giovedì 29 agosto 2019

L’Amazzonia brucia anche per produrre la carne che mangiamo - Stefano Liberti


Da gennaio a oggi sono stati rilevati 74mila incendi in Brasile, più di 39mila nelle zone coperte dall’Amazzonia. In totale, si registra un aumento dell’83 per cento rispetto al 2018. I dati forniti dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe) – il cui direttore Ricardo Galvão è stato licenziato dal presidente brasiliano Jair Bolsonaro proprio per aver diffuso queste cifre – non lasciano dubbi sul fatto che ci troviamo di fronte a una situazione allarmante in Amazzonia. Le immagini della foresta che brucia stanno facendo il giro del mondo. Sono state rilanciate dallo spazio dall’astronauta Luca Parmitano. Hanno suscitato la mobilitazione di diversi attori di Hollywood.
Ma perché la foresta brucia, e perché sta bruciando più degli anni passati? Quanto sta accadendo in Brasile nel territorio della cosiddetta “Amazzonia legale” – che comprende la foresta vera e propria e più a sud la parte settentrionale del Mato Grosso – sembra il risultato di una combinazione di eventi in parte locali in parte internazionali.
È fin dall’epoca della dittatura che l’immenso nordovest brasiliano è area di conquista: “Integrar para não entregar” (Integrare per non cedere) era negli anni settanta e ottanta del novecento la parola d’ordine della giunta al potere. Preoccupati che il ricco territorio suscitasse la bramosia di potenze straniere, i militari hanno lanciato al tempo programmi di sviluppo agricolo e di sfruttamento minerario, costruito infrastrutture, facilitato il trasferimento di coloni dal sud. Con il ritorno della democrazia, l’Amazzonia è diventata terreno di scontro permanente tra quanti ne vogliono “continuare la colonizzazione” e quanti aspirano a preservarla il più intatta possibile.

La svolta
Se i governi di sinistra di Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff hanno cercato a loro modo una sintesi tra queste due visioni, a volte pendendo verso gli interessi dell’agroindustria, l’arrivo al potere di Jair Bolsonaro ha segnato un punto di svolta. Il nuovo presidente si è apertamente schierato per una revisione dei vincoli ambientali e ha dato il via libera – almeno a parole – a una nuova politica di conquista. L’aumento degli incendi risponde a questa logica: il fuoco disbosca territori che possono essere sfruttati in altro modo, in particolare per il pascolo estensivo e l’agricoltura industriale.
Ma è necessario inserire il fenomeno in un contesto più ampio: dietro agli incendi e la deforestazione dell’Amazonia non c’è solo la volontà politica di una leadership poco sensibile ai temi ambientali. C’è un sistema di produzione e di consumo alimentare che ha nel Brasile – e in quelle aree del Brasile – uno dei propri baricentri. È un sistema dove gran parte della popolazione mondiale fonda la propria dieta sul consumo di proteine animali, con un incremento notevole in alcuni paesi a rapida crescita, come la Cina.
Se il consumo di carne aumenta, aumentano gli animali da allevare, e aumenta la necessità di produrre materie prime agricole per i loro mangimi. Il sistema è stato chiamato “grain-oilseed-livestock complex” dallo studioso canadese Tony Weis, ed è basato su una correlazione quasi simbiotica tra gli animali allevati intensivamente (livestock), i cereali (grain) e la soia (oilseed) utilizzati per nutrirli. Gli allevamenti intensivi hanno bisogno di terre su cui si producano mais e soia, elementi essenziali dei mangimi animali. Ormai, sempre secondo Weis, un terzo di tutte le terre arabili è destinato non alla produzione di cibo per l’alimentazione umana, ma a prodotti per la zootecnia.
Nel corso degli ultimi anni, il Brasile è diventato un protagonista imprescindibile di questo sistema. Il paese sudamericano è il primo produttore mondiale di soia. La regione preamazzonica del Mato Grosso è un’immensa monocoltura da cui i semi sono esportati ovunque, principalmente in Cina (46 per cento del totale) e in Europa (12 per cento). Anche la zootecnia italiana fa parte di questo meccanismo: ogni anno il nostro paese importa circa 1,3 milioni di tonnellate di soia, la metà delle quali dal Brasile.
È sulla spinta di questa domanda in crescita che la frontiera agricola brasiliana si sta spostando sempre più a nord, rosicchiando gradualmente l’Amazzonia. “Oggi il 19 per cento della foresta è stato già disboscato e sostituito principalmente da coltivazioni di soia”, afferma Rômulo Batista, responsabile foreste di Greenpeace Brasile.
Questo per dire che gli incendi, il disboscamento, la conversione delle terre non sono novità introdotte da Bolsonaro. Sono frutto di una tendenza che va avanti da almeno trent’anni e che è ben visibile lungo il Rio delle Amazzoni e i suoi affluenti, dove le principali aziende di commercializzazione di soia hanno costruito porti privati e impianti di esportazione. Il presidente brasiliano sta solo accelerando e facilitando un processo in atto da tempo.
Un’accelerazione che è dovuta anche ad altre congiunture internazionali, apparentemente più lontane. Nel momento in cui Donald Trump ha scatenato la guerra dei dazi contro la Cina, Pechino ha reagito imponendo una tariffa di ingresso del 25 per cento su alcune merci provenienti dagli Stati Uniti, fra cui la soia. Le ditte produttrici di mangimi in Cina si sono così trovate a doversi rifornire altrove. Risultato: nel 2018 i produttori brasiliani hanno esportato il 30 per cento di soia in più verso la Cina.
L’insieme di questi due fattori – una maggiore flessibilità del governo brasiliano e una maggiore richiesta degli importatori – spiega l’aumento del disboscamento e il rinnovato interesse per trovare aree libere da destinare alla produzione.
La gravità di quanto sta accadendo richiede soluzioni efficaci e tempestive. Ma il problema andrebbe affrontato con un duplice approccio: sia a monte, dove vengono appiccati gli incendi per disboscare la foresta; sia a valle, da dove parte la richiesta di alimenti che si producono in quelle aree disboscate. Se i roghi stanno suscitando un’ondata di commozione globale, per l’alto valore simbolico dell’Amazzonia e per il suo ruolo nell’assorbimento di anidride carbonica e nella capacità di arginare il riscaldamento globale, una riflessione sul costo ambientale degli allevamenti intensivi e sugli effetti che hanno a livello mondiale appare un’urgenza sempre più difficile da rimandare.

A questo link è possibile guardare per intero il documentario Soyalism, di Stefano Liberti ed Enrico Parenti.

da qui

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