venire nessuno». L'Isola non offre opportunità. «Non è attrattiva né per i lavoratori con bassi profili professionali né per i profili più alti e specializzati». Rispetto all'emigrazione della seconda metà del Novecento, spiega la sociologa, la situazione è persino peggiorata. «Allora si trattava davvero di perdita di manodopera perché c'era un piano di Rinascita: poi, investimenti giusti o sbagliati che fossero è un altro discorso, c'era almeno una programmazione rispetto ai destini dell'Isola. Oggi è tutto diverso. Non c'è un'idea di Sardegna, non c'è una visione: è questo che sconforta le persone». E resta il problema di fondo: in una regione che non offre opportunità perdiamo i giovani, la leva della crescita, dello sviluppo, del futuro di ogni paese. «Posto che la mobilità delle persone non la si può controllare, è possibile invece intervenire sulle cause della fuga - avverte Sabrina Perra - da un lato puntando su istruzione e formazione professionale, dall'altro sulle condizioni necessarie per la qualità della vita, dalle infrastrutture come le strade ai trasporti interni, ai collegamenti aerei. Sono processi che vanno governati a partire da una domanda: perché la Sardegna non è attrattiva né per le imprese né per le persone?».

Tessuto economico fragile
Anche Emanuela Marroccu, direttrice del Crenos (Centro ricerche economiche Nord Sud), dice che «il problema non è che i giovani vanno via, fenomeno normale tanto più quando hanno un solido bagaglio culturale e un'alta specializzazione. La nota dolente è la fragilità del tessuto economico dell'Isola che non ha capacità di attrazione». Nel piccolo, dice, «è stata un'esperienza molto positiva il cantiere di Luna Rossa dove oltretutto è stato coinvolto il Crs4». Altissima tecnologia, «un settore sul quale occorre puntare».

Il ponte con la comunità
L'altra faccia dell'emigrazione è la comunità svuotata, parte del processo di spopolamento che in Sardegna riguarda le aree interne. Francesco Bachis, ricercatore di antropologia culturale dell'Università di Cagliari, dice che «lo spopolamento non va letto come un fenomeno semplicemente idraulico perché oggi, tra chi ad esempio lavora fuori e ritorna a casa nel fine settimana, o chi ha una seconda casa e magari ne fa un b&b, ci sono modi diversi di vivere in paese». Anche chi è andato all'estero, sottolinea, «mantiene i legami con la comunità, soprattutto attraverso la rete, e partecipa alla vita sociale. Ciò non significa che non esistono i problemi legati a spopolamento ed emigrazione, perché all'effettiva residenza sono legati processi economici, sociali e comunitari, ma senz'altro, questo modo di vivere "fra più luoghi" contribuisce a far "restare paese" alcune comunità che da un punto di vista demografico sarebbero spacciate da tempo».


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