[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Manuella Libardi pubblicato
su openDemocracy]
Genocidio. È questa la parola
che circola sui social network per descrivere l’aumento
della violenza da
parte della polizia in Brasile. Il termine è stato usato soprattutto
qualche settimana fa, quando il Paese ha cercato di esprimere la propria
incredulità di fronte all’omicidio di Agata
Felix, la bambina di otto anni colpita lo scorso 20 settembre da un
proiettile alla schiena mentre rientrava a casa nella povera comunità di Rio de Janeiro.
“Genocidio. Ecco cosa sta avvenendo in
Brasile con questo Governo. Il peggiore! Con il sostegno del Governo americano!
Non solo le persone vengono uccise. Si stanno distruggendo interi ecosistemi.
Non resterà nulla… soltanto odio e miseria” , ha commentato un
utente di Instagram sotto un post pubblicato da The Economist.
Appena sotto, in un altro commento si
legge: “È un genocidio”.
È davvero quello che si sta compiendo in
Brasile? La parola genocidio è stata coniata verso la metà del Novecento
dall’avvocato ebreo polacco Raphael
Lemkin con lo scopo di descrivere
l’eliminazione degli ebrei durante l’Olocausto. Successivamente,
nel 1948 le Nazioni Unite hanno classificato il genocidio come un reato
punibile secondo quanto stabilito nella Convenzione
per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.
Perché un
crimine possa essere definito genocidio, deve
rispecchiare una serie di parametri fissati dalle Nazioni Unite. Secondo questa
rigida e specifica definizione, per genocidio s’intende ciascuno dei seguenti
atti: uccidere i membri di un gruppo
etnico, religioso, nazionale o razziale; causare lesioni fisiche e/o
mentali ai membri del gruppo; sottoporre intenzionalmente al gruppo condizioni
di vita finalizzate a provocare la sua distruzione fisica; imporre misure volte
a impedire le nascite all’interno del gruppo e provvedere al trasferimento forzato dei bambini
da un gruppo a un altro.
Nonostante a livello giudiziario sia
complesso dimostrare l’intenzione o la premeditazione, si può comunque
affermare che la licenza di uccidere concessa
alle forze armate e di polizia brasiliane risponda a quasi tutti, se non tutti,
i criteri menzionati sopra.
Se si considerano i classici casi di
genocidio come l’Olocausto, il genocidio in Armenia e in Ruanda, ci si rende
conto che sono tutti caratterizzati da determinati eventi verificatesi in un
dato periodo. In tal senso, la realtà brasiliana si differenzia dagli altri
casi.
La morte
sistematica delle popolazioni nere non è un fenomeno che stiamo
vivendo ora, piuttosto una realtà costante
nel tempo, che esiste da quando nel 1539 i primi africani sono approdati
sulle coste indigene di Pernambuco.
A quel tempo, l’aspettativa di vita
delle popolazioni africane era di pochi anni, si moriva esausti e si veniva poi
sostituiti da altri uomini in condizioni migliori, appena portati dall’Africa.
Dopo secoli di continue violenze, la condizione di schiavitù è culminata in una
serie di tentativi di eliminare la
“razza nera”. Un esempio è stato lo sviluppo delle teorie di sbiancamento della popolazione
locale che si sono affermate verso la metà dell’Ottocento e ancor
prima dell’introduzione del divieto della schiavitù in Brasile.
Non c’è da stupirsi, dunque, se tra i
molti intellettuali brasiliani che hanno difeso le teorie di sbiancamento
razziale, uno dei più noti era proprio un antropologo e medico di Rio de Janeiro.
Nel 1911, João Baptista de Lacerda ha partecipato al primo Congresso Universale delle Razze tenutosi
a Londra, contribuendo con la presentazione dell’articolo Sur les métis
au Brésil. In questo documento, De Lacerda difendeva il concetto di mescolanza etnica come
un modo per far prevalere i tratti
europei sulle popolazioni
africane e indigene.
All’indomani della Seconda guerra
mondiale, le teorie dello sbiancamento razziale hanno
perso il consenso accademico e istituzionale, soprattutto grazie agli sforzi compiuti da
organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite. Così, dato che i
discendenti africani costituiscono ancora oggi più del 50% della popolazione
brasiliana, è chiaro che la mescolanza etnica non è riuscita a raggiungere
l’obiettivo di sbiancamento prefissato.
Da allora, quindi, il progetto di
eliminazione della razza ha preso una strada diversa da quella indicata dalla
teoria dello sbiancamento. La strada della violenza, dove la mescolanza etnica
è stata sostituita dalla criminalizzazione
delle popolazioni, fenomeno che ha trovato una giustificazione
istituzionale negli omicidi
indiscriminati.
Agatha, colpita alla schiena da un
proiettile mentre stava rientrando a casa con la madre a bordo di un
camioncino, è un’altra vittima di questo tentativo di eliminare le popolazioni povere e nere di
Rio de Janeiro. Quando il presidente Jair Bolsonaro dice che “il bandito buono è il bandito morto”, sappiamo tutti
che cosa intende per “bandito”.
Tornando alla definizione di genocidio,
uno dei parametri che lo definisce è l’imposizione di uno stile di vita che
mette a rischio la sopravvivenza del gruppo. Proprio quest’aspetto, non rientra
forse nella nostra storica discriminazione
istituzionalizzata delle
popolazioni nere che contribuisce a perpetuare
il ciclo di povertà? Le favelas, ad esempio,
sono il risultato dell’enorme disuguaglianza sociale nel Paese, un problema di
cui il Governo non sembra affatto preoccuparsi.
Costringiamo i neri alla povertà e poi
li accusiamo di spaccio di droga. Questo è il frutto di una storica politica di criminalizzazione che
non è altro che una giustificazione agli
omicidi indiscriminati. Nel corso dell’evento Ocupa Política tenutosi
a Recife [NdT dal 29/08 all’01/09 2019], un partecipante alla tavola rotonda ha
affermato che “L’antiproibizionismo è impiegato come una
strategia per proteggere le vite dei neri”. Tale dichiarazione
risuona come una domanda retorica al gruppo: si può davvero considerare
concluso in Brasile il fenomeno
di pulizia etnica?
La risposta è no. Noi brasiliani lo
sappiamo. Non è un caso infatti che la morte di Agatha abbia rilanciato i
dibattiti sulla presentazione del pacchetto
di leggi “anticrimine” per la cui approvazione si sta battendo
il ministro della Giustizia Sergio Moro. In questo pacchetto si è cercato
di includere la tutela giuridica
per la polizia e i poliziotti armati che uccidono i civili nella
lotta contro il crimine, situazione che rientrerebbe nel caso della morte di
Agatha.
Lo scorso 25 settembre, un gruppo di
lavoro della Camera dei Rappresentanti ha revocato la cosiddetta esclusione dell’illegalità proposta
nel pacchetto di leggi Moro. Ma persino all’ombra della tragedia di Agatha, il
ministro ha continuato a difendere il suo progetto.
Le cifre confermano i timori.
Infatti, le morti causate
da interventi di polizia a Rio de Janeiro tra
gennaio e giugno di quest’anno sono aumentate del 46% rispetto allo stesso
periodo dell’anno precedente. Per ogni poliziotto ucciso, 89 cittadini perdono
la vita, una proporzione da record. Solo quest’anno, cinque bambini con meno di 12 anni sono rimasti uccisi
nel corso di operazioni di polizia a Rio de Janeiro. Il bilancio delle vittime
in seguito agli interventi di polizia risulta il più alto negli ultimi 20 anni.
Si può discutere delle intenzioni e
delle misure del Governo come si vuole. Ma le cifre mettono in evidenza omicidi sistematici avvenuti soprattutto nei confronti della
popolazione nera delle favelas. Parliamo di
genocidio? Il caso del Brasile va ben oltre. Quali sono infatti le possibilità
che queste vittime vengano riconosciute e che i responsabili delle loro
sofferenze vengano fatti arrestare? Direi nessuna.
Nessun commento:
Posta un commento