Il tema è sterminato,
qui vorrei solamente far presente un dettaglio, spesso trascurato nelle
discussioni su questo argomento.
Uno dei segni che i
tempi stanno cambiando è che sempre più persone cominciano a porsi il problema
del cibo, una cosa che per decenni abbiamo dato per scontata.
In effetti,
l’agricoltura industriale, figlia della “rivoluzione verde”,
sembra aver raggiunto il suo “picco”; ce lo dice il forte rallentamento o
stagnazione della crescita a fronte di uno sforzo produttivo che
accelera. Nel frattempo, la popolazione continua ad aumentare, così come
la voglia di mangiare di più e meglio da parte di chi sta mangiando poco e
male.
Una vera carestia, di
quelle che spazzano via milioni di persone, non è una prospettiva realistica a
breve e medio termine, soprattutto non in Europa, ma a lungo termine può
accadere di tutto e, comunque, come si suol dire in Toscana: “E’ meglio aver paura che buscarne”.
A maggior ragione se,
con l’occasione, si riesce anche a mettere in tavola roba più saporita e
genuina di quella che si compra al supermercato.
Di qui la repentina
trasformazione dell’antico orticello dietro casa da attività residuale per
vecchietti arzilli a settore economico in crescita esponenziale: libri,
riviste, convegni, attrezzi, sementi, corsi, siti internet e chi più ne ha più
ne metta offrono di tutto a chi fosse interessato. Perfino troppo, tanto
che è oramai difficile orientarsi in questo mare magno.
Bene, ma se è vero che
gli orti possono aiutare molto l’economia domestica in campagna e, entro certi
limiti, nelle periferie urbane, non sarà così che si sfameranno i miliardi di
persone che si ammassano nelle megalopoli. Per questo, è necessario
un salto di scala di parecchi ordini di grandezza e questo cambia la
prospettiva.
Un’opinione molto
diffusa è che la dieta di domani sarà vegetariana o quasi e che ciò sarà
sufficiente a tenere in equilibrio il sistema. Ci sono diverse
buone ragioni per pensarlo:
§ Una percentuale
consistente della produzione agricola è destinata alla produzione di alimenti
per il bestiame; soprattutto vacche, ma non solo. La trasformazione
delle granaglie e della soia in alimenti e di questi in carne o latte comporta
però una forte dissipazione di energia. Se mangiassimo direttamente i
semi avremmo quindi molte più calorie a disposizione.
§ Gli allevamenti
intensivi consumano grandi quantità di acqua, non solo per far bere il bestiame
(specialmente i bovini), ma anche per mantenere un minimo di igiene nelle
stabulazioni.
§ Il cereale più
produttivo e quindi più utilizzato per i mangimi è il mais che, però, è anche
quello che ha più bisogno di acqua e, nelle varietà ad altissima resa odierne,
anche di diserbanti, concimi sintetici ecc. Segue la soia (una
leguminosa) per coltivare la quale stiamo distruggendo buona parte della
foresta amazzonica.
§ Gli allevamenti
intensivi sono estremamente inquinanti, sia per l’abnorme e concentratissima
produzione di letame e liquami, sia per la produzione di metano che mangimi
ricchi di carboidrati e poveri di fibre incrementano considerevolmente.
§ Una dieta ricca di
carne e latticini non è necessaria, anzi può essere perfino nociva per persone
che fanno una vita sedentaria come la maggior parte di noi.
§ Negli allevamenti
intensivi gli animali sono trattati malissimo, ai limiti della tortura o anche
oltre.
§ Negli allevamenti
intensivi si fa necessariamente un largo uso di farmaci sui cui residui non c’è
controllo possibile. In particolare, l’uso di antibiotici di copertura è una
misura di profilassi necessaria in condizioni di sovraffollamento e scarsa
igiene, ma contribuisce a selezionare patogeni particolarmente pericolosi.
Tutto corretto e, oggi
come oggi, ridurre drasticamente il numero e la dimensione degli allevamenti
intensivi sarebbe una misura lodevole, specie se il conseguente aumento dei
prezzi riportasse un poco di bestiame sui pascoli e nelle fattorie dove,
invece, ce ne è oggi troppo poco.
Ma che ci dobbiamo
aspettare dal futuro?
La peculiarità della
fluttuazione climatica in corso è di essere caldo-secca sulla maggior parte
delle terre emerse. Un’anomalia questa che non è il caso di
discutere qui; il punto che ci interessa è che la disponibilità di acqua
continuerà presumibilmente a diminuire ed i suoli ad inaridire. Per
farsi quindi un’idea di come potrebbe essere l’agricoltura europea del futuro
proviamo a dare un’occhiata a cosa succede nei paesi che oggi hanno situazioni
climatiche ed edafiche simili a quelle che presumiamo di avere noi fra un paio
di decenni. Per esempio in nord Africa e in buona parte della Spagna.
In primo piano
troviamo zone irrigue con buoni livelli di produzione, ma solo grazie ad una
disponibilità di energia, concimi e fitofarmaci che difficilmente avremo in
futuro. Inoltre, l’emungimento delle falde freatiche e dei fiumi è
una delle concause dell’inaridimento del territorio, in misura anche maggiore
del Global Warming. Si veda per tutti, l’esempio del Lago Aral,
prosciugato per irrigare i campi di cotone. In pratica, le colture
irrigue dovrebbero essere abbandonate subito e molte lo saranno comunque.
Alcune, anzi, lo sono già state, proprio per esaurimento dell’acqua e/o per
accumulo di sale nel suolo (frequente conseguenza dell’irrigazione in zone
aride).
Dove ci si deve
accontentare di piogge scarse e irregolari non c’è spazio per ortaggi, mais e
meloni. Troviamo quindi magri campi di cereali resistenti all’aridità, ma
scarsamente produttivi come il miglio, il sorgo ed alcune varietà di
frumento. Anche questi ricorrono a concimi “chimici” e fitofarmaci, ma
per l’acqua dipendono invece dai capricci del clima. Di conseguenza, i
rendimenti sono scarsi e molto variabili, complessivamente in diminuzione a
causa del peggioramento del clima e del degrado dei suoli così sfruttati.
Infine, l’unica cosa
che cresce sulla maggior parte del territorio di molte regioni è una
vegetazione ruvida e tenace, fatta perlopiù di arbusti ed erbe perenni che
possiamo mangiare solo usando del bestiame per trasformarla in carne e
latte. Dirò di più: anche laddove il clima ed i suoli sono ancora
propizi all’agricoltura, una popolazione rurale che disponga di poca energia
esogena (elettricità e gasolio) ha tutto l’interesse a basarsi in buona misura
sull’allevamento. Non a caso è quello che è sempre accaduto e che
continua ad accadere. Il bestiame ha infatti alcuni vantaggi
strategici che è bene ricordare:
§ Utilizza risorse che
noi non possiamo usare direttamente.
§ Non fornisce solo
cibo, ma spesso anche servizi (trasporti, forza motrice, ecc.)
§ Fornisce concimi ed
ammendanti di qualità.
§ Incrementa
sensibilmente la biodiversità locale.
§ Il corpo degli animali
è anche un contenitore di cibo che si conserva da solo, senza bisogno di protesi
tecnologiche ed energetiche.
Per questo, i popoli
che vivono in aree semi-aride hanno ed hanno sempre avuto una dieta a base di
carne e latticini, integrati da quel poco di verdure e cereali che riescono a
produrre e/o importare.
In passato, i popoli che
avevano del buon bestiame, specialmente buoni cavalli, hanno soverchiato quelli
che non li avevano. Poi la palma del dominio è passato a coloro
che, invece, hanno il controllo dei combustibili fossili, ma anche questo sta
passando.
Non possiamo sapere
come sarà il mondo fra cinquanta o cento anni, ma io credo che sarebbe una cosa
prudente tornare a diffondere capillarmente il bestiame più vario nelle
campagne, eliminando invece gli allevamenti industriali. Cosa facile a
dirsi, ma difficile a farsi.
Credo inoltre che
sarebbe prudente usare il residuo potere economico e tecnologico che abbiamo
per importare e/o selezionare razze più idonee al clima ed alla vegetazione che
si presume avremo in futuro. Ricordo che selezionare e stabilizzare una
razza animale è un affare che prende decenni; tempi cioè dello stesso ordine di
grandezza di quelli con cui il nostro territorio si sta inaridendo.
Nessun commento:
Posta un commento