Da gennaio a oggi sono stati rilevati 74mila incendi in Brasile, più di
39mila nelle zone coperte dall’Amazzonia. In totale, si registra un aumento dell’83 per cento rispetto al 2018.
I dati forniti dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe) – il cui
direttore Ricardo Galvão è stato licenziato dal presidente brasiliano Jair
Bolsonaro proprio per aver diffuso queste cifre – non lasciano dubbi sul fatto
che ci troviamo di fronte a una situazione allarmante in Amazzonia. Le immagini
della foresta che brucia stanno facendo il giro del mondo. Sono state
rilanciate dallo spazio dall’astronauta Luca Parmitano. Hanno
suscitato la mobilitazione di diversi attori di Hollywood.
Ma perché la foresta brucia, e perché sta bruciando più degli anni passati?
Quanto sta accadendo in Brasile nel territorio della cosiddetta “Amazzonia
legale” – che comprende la foresta vera e propria e più a sud la parte
settentrionale del Mato Grosso – sembra il risultato di una combinazione di
eventi in parte locali in parte internazionali.
È fin dall’epoca della dittatura che l’immenso nordovest brasiliano è area
di conquista: “Integrar para não entregar” (Integrare per non cedere) era negli
anni settanta e ottanta del novecento la parola d’ordine della giunta al
potere. Preoccupati che il ricco territorio suscitasse la bramosia di potenze
straniere, i militari hanno lanciato al tempo programmi di sviluppo agricolo e
di sfruttamento minerario, costruito infrastrutture, facilitato il
trasferimento di coloni dal sud. Con il ritorno della democrazia, l’Amazzonia è
diventata terreno di scontro permanente tra quanti ne vogliono “continuare la
colonizzazione” e quanti aspirano a preservarla il più intatta possibile.
La svolta
Se i governi di sinistra di Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff hanno cercato a loro modo una sintesi tra queste due visioni, a volte pendendo verso gli interessi dell’agroindustria, l’arrivo al potere di Jair Bolsonaro ha segnato un punto di svolta. Il nuovo presidente si è apertamente schierato per una revisione dei vincoli ambientali e ha dato il via libera – almeno a parole – a una nuova politica di conquista. L’aumento degli incendi risponde a questa logica: il fuoco disbosca territori che possono essere sfruttati in altro modo, in particolare per il pascolo estensivo e l’agricoltura industriale.
Se i governi di sinistra di Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff hanno cercato a loro modo una sintesi tra queste due visioni, a volte pendendo verso gli interessi dell’agroindustria, l’arrivo al potere di Jair Bolsonaro ha segnato un punto di svolta. Il nuovo presidente si è apertamente schierato per una revisione dei vincoli ambientali e ha dato il via libera – almeno a parole – a una nuova politica di conquista. L’aumento degli incendi risponde a questa logica: il fuoco disbosca territori che possono essere sfruttati in altro modo, in particolare per il pascolo estensivo e l’agricoltura industriale.
Ma è necessario inserire il fenomeno in un contesto più ampio: dietro agli
incendi e la deforestazione dell’Amazonia non c’è solo la volontà politica di
una leadership poco sensibile ai temi ambientali. C’è un sistema di produzione
e di consumo alimentare che ha nel Brasile – e in quelle aree del Brasile – uno
dei propri baricentri. È un sistema dove gran parte della popolazione mondiale
fonda la propria dieta sul consumo di proteine animali, con un incremento
notevole in alcuni paesi a rapida crescita, come la Cina.
Se il consumo di carne aumenta, aumentano gli animali da allevare, e
aumenta la necessità di produrre materie prime agricole per i loro mangimi. Il
sistema è stato chiamato “grain-oilseed-livestock complex” dallo studioso
canadese Tony Weis, ed è basato su una correlazione quasi simbiotica tra gli
animali allevati intensivamente (livestock), i
cereali (grain) e la soia (oilseed) utilizzati
per nutrirli. Gli allevamenti intensivi hanno bisogno di terre su cui si
producano mais e soia, elementi essenziali dei mangimi animali. Ormai, sempre
secondo Weis, un terzo di tutte le terre arabili è destinato non alla
produzione di cibo per l’alimentazione umana, ma a prodotti per la zootecnia.
Nel corso degli ultimi anni, il Brasile è diventato un protagonista
imprescindibile di questo sistema. Il paese sudamericano è il primo produttore
mondiale di soia. La regione preamazzonica del Mato Grosso è un’immensa
monocoltura da cui i semi sono esportati ovunque, principalmente in Cina (46
per cento del totale) e in Europa (12 per cento). Anche la zootecnia italiana
fa parte di questo meccanismo: ogni anno il nostro paese importa circa 1,3
milioni di tonnellate di soia, la metà delle quali dal Brasile.
È sulla spinta di questa domanda in crescita che la frontiera agricola
brasiliana si sta spostando sempre più a nord, rosicchiando gradualmente
l’Amazzonia. “Oggi il 19 per cento della foresta è stato già disboscato e
sostituito principalmente da coltivazioni di soia”, afferma Rômulo Batista,
responsabile foreste di Greenpeace Brasile.
Questo per dire che gli incendi, il disboscamento, la conversione delle
terre non sono novità introdotte da Bolsonaro. Sono frutto di una tendenza che
va avanti da almeno trent’anni e che è ben visibile lungo il Rio delle Amazzoni
e i suoi affluenti, dove le principali aziende di commercializzazione di soia
hanno costruito porti privati e impianti di esportazione. Il presidente
brasiliano sta solo accelerando e facilitando un processo in atto da tempo.
Un’accelerazione che è dovuta anche ad altre congiunture internazionali,
apparentemente più lontane. Nel momento in cui Donald Trump ha scatenato la
guerra dei dazi contro la Cina, Pechino ha reagito imponendo una tariffa di
ingresso del 25 per cento su alcune merci provenienti dagli Stati Uniti, fra
cui la soia. Le ditte produttrici di mangimi in Cina si sono così trovate a
doversi rifornire altrove. Risultato: nel 2018 i produttori brasiliani hanno
esportato il 30 per cento di soia in più verso la Cina.
L’insieme di questi due fattori – una maggiore flessibilità del governo
brasiliano e una maggiore richiesta degli importatori – spiega l’aumento del disboscamento
e il rinnovato interesse per trovare aree libere da destinare alla produzione.
La gravità di quanto sta accadendo richiede soluzioni efficaci e
tempestive. Ma il problema andrebbe affrontato con un duplice approccio: sia a
monte, dove vengono appiccati gli incendi per disboscare la foresta; sia a
valle, da dove parte la richiesta di alimenti che si producono in quelle aree
disboscate. Se i roghi stanno suscitando un’ondata di commozione globale, per
l’alto valore simbolico dell’Amazzonia e per il suo ruolo nell’assorbimento di
anidride carbonica e nella capacità di arginare il riscaldamento globale, una
riflessione sul costo ambientale degli allevamenti intensivi e sugli effetti
che hanno a livello mondiale appare un’urgenza sempre più difficile da
rimandare.
A questo link è possibile guardare
per intero il documentario Soyalism, di Stefano Liberti ed Enrico Parenti.
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