(recensione, e non solo, del libro di Sarah Gainsforth, Airbnb città merce, DeriveApprodi, 2019, pp. 191,
€ 18,0
Bisognerebbe riflettere sul ritardo che
l’Italia – e Roma in particolare – sconta riguardo ai temi della
gentrificazione, della “turistificazione” dei centri urbani, degli
stravolgimenti che in questi decenni recenti hanno sconvolto la morfologia
delle sue principali città d’arte. Un paese pioniere della riflessione
urbanistica si è trovato improvvisamente impreparato di fronte alle tormentate
sfide che distinguono il volto di città e metropoli dei nostri giorni. A dire
il vero gli ultimi anni hanno visto un inevitabile recupero: la trasformazione
della città si è imposta quale motivo di analisi di un nuovo modello
estrattivo, al tempo stesso produttivo, finanziario e parassitario. Il libro di
Sarah Gainsforth si inserisce precisamente in questo movimento di attivismo
politico-culturale: recuperare il tempo perduto, aggiornando interpretazioni
sfocate, ormai incapaci di comprendere i fenomeni sociali che investono
l’ambiente urbano. Come ogni lavoro di questo tipo, si presenta immediatamente
interessante e inevitabilmente parziale. Interessante perché l’autrice coglie
il motivo decisivo: smascherare le retoriche del capitalismo parassitario che travolge
i centri urbani e li trasforma in qualcos’altro (ma cos’altro? Questa rimane la
domanda inevasa); parziale perché, per l’appunto, pioneristico – almeno, come
detto, nel nostro paese – e che quindi non può servirsi di una mole dignitosa e
condivisa di studi italiani rilevanti sull’argomento. Si presenta dunque come
lavoro dal quale partire, ed è la sua inequivocabile
importanza.
Proviamo a centrare subito il tema,
liberandoci dalle pastoie sociologiche o urbanistiche che ingarbugliano il
problema dentro punti di vista troppo ristretti per svelare pienamente la
complessità della vicenda: la città attuale è il prodotto della crisi
economica. Una crisi economica di lungo periodo, che sfocia clamorosamente con
la bolla dei mutui subprime del
2008, ma che qualifica il modello capitalistico occidentale almeno dalla fine dei mitizzati “trenta gloriosi”.
Sarebbe davvero troppo pretenzioso provare in poche battute i caratteri di
questa crisi, che si presenta – in ultima istanza – come crisi di
valorizzazione dei capitali privati. La curva di accrescimento di questi
capitali – visti nel loro insieme – ad un certo momento rallenta fino ad
arrestarsi, generando contestualmente la moltiplicazione geometrica del debito
privato per sostenere una valorizzazione che, per perpetuarsi, non può che
essere continuamente drogata: i consumi reggono, ma lo fanno scollegandosi
vieppiù marcatamente dal livello reale dei redditi generati nel rapporto tra
lavoro disponibile e produzione economica.
Questa crisi può essere valutata da
diversi punti di vista, tutti importanti. Per quel che qui ci interessa, a
farne le spese è la dimensione cittadina, investita frontalmente dalle
contorsioni di un capitalismo che dilegua la sua fase “mista” – e cioè
contraddittoriamente sostenuta da capitali privati e pubblici in egual misura –
e smantella progressivamente la serie di legami che sostenevano il rapporto tra
Stato (inteso come recinto politico) e sviluppo economico. Sempre limitandoci
alla vicenda urbana, David Harvey – in un suo noto articolo del 1989 – ha
definito questo passaggio dalla città manageriale alla
città imprenditoriale. Quale è il significato di questo passaggio
(epocale)? In buona sostanza le città – tutte le città, ma in particolare le
metropoli divenute “globali” – strutturate politicamente per amministrare le risorse che lo Stato trasferiva
loro dalla fiscalità generale, sono state catapultate forzatamente nella
dimensione imprenditoriale, dovevano divenire – per sostenere l’insieme dei
servizi di cui erano intestatarie – aziende urbane,
generando da sé quelle risorse economiche non più trasmesse dallo Stato
centrale.
Sempre tagliando con l’accetta e in
maniera rozzamente sintetica, la turistizzazione dei centri urbani si inserisce
in questo schema, risponde alla medesima necessità che ha portato le città a
privatizzare la propria economia, “liberalizzando” i servizi, “cartolarizzando”
il patrimonio immobiliare comunale, svendendo porzioni sempre crescenti di
proprietà pubblica, dismettendo sempre più attività che si presentavano come
costi aggiunti di un bilancio che continuava a non tornare, che non poteva più
tornare al fatidico pareggio. La città imprenditoriale è il risultato della
città (fiscalmente) fallita. In sintesi: dalla città bisognava estrarre reddito
per colmare le mancate risorse trasferite dallo Stato. Questa necessità si è
incontrata con la difficoltà dei capitali privati – come accennato prima – di
valorizzarsi, di accrescersi stabilmente, inceppandosi la droga del debito
privato. E quale miglior investimento che tornare alla rendita? La crisi
economica non ha infatti prodotto una diminuzione dei capitali in circolazione,
tutt’altro: nel mondo non c’è mai stata così tanta massa di capitale privato
inutilizzato, finanziarizzato ma non valorizzato, perché ad essersi spezzata è
la catena fondamentale che generava valore per questi capitali: il consumo
interno delle economie ricche dell’Occidente. Questo dimensione letteralmente
infinita di capitale fittizio – moltiplicato finanziariamente e raggiungendo
diversi multipli ormai non più misurabili del Pil globale – è costretto però a
trovare ricadute concrete al quale ancorarsi. La rendita immobiliare è il
principale ancoraggio. Di qui, tra le altre cose, la turistificazione.
Come viene insegnato al prima anno di economia
politica, non è la domanda a generare l’offerta, bensì il contrario: è
l’offerta a generare bisogni indotti. Fatti salvi i bisogni primari
(sostanzialmente volti alla riproduzione dell’uomo), l’universo dei bisogni
secondari è indotto dall’offerta economica. Da questo angolo di visuale,
l’intera retorica sul turismo andrebbe ribaltata: non è questo ad investire i
paesi dell’Occidente, costringendoli al cambiamento produttivo e
riconvertendolo in ricettività turistica; sono i paesi occidentali (e non solo
loro, ovviamente) ad attirare i flussi turistici globali investendo su di una
domanda indotta, che – in qualche modo – costringe al bisogno di turismo (cioè
al bisogno di entrate esterne al
sistema cittadino o nazionale). I flussi sono costruiti e alimentati da quei
paesi che se ne dicono oggetto “loro malgrado”. Venuto (parzialmente) meno il
potere d’indirizzo economico da parte dello Stato, trasformata la città in ente
imprenditoriale, sono dunque le città a stesse a plasmarsi in funzione del
turismo globale. Deformandone – letteralmente – la morfologia, tanto quella
urbana quanto (soprattutto) quella sociale, cioè i caratteri fondamentali della
cittadinanza.
Sarah Gainsforth illustra questa
macroscopica vicenda attraverso una sineddoche, che però coglie davvero nel
segno: lo studio e il disvelamento di un pezzo di questa economia del turismo –
Airbnb – per descriverne la complessità, restituendo un distopico quadro
d’insieme che ancora oggi fatica ad affermarsi fuori dai circuiti politicamente
più emancipati. Ci sono più piani che si intersecano in un lavoro di questo
tipo, ed è l’unico modo per coglierne il senso. Da una parte c’è il duro
confronto con i numeri e i dati di realtà che distinguono il processo di
turistificazione. Attraverso mirati focus di alcuni casi urbani scelti
dall’autrice, veniamo subito colpiti dalla forza dei numeri. Alcuni esempi:
Lisbona ha circa 500mila abitanti, ma sopporta l’arrivo di 14 milioni di
turisti ogni anno. In seguito al “salvataggio” dei conti pubblici portoghesi operato
dall’Unione europea, una delle clausola capestro del memorandum «invitava a stimolare il mercato
immobiliare con interventi di rigenerazione urbana e una massiccia
liberalizzazione degli affitti». Il risultato, oltre la fine dell’equo canone e
la moltiplicazione degli sfratti, è stata la consegna ad Airbnb di una quota
rilevante dell’intero mercato degli affitti: 22mila alloggi sono gestiti da
Airbnb nel solo centro cittadino; nel solo quartiere di Santa Maria Maior – 1,5
kmq – 3mila case sono in affitto su Airbnb.
Ancora: in seguito (attenzione: in seguito) alla crisi del 2008, i prezzi delle case di
San Francisco – cuore della multinazionale Airbnb – si sono moltiplicati
indefinitamente: «oggi più della metà delle case di
San Francisco costa oltre 1 milione di dollari. Nel quartiere
di Westwood Park le case da 1 milione di dollari erano il 3% nel 2012; nel 2016 erano il 96%. In 14
quartieri della Bay Area, per lo più concentrati intorno a Palo Alto, il 100% delle case costa più di questo valore». E, attenzione,
in una città che vive una crisi abitativa epocale, e dove è il “ceto medio”,
non gli strati più popolari, a doversi trasferire altrove, sempre più lontano
da una città dove però continua a gravitare per ragioni di lavoro. Il caro
affitti colpisce famiglie con 100mila dollari di reddito l’anno. Ancora:
«Toronto è nel pieno di un boom immobiliare e, al tempo stesso di una crisi
abitativa senza precedenti. […] Nel 2016 le case sottratte al mercato ordinario
di Toronto erano circa 3000, nel 2017 erano diventate 45.000 e un anno dopo,
nel 2018 erano 65.000». E ancora, a caso tra i dati citati ossessivamente ma
giustamente dall’autrice: «Nella zona urbanistica del centro storico di
Roma il 19% degli appartamenti è in affitto su Airbnb. […] A
Venezia il 12% delle case nella città storica, […] è affittato a turisti tutto
l’anno. […] Firenze è la città con la più alta concentrazione di case su Airbnb
nel centro storico, il 18%». E importante: non stiamo parlando di hotel,
b&b o altre strutture ricettive “ufficiali”. Parliamo di appartamenti
privati che si sommano all’offerta già mastodontica della ricettività
turistica. Percentuali esasperate – vicine dunque al 50% dell’intero patrimonio
abitativo di una città, o almeno del suo centro storico – vengono riconvertite
al turismo. Con quali risultati è facile immaginare: «A Roma l’intero mercato
degli affitti viene stimato da Istat in 210.000 alloggi. Il primo gestore di
alloggi è l’Ater Roma, con 48.000. […] Il secondo è il Comune, che detiene
28.000 alloggi pubblici. Il terzo, poiché di fatto è un gestore immobiliare, è
Airbnb, con quasi 19.000 alloggi interi, ma se contiamo anche le singole stanze
arriviamo a 30.000». L’effetto, a dire il vero, è stato anche calcolato: «A
Boston, una ricerca del dipartimento di Economia dell’Università ha trovato non
solo una correlazione ma una relazione causale tra la proliferazione di Airbnb
e i prezzi delle abitazioni: a ogni 12 annunci su Airbnb per
zona censuaria corrisponde una perdita di case sul mercato ordinario del 5,9%,
un aumento dei canoni di locazione dello 0,4% e un aumento dei valori
immobiliari dello 0,76%». Ogni dodici annunci. Siamo di fronte ad un
terremoto che travolge direttamente le città, la loro fisionomia e,
soprattutto, gli abitanti residenti.
Si dirà, e infatti viene detto, che tutto
ciò risponde a dinamiche molecolari, processi intimi del capitalismo privato,
di scelte individuali, come ad esempio mettere una casa o una stanza in affitto
su di un sito, “disintermediando” la canonica offerta ricettiva, piegando
inevitabilmente le città a flussi inarrestabili che possono solo essere
“governati” ma non limitati. E veniamo al secondo focus del libro di
Gainsforth, e cioè la natura ideologica di questo fenomeno: «fu chiaro quasi
subito che solo il 10% degli host di Airbnb erano inquilini che
arrotondavano; nel 90% dei casi si trattava di proprietari
che affittavano tutto l’anno. […] Molti degli interi edifici dove
gli inquilini erano stati sfrattati con il ricorso all’Ellis Act erano gli
stessi in cui gli appartamenti comparivano negli annunci su Airbnb e VRBO». E
ancora: «Gli host con più di una casa in affitto […] gestiscono il 56,2% di
tutte le case in affitto su Airbnb a Roma: sono 10.583 gli appartamenti di
utenti con più di un annuncio». In altre parole, la leggenda – perché di questo
si tratta – che Airbnb faccia parte del “processo di disintermediazione”
dell’economia, liberando le energie del piccolo capitalismo privato, è una
bufala: Airbnb è un gestore, uno dei più grandi, di proprietà immobiliari, che
destina alla ricettività turistica contribuendo alla moltiplicazione di questa.
Non risponde ad un bisogno (più stanze o appartamenti per turisti), ma lo
genera. Non è Airbnb a rispondere ad una domanda di turismo: è Airbnb a
generare la domanda di sempre più turismo. «Airbnb è finora la principale success story del capitalismo delle piattaforme e
dell’ideologia neoliberale e startuppara, secondo cui ognuno è imprenditore di
se stesso. […] Le piattaforme hanno trovato il modo di mercificare sempre nuove
risorse, ampliando la sfera di ciò che è possibile mettere a profitto – la
casa, il proprio tempo, le città. […] Il turismo […] è uno strumento di
produzione di località per l’estrazione di valore dalla città-merce». E ancora,
più avanti e in maniera decisiva: «il turismo è oggi il principale strumento di
gentrificazione e di marketing delle città, diventate al tempo stesso
imprenditrici e merce di consumo, la risorsa e il prodotto finale, in vendita
sul mercato globale».
Se però le dinamiche sono globali,
rispondono cioè alle strategie di poche enormi multinazionali private e
non-localizzate, modellando giocoforza l’insieme del tessuto urbano, le
ricadute rimangono locali. L’ideologia della disintermediazione, delle startup
e della sharing economy serve a demolire i regimi
regolatori urbani, in perfetta assonanza con l’attacco ai regimi regolatori
statuali portata avanti dal più vasto processo di globalizzazione dell’economia
mondiale. Rimanendo alla città, la sostituzione in
corso è quella della popolazione residente con una temporanea, di passaggio,
“utilizzatrice” della città, anzi: di città, in generale, senza risiedervi,
secondo la (ormai) classica intuizione di Martinotti riferendosi ai metropolitan businessperson. Eppure una popolazione
residente continuerà inevitabilmente ad esserci. Ma sarà spostata sempre più
lontano, sempre più fuori dai confini urbani, e però costretta – per ragioni
lavorative – a gravitarvi attorno, sovente attorno a quel centro cittadino nel
frattempo divenuto luogo di transito dei flussi del turismo e dell’economia
globale.
In conclusione, dunque, la città divenuta
metropoli si presenta sempre più come duale: un piccolo
centro nevralgico – non sempre o per forza sovrapposto al centro geografico –
circondato da un’immensa periferia che si estende ben oltre la provincia e
coincidendo con la regione di riferimento, senza soluzione di continuità. Ma
non è gioco a somma zero: nella periferia disurbanizzata e non più cittadina a
venire sconvolti sono quei diritti di cittadinanza su cui si fonda il concetto
stesso di città. Per chi può ancora permetterseli, cioè comprarli, persisteranno. Per tutti gli altri, cioè per
la stragrande maggioranza della popolazione, si apre (si è già aperta) una
nuova fase delle relazioni sociali.
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