All’inizio sembrava un nemico, e anche potenzialmente pericoloso. C’eravamo
incontrati sulle montagne del Gennargentu, nella parte orientale della
Sardegna, una delle zone meno conosciute d’Italia, nota solo per la sua povertà
e il brigantaggio endemico. Una volta le vittime dei sequestri di tutto il
paese venivano portate qui e tenute prigioniere per mesi o addirittura anni,
finché le trattative per la liberazione non erano concluse. Nonostante secoli
di invasioni straniere, questo massiccio montuoso non è mai stato colonizzato
per lunghi periodi, e conserva un sentimento di autonomia che ha permesso la
sopravvivenza di tradizioni come le feste pasquali che ero andato a vedere.
Teoricamente sono celebrazioni cristiane, ma è chiaro che hanno origini pagane
molto più profonde e oscure.
Il tempo era sempre stato freddissimo, con scrosci di pioggia che si
trasformava in neve; la gente era taciturna e sospettosa con gli estranei, gli
alberghi non erano molto migliorati dagli anni venti, quando avevano provocato
la rabbia impotente
di D.H. Lawrence. Dopo una decina di giorni già ne avevo abbastanza, ma il traghetto che doveva riportarmi sulla terraferma faceva scalo nel porto locale solo una volta a settimana, così decisi di passare il tempo che mancava alla partenza in un paese dove c’è un mercato, sepolto tra una distesa caotica di strutture di cemento lasciate a metà in attesa delle prossime rimesse dal Belgio o dalla Germania. Mi rassegnai all’unica pensione del posto. L’acqua c’era quando ne aveva voglia, il riscaldamento non funzionava affatto e la mia stanza riusciva a essere squallida e opprimente al tempo stesso: pochi mobili color sangue secco che si fronteggiavano con diffidenza su un lucido pavimento di lastroni, come pezzi avversari in una partita di scacchi.
di D.H. Lawrence. Dopo una decina di giorni già ne avevo abbastanza, ma il traghetto che doveva riportarmi sulla terraferma faceva scalo nel porto locale solo una volta a settimana, così decisi di passare il tempo che mancava alla partenza in un paese dove c’è un mercato, sepolto tra una distesa caotica di strutture di cemento lasciate a metà in attesa delle prossime rimesse dal Belgio o dalla Germania. Mi rassegnai all’unica pensione del posto. L’acqua c’era quando ne aveva voglia, il riscaldamento non funzionava affatto e la mia stanza riusciva a essere squallida e opprimente al tempo stesso: pochi mobili color sangue secco che si fronteggiavano con diffidenza su un lucido pavimento di lastroni, come pezzi avversari in una partita di scacchi.
Non c’erano ristoranti, ma il proprietario borbottò che forse c’era un
locale aperto in fondo alla strada. La pioggia cadeva con una ferocia
inclemente che sembrava voler suggerire cosa c’era da aspettarsi dagli abitanti
del luogo.
Tutte le porte erano chiuse, tutte le serrande abbassate. La strada ripida
e tortuosa si era trasformata in un torrente profondo parecchi centimetri, e i
ciottoli spingevano verso l’alto zampilli d’acqua in cui per un attimo mi
sembrò di vedere il dorso di una grossa trota. Osservando più da vicino scoprii
che era un topo affogato, e senza dubbio dovevo somigliargli molto quando
finalmente apparve l’insegna al neon di una pizzeria. Il giovane padrone non mi
accolse con grande entusiasmo o calore, ma almeno dimostrò un po’ d’interesse
imprenditoriale.
La maggior parte dei commercianti che avevo incontrato fino ad allora
sembrava quasi scandalizzata quando volevo comprare qualcosa. E i miei deboli
tentativi di farmi scusare, pagando il prezzo dovuto per la merce che intendevo
sottrarre al negoziante, erano sempre stati trattati con disprezzo. Gli unici
altri clienti della pizzeria erano dei ragazzi che mi ignorarono completamente
(un vero sollievo in una regione dove ero guardato continuamente con un
interesse intenso e fastidioso).
Il maschio dominante
La mia pizza era appena arrivata quando la porta si spalancò rumorosamente e tre uomini entrarono nel locale. Avevano una tenuta da banditi e una corporatura – bassa, larga e muscolosa – chiaramente abituata a sopportarne di tutti i colori. Il capo aveva una barba nera e modi decisamente bruschi, perfino per gli standard sardi. Puntò dritto al bancone e sparò con accento pesante un aspro florilegio di espressioni in sardu, una lingua romanza minore che sembra avere più elementi in comune con il latino e lo spagnolo che con l’italiano. La traduzione di “casa”, per esempio, è domu, plurale domos. Anche quando il modello è l’italiano, si tratta spesso di obsolete forme latineggianti come “cittade” invece di “città”, in sardo tzittade. Non avevo capito neanche una parola, ma la situazione era piuttosto chiara. I nuovi venuti non erano il genere di clientela che il padrone si augurava di avere nel locale, ma non poteva farci niente perché aveva paura.
La mia pizza era appena arrivata quando la porta si spalancò rumorosamente e tre uomini entrarono nel locale. Avevano una tenuta da banditi e una corporatura – bassa, larga e muscolosa – chiaramente abituata a sopportarne di tutti i colori. Il capo aveva una barba nera e modi decisamente bruschi, perfino per gli standard sardi. Puntò dritto al bancone e sparò con accento pesante un aspro florilegio di espressioni in sardu, una lingua romanza minore che sembra avere più elementi in comune con il latino e lo spagnolo che con l’italiano. La traduzione di “casa”, per esempio, è domu, plurale domos. Anche quando il modello è l’italiano, si tratta spesso di obsolete forme latineggianti come “cittade” invece di “città”, in sardo tzittade. Non avevo capito neanche una parola, ma la situazione era piuttosto chiara. I nuovi venuti non erano il genere di clientela che il padrone si augurava di avere nel locale, ma non poteva farci niente perché aveva paura.
Senza chiedere permesso né essere invitato, il capo dei tre passò dietro il
bancone e versò tre boccali di birra alla spina. Poi si fece strada, tallonato
dagli altri due, proprio verso il tavolo accanto al mio. Visto che il locale
era quasi vuoto, la cosa sembrava un po’ forzata, ma forse erano clienti
abituali e quello era il tavolo dove sedevano sempre. Continuai a mangiare, ma
a un certo punto i miei vicini si zittirono. Fino a quel momento avevano
chiacchierato in modo rumoroso e insistente, uno show intenso e appassionato
del maschio dominante, intervallato da brevi antifone dei suoi compagni.
Il contenuto restava un mistero, ma la forma era fin troppo familiare: il
capo che dimostrava il suo potere forando spietatamente i timpani a tutti, e
gli altri che mostravano ubbidienza fingendo di ascoltare. Ora il parlottio era
terminato. Fu solo per pigra curiosità che mi guardai intorno, e trovai lo
spaccone che mi fissava con palese antipatia.
“Polizia o carabinieri?”. Senza afferrare il senso, detti per scontato che
fosse ubriaco e mi girai. “Polizia o carabinieri?”, ripeté con un tono ancora
più feroce. Lanciai un’occhiata al padrone in cerca d’aiuto, ma sembrava tutto
assorto ad ammucchiare i bicchieri. Allora capii a cosa puntava il mio
antagonista. Durante quel soggiorno in Sardegna non avevo incontrato visitatori
casuali. Non ce n’erano, non in quella zona e in quel periodo dell’anno. E
allora che ci facevo io là, un maschio adulto sconosciuto che viaggiava da solo
nel territorio delle bande di sequestratori? La risposta era evidente, e un
agente non avrebbe avuto difficoltà a procurarsi una falsa identità con un nome
straniero. Ero tentato di rispondere a quell’uomo di farsi i fatti suoi, ma lo
sguardo fisso, plumbeo dei suoi compagni mi ricordava che c’era molta strada
fino alla pensione, che le vie erano deserte e le possibilità di spiacevoli
incidenti infinite.
“Souno un tiuriizta ingleize”, risposi.
Avevo preso in prestito l’accento di un diplomatico britannico che aveva
passato più di vent’anni in Italia ma evidentemente considerava qualunque
tentativo di pronunciarne correttamente la lingua come un primo passo sulla
scivolosa china della trasformazione in aborigeno. Poi mostrai la mia patente
britannica. Mostrare i documenti è una caratteristica fondamentale della vita
italiana da tanto di quel tempo che ha un effetto quasi ipnotico perfino sui
malviventi. L’uomo esaminò il documento – incomprensibile, ma sicuramente
ufficiale – molto più a lungo di quanto ci sarebbe voluto per leggerlo davvero,
e con un’espressione di disagio crescente. Non solo aveva fatto la figura
dell’idiota scambiando un turista per un agente in incognito, ma aveva violato
la legge fondamentale della sua stessa cultura insultando e implicitamente
minacciando un innocuo viaggiatore. Tuttavia non fece nessun tentativo di
scusarsi.
“Venga a sedersi qui”. Fece un gesto verso la sedia vuota all’altro tavolo.
Avrei preferito pagare e filarmela a letto, ma sembrava scortese rifiutare quel
tentativo di riparazione. L’uomo urlò qualcosa al padrone, che portò una
bottiglia senza etichetta e quattro bicchierini. Il mio ospite li riempì, me ne
passò uno e si scolò subito il suo. Io sorseggiai il mio: era grappa fatta in
casa, robusta, di una distilleria illegale. Avevo già notato che uno dei modi
in cui i sardi si distinguevano dagli altri italiani era nelle loro usanze
conviviali. L’uomo si riempì di nuovo il bicchiere, poi mi tese la mano.
“Bruno”. “Michele”. Mi maciullò le dita per un istante. “Che ci fa in
questo buco sperduto?”, mi chiese. “Avevo bisogno di una vacanza”. Tutti e tre
gli uomini ridacchiarono, ma lo sguardo di Bruno non vacillò. Mi resi conto che
il mio status era ancora indefinito, e cominciai a prestare più attenzione a
chi mi stava interrogando. Aveva l’aria di aver superato la trentina, era
ancora energico e in forma, ma senza la giovane esuberanza degli altri due,
mentre gli occhi avevano la cauta perspicacia di un uomo tutt’altro che
sciocco, il cui sviluppo intellettuale è stato frenato dalle circostanze.
“Una vacanza da cosa?”.
“Dal lavoro”.
“Che genere di lavoro?”.
“Insegno”.
“Dove?”.
“All’università di Perugia”.
Lo sguardo attento di Bruno si irrigidì immediatamente. Mi aveva beccato:
“Allora lei è italiano dopotutto!”.
Ci misi un po’ a convincerlo che gli stranieri qualche volta erano assunti
dalle università italiane, soprattutto se si trattava d’insegnare le lingue.
Perfino quando ammise questa possibilità, fu solo con una riserva per salvare
la faccia. “Ma… Perugia!”, sospirò, come se si trattasse di Pamplona o di
Praga. Poi si lanciò in un’appassionata e lunga arringa sulle difficoltà
economiche e politiche della Sardegna. Il succo era quello ben noto a chiunque
abbia mai ascoltato le lamentele dei contadini gallesi, dei pescatori di
Terranova o di qualsiasi altra comunità che si sente isolata e indifesa contro
le forze che controllano la sua vita.
Ma io volevo tornare a letto senza essere malmenato, perciò mi sforzai di
sembrare interessato. Le cose andavano così male in tutta l’isola? Bruno mimò
un disgusto totale. Dappertutto eccetto che a Cagliari. Era lì che arrivavano i
finanziamenti statali, e le luride merde dell’amministrazione regionale
facevano in modo che ci restassero. Alla gente di qui promettevano da sempre
aiuti e sviluppo, ma non succedeva mai niente e se succedeva i soldi finivano
sempre nelle tasche di qualche magnate dell’edilizia.
Ormai avevamo quasi finito la bottiglia di grappa. “Ma certa gente da
queste parti se la cava bene”, commentò Bruno confidenzialmente. “Davvero
bene! No estberus, cumpanzos? Lavorano sulle montagne,
proprio come noi, ma non guardano il bestiame. E diventano ricchissimi, molto
in fretta”. Scoppiò in una risata rauca, poi restò immobile e muto come un
serpente e mi scrutò. “E cosa sorvegliano allora?”, azzardai. “Persone?”. Bruno
lanciò un’occhiata ai suoi compagni.
“Il professore non si perde una battuta, vero?”. Calò di nuovo il silenzio.
Lo ruppi con una di quelle osservazioni che ti fanno capire quanto sei ubriaco:
“E voi conoscete questa gente?”. Ora i tre mi stavano dedicando tutta la loro
attenzione. Il capo soppesò per qualche istante la risposta. Alla fine alzò le
spalle: “Tutti conoscono tutti da queste parti”. Feci un gesto al padrone per
chiedere il conto, ma
Bruno lo allontanò con un cenno. Era già tutto fatto, disse: ero suo ospite. Non avevo molta voglia di essere in debito con Bruno, ma era inutile discutere.
Bruno lo allontanò con un cenno. Era già tutto fatto, disse: ero suo ospite. Non avevo molta voglia di essere in debito con Bruno, ma era inutile discutere.
“Allora, cosa fa domani?”, mi chiese.
“Niente”.
“Noi andiamo in montagna. Venga con noi”. Come quando mi aveva chiamato al
suo tavolo, era più un ordine che un invito. Annuii vagamente. “Passo a
prenderla alle sei”, disse andandosene.
Tornato alla pensione, mi sdraiai sul letto ghiacciato con i vestiti
addosso. Fuori, una pioggia mista a nevischio tagliava il cono di luce del
lampione sotto la finestra. Volevo dormire fino a tardi e passare la giornata a
leggere. Quanto all’invito di Bruno, era sicuramente una di quelle mattate da
ubriaco che al mattino sarebbero svanite come la neve.
Sulle montagne
A quell’epoca gli alberghetti di tutto il Mediterraneo sembravano andare a fuoco ogni paio di settimane, perciò quando l’allarme antincendio si mise a suonare nel cuore della notte mi alzai di scatto. Ma appena fui completamente sveglio mi resi conto che il baccano veniva da fuori. La neve si era sciolta davvero, ma una Land Rover rossa incrostata di fango era parcheggiata in mezzo alla strada con il motore acceso, e un uomo in piedi accanto allo sportello aperto del guidatore suonava il clacson a intervalli regolari.
A quell’epoca gli alberghetti di tutto il Mediterraneo sembravano andare a fuoco ogni paio di settimane, perciò quando l’allarme antincendio si mise a suonare nel cuore della notte mi alzai di scatto. Ma appena fui completamente sveglio mi resi conto che il baccano veniva da fuori. La neve si era sciolta davvero, ma una Land Rover rossa incrostata di fango era parcheggiata in mezzo alla strada con il motore acceso, e un uomo in piedi accanto allo sportello aperto del guidatore suonava il clacson a intervalli regolari.
Bruno doveva aver già svegliato tutti nella zona, perciò avrebbe anche
potuto urlare un saluto, ma si limitò a fare un gesto con il pollice in
direzione del veicolo, montò a bordo e diede gas. Mi trascinai giù per le scale
e lo raggiunsi, senza avere il fegato di tirarmi indietro. Bruno aveva gli
stessi vestiti del giorno prima, ma anche un coltello con il manico di gomma
legato alla cintura e due cartucciere incrociate sul petto largo. La doppietta
era appoggiata sul sedile accanto al suo. Per completare la caricatura di un
bandito messicano gli mancavano solo il sigaro e il sombrero, ma non aveva
l’aria di una caricatura. Dava l’impressione di abitare in un universo privo
dell’idea stessa di commedia.
Rombando attraverso il paese addormentato sbucammo su una stradina bianca
che si avvolgeva su per la montagna nell’oscurità più completa. “Una Land
Rover!”, dissi con entusiasmo. “Produzione inglese!”. Sono le migliori,
convenne Bruno, ma il costo dei pezzi di ricambio ti ammazza. Svoltò su una
strada di terra battuta ancora più ripida e coperta di neve, fermandosi per
ingranare le quattro ruote motrici, poi continuò a marce basse attraverso una
landa desolata squarciata da spuntoni di roccia. “Ti ammazza”. Pensai che Bruno
avrebbe potuto uccidermi e farla franca in tutta tranquillità. Nessuno ci aveva
visti partire, e nessuno – io meno di tutti –
sapeva dove eravamo diretti. Per di più Bruno aveva ammesso di conoscere dei sequestratori e, anche se non valevo granché dal punto di vista professionale, ero arrivato come un dono del cielo.
sapeva dove eravamo diretti. Per di più Bruno aveva ammesso di conoscere dei sequestratori e, anche se non valevo granché dal punto di vista professionale, ero arrivato come un dono del cielo.
Sapevo che quando i tempi erano duri le bande si accontentavano di bersagli
facili, che cedevano a prezzi scontati per pagare le bollette. Farmacisti e
tabaccai erano i più gettonati, ma anche i professori universitari potevano
andare. A parte il disagio di essere tenuto in ceppi per mesi in una grotta,
avevo la sgradevole sensazione che la risposta dei miei genitori e della mia ex
moglie a qualsiasi richiesta di riscatto potesse suonare come “Tenetevi pure
quel bastardo!”. Quando finalmente cominciò ad albeggiare dovevamo essere
saliti a più di mille metri. C’era meno neve e quella che c’era apparteneva al
tipo asciutto, polveroso, perciò guidare fu più facile anche se non c’erano
segni di una strada. Superammo una collina, poi scendemmo il ripido pendio
dall’altra parte fino a una valle chiusa dove pascolava del bestiame pelle e
ossa. In fondo c’era n cerchio di mura di pietra e una capanna senza finestre.
Bruno si avvicinò alle costruzioni e scendemmo dalla macchina. Il freddo era
feroce e il silenzio assoluto. Bruno entrò nella capanna e io lo seguii.
L’interno puzzava di pecora. C’era un rozzo focolare con della cenere e dei
pezzi di legno carbonizzati, ma senza canna fumaria. In alto, alcune pelli di
pecora erano appese a seccare su dei bastoni. Bruno si avvicinò a una mensola
in fondo alla capanna e prese una bottiglia di grappa fatta in casa e due
bicchieri. Li riempì e me ne allungò uno senza dire una parola. Avevo dormito
sì e no cinque ore dopo una giornata lunghissima, non avevo ancora mangiato o
bevuto niente ed ero più convinto che mai di dipendere dalla cortesia di questo
sconosciuto. Così bevvi la grappa. “E adesso che facciamo?”.
Bruno si era accovacciato nella cenere sul bordo del focolare e fissava il
pascolo attraverso la porta aperta, arrotolandosi una sigaretta. “Aspettiamo”.
Passammo quaranta minuti senza scambiarci una parola. Bruno era a suo agio nel
silenzio, ma per il resto era tutt’altro che sereno, irradiava un’agitazione
interiore che trovavo estremamente inquietante. Non capivo se il suo stato
dipendeva dalla situazione o se era una condizione cronica dovuta a problemi
dell’infanzia, a uno squilibrio ormonale o semplicemente ai postumi della
sbornia. Domande bizzarre, date le circostanze. In quel capanno, in quel
momento, era più sensato considerare Bruno come uno di quei personaggi mitici
che sono semplicemente irrequieti, arrabbiati, orgogliosi o vendicativi per
natura, uno scoglio nel mare degli avvenimenti, intorno a cui gli altri devono
navigare.
A qualunque cosa pensasse, l’udito di Bruno era infallibile. Il silenzio
che era durato così a lungo doveva essere già stato violato quando annunciò:
“Arrivano”. Ma per almeno un altro minuto non mi accorsi del rumore che veniva
da lontano. Uscimmo all’aperto, dove Bruno tirò fuori un piccolo binocolo da
una tasca della giacca a vento e sorvegliò un convoglio di sette fuoristrada
che scendevano dalla collina in fila indiana. Qualche minuto dopo si
avvicinarono a coppie tra il capanno e il recinto di pietra, e i passeggeri
scesero e si diressero verso di noi. Erano più o meno una decina. Devono essere
i sequestratori, pensai, e questa è la consegna.
L’uomo che camminava in testa salutò Bruno con un cenno del capo, poi si
voltò e mi osservò con uno sguardo lontano e indifferente, come si valuta un
capo di bestiame. Quando parlò fu ovviamente in sardo, ma la domanda era
abbastanza scontata ed esplicita perché anch’io potessi capirla: “Chi è
questo?”. Bruno disse solo due parole: “N’amigu”. L’altro
fece di nuovo un cenno con la testa. Ero un amico, Bruno non diede altre
spiegazioni e non gli fecero altre domande. Gli uomini cominciarono a scaricare
il materiale che avevano portato: rotoli di corda, bidoni con nomi chimici
stampati sopra, ceste di cibo, una tanica di vino e, misteriosamente, una
cassetta di bottiglie di birra vuote.
Sembrava che lo scopo dell’incontro fosse quello di radunare gli animali
che pascolavano sui fianchi della collina e imbrancarli nel recinto di pietra,
e si aspettavano che io facessi la mia parte di lavoro. Avevo sempre immaginato
che il bestiame si radunasse a cavallo o con biciclette e cani addestrati, ma
noi andammo a cercarlo a piedi, correndo selvaggiamente in tutte le direzioni,
agitando le braccia e urlando da far paura, come i bambini ad Halloween. Questo
spinse gli animali a correre più veloce ed era difficile stargli dietro,
soprattutto su un pendio di 45 gradi. Ci vollero due ore abbondanti per
portarli nel recinto.
Poi ci fu una pausa mentre si facevano preparativi per la seconda fase
dell’operazione. Intanto, nella capanna, un uomo che si era slogato una
caviglia e non poteva partecipare al lavoro principale aveva acceso il fuoco e
lo aveva ridotto a un letto di brace. Sopra sospese la carcassa di un agnellino
da latte non più grande di un pechinese, infilzato a uno spiedo di ferro che
l’uomo non smetteva mai di girare. Restava da capire perché il bestiame era
stato ricondotto nel recinto. Avevo il sospetto che, come nuova recluta, mi
avrebbero riservato i compiti meno desiderabili, perciò speravo che non si
trattasse della castrazione o, ancora peggio, dell’inseminazione artificiale.
No, mi dissero, dovevamo somministrargli certe medicine in modo che si
potessero portare a un mattatoio pubblico e la carne potesse essere venduta
legalmente. Sembrava una procedura medica innocua e pulita, ma quello che seguì
furono cinque ore di lavoro ripetitivo e disgustoso.
Uno degli uomini s’infilò tra le bestie con un lazo, ne scelse una,
l’afferrò con la corda e la tirò giù. Gli altri le si gettarono addosso e la
immobilizzarono. Una volta a terra, il bestiame ha gli stessi problemi di un
ubriaco a rimettersi in piedi, ed era relativamente facile per gli uomini
tenere ferma la vittima mentre le aprivano la mandibola, le affondavano in gola
una delle bottiglie di birra piene di medicinale e le stringevano le narici per
costringerla a inghiottire la sua dose di sostanze chimiche. Poi gli
attaccavano all’orecchio un’etichetta di plastica gialla e la lasciavano
tornare sulla collina e ruminare su questa incomprensibile sofferenza. L’intera
procedura durava tra i dieci e i quindici minuti, a seconda di quanto era riottoso
il paziente. Quelli più grandi lottavano con maggior energia. Il compito di
passare le bottiglie non era impegnativo e neppure particolarmente ambito,
perciò fu assegnato al sottoscritto.
Dovevo andare a prendere una bottiglia riempita con la soluzione chimica
del barile, tornare indietro attraverso la mandria sempre più terrorizzata,
inginocchiarmi sulla terra imbrattata di sterco accanto all’animale, aspettare
il momento giusto per inserirgli la bottiglia tra i denti e tenerlo ben stretto
fino a che non aveva ingoiato tutto. La bottiglia alla fine era coperta di
saliva pesante e densa come sperma, ma il lavoro non aveva niente di sensuale.
Gli altri mi guardavano con sorrisini un po’ sprezzanti, e io mi chiedevo se
questa simbolica fellatio bovina fosse un esempio di umorismo sardonico,
un’innocua umiliazione rituale, o uno spettacolo rozzo da
imporre allo straniero raffinato.
imporre allo straniero raffinato.
Un bravo ragazzo
Finito il lavoro, la tensione si allentò sensibilmente. Ero ancora accettato solo in quanto amico di Bruno, ma gli altri dimostravano finalmente di saper anche sorridere e addirittura farsi una risata. Pian piano mi resi conto che Bruno era rispettato ma era anche considerato un po’ strano, e forse temuto per questa ragione. “Complessato” fu il termine che usò qualcuno, intendendo più o meno svitato. Era un bravo ragazzo, ma anche “diverso”, con problemi personali e incline a sbalzi d’umore che potevano renderlo difficile. Era possibile, ovviamente, che questo fosse solo un linguaggio cifrato per dire “l’unico gay del paese”.
Finito il lavoro, la tensione si allentò sensibilmente. Ero ancora accettato solo in quanto amico di Bruno, ma gli altri dimostravano finalmente di saper anche sorridere e addirittura farsi una risata. Pian piano mi resi conto che Bruno era rispettato ma era anche considerato un po’ strano, e forse temuto per questa ragione. “Complessato” fu il termine che usò qualcuno, intendendo più o meno svitato. Era un bravo ragazzo, ma anche “diverso”, con problemi personali e incline a sbalzi d’umore che potevano renderlo difficile. Era possibile, ovviamente, che questo fosse solo un linguaggio cifrato per dire “l’unico gay del paese”.
Finalmente fu ora di mangiare. Il menù era minimalista perfino per gli
standard di cucina povera dei ristoranti economici di Hammersmith o Berkeley:
carne, pane e vino, la fame come unico condimento. Il vino era uno di quegli
inesorabili Cannonau rossi locali da 15 gradi, una sfida impegnativa come il
pane, duro da masticare, mentre l’agnello, che si era arrostito sulla brace per
tutto il giorno, era dolce, tenero e delicato, con uno squisito sapore di
grasso animale, un sapore ormai quasi dimenticato. Gli uomini lo mangiavano con
il coltello, aiutandosi con pezzi di pane intinto nel vino.
Quando furono sazi, si divisero in gruppi che s’intrecciavano in una serie
di intense discussioni sulle novità e i pettegolezzi dei rispettivi paesi e
dell’intera comunità, da cui naturalmente ero escluso. La sera scese
lentamente, accompagnata dal rumore di colpi di fucile a poca distanza. Eravamo
attaccati da un clan rivale in una specie di disputa territoriale? Sembrava
perfettamente plausibile. Mi avvicinai a uno degli uomini che si era messo a
ricaricare in macchina le attrezzature e gli chiesi cosa stava succedendo. “Si
danno alla grappa”, replicò con tono disgustato. Il rumore degli spari mi guidò
fino a un dirupo sopra il letto roccioso di un torrente dietro
la capanna.
la capanna.
Come aveva suggerito il mio informatore, la grappa circolava liberamente.
La cassetta di bottiglie vuote usate per dare il medicinale al bestiame era in
bella evidenza, e di tanto in tanto uno degli uomini lanciava in aria una
bottiglia mentre un altro cercava di centrarla con il fucile. La cosa andò
avanti per un po’ – ormai mi ero abituato al tempo locale, misurato in atti e
scene come a teatro, invece che in ore e minuti – finché gli uomini
cominciarono ad allontanarsi.
Era troppo buio per sparare verso il cielo, così Bruno suggerì che il
lanciatore si avvicinasse al fucile e tirasse il bersaglio in un arco più
basso, ma nessuno era disposto a fare quel gioco. Alla fine sistemò le
bottiglie ancora intere sopra la cassetta rovesciata e le mandò in frantumi con
colpi ad alzo zero, per puro sfregio.
Il ritorno
Il viaggio di ritorno in paese mi sembrò ancora più lungo che all’andata. Bruno parlò tutto il tempo, ogni frase piena di furia indiscriminata e rancore purulento. La sua vita era una merda. Tutte le loro vite erano merda. Le bestie con cui avevamo passato la giornata erano merda. Dovevano vagare così tanto per trovare un pascolo che erano sempre sotto peso e avevano una carne dura e fibrosa. L’unico motivo per cui lui e gli altri riuscivano a tirare avanti erano i sussidi di Bruxelles, ma ora gli avevano detto che l’Unione europea li avrebbe pagati ancora di più per smettere di allevare bestiame.
Il viaggio di ritorno in paese mi sembrò ancora più lungo che all’andata. Bruno parlò tutto il tempo, ogni frase piena di furia indiscriminata e rancore purulento. La sua vita era una merda. Tutte le loro vite erano merda. Le bestie con cui avevamo passato la giornata erano merda. Dovevano vagare così tanto per trovare un pascolo che erano sempre sotto peso e avevano una carne dura e fibrosa. L’unico motivo per cui lui e gli altri riuscivano a tirare avanti erano i sussidi di Bruxelles, ma ora gli avevano detto che l’Unione europea li avrebbe pagati ancora di più per smettere di allevare bestiame.
Che razza di insolenza burocratica si nascondeva dietro questo oltraggio?
Lui e i suoi amici erano uomini e avevano bisogno di lavorare. Non avrebbero
mai accettato di farsi mantenere come puttane.
Quasi fosse soffocato da una mole di affanni per cui la nostra seconda
lingua comune non aveva parole adeguate, frugò sul pavimento per cercare una cassetta,
la sbatté nella radio e lasciò parlare la musica. Era uno dei gruppi vocali
maschili che avevo sentito in tutta la regione durante le celebrazioni
pasquali: una voce di tenore solista che declamava versi struggenti, abbelliti
con melismi virtuosistici su un’aspra base ritmica di parole senza senso
intonate da tutti gli uomini a portata d’orecchio.
Questa tecnica musicale è sorprendentemente simileì ai vocalizzi di
accompagnamento senza testo nella prima polifonia medievale, ma sembra
incredibilmente più antica. Quando tornammo sulla strada asfaltata e apparvero
le prime luci, ero ormai disposto a credere che, se non era proprio il canto
delle sirene, era perlomeno qualcosa di molto simile. Borbottai a Bruno di
lasciarmi vicino alla pensione perché avevo bisogno di dormire un po’ prima di
prendere il pullman la mattina dopo, ma non mi diede ascolto: “È ancora presto.
Vieni a casa mia. Ti offro un po’ di quella buona”. Come molte delle case nuove
in paese, quella di Bruno somigliava alla villa di Rachel Whiteread alla
rovescia e con un tetto a terrazza di cemento grinzoso. L’interno sembrava
perennemente incompiuto e odorava d’intonaco umido. In cucina fui presentato
alla madre di Bruno, una minuscola
donna placida e avvizzita in gramaglie da vedova che non parlava una parola d’italiano.
donna placida e avvizzita in gramaglie da vedova che non parlava una parola d’italiano.
Quando la cerimonia fu degnamente conclusa, suo figlio e io ci trasferimmo
in un salotto con troppi mobili alla ricerca di “quella buona”. Mi rannicchiai
su un divano pacchiano e pretenzioso, sorpreso di trovarmi lì. L’italiano medio
tende a presentarvi alla sua amante piuttosto che a sua madre, e possono
volerci anni per ottenere un invito a casa sua. Se Bruno voleva passare ancora
un po’ di tempo insieme a me, avrebbe potuto invitarmi a un bar o nella
pizzeria dove c’eravamo conosciuti. Perché diavolo aveva insistito per
mostrarmi lo squallore semirispettabile in cui viveva, costretto a coabitare
con la madre in un cantiere affollato e soffocante? E poi, perché voleva la mia
compagnia?
Non ho mai trovato una risposta definitiva a queste domande, e il nostro
incontro era destinato a concludersi su una nota interrogativa. Mi raccontò che
aveva due fratelli che lavoravano “all’estero”, uno a Milano e l’altro a
Stoccarda, e una sorella sposata che viveva in un paese poco lontano. Quando
gli chiesi perché non se ne andava anche lui, rispose che doveva restare per
prendersi cura della madre, anche se di solito tocca alle figlie assumersi
questa responsabilità. Forse Bruno stava generosamente risparmiando alla
sorella questo compito, o più probabilmente lo usava come scusa per restare
dov’era: come i vitelloni di Fellini si sentiva stretto in un ambiente
provinciale che non osava lasciare, soffrendo l’asfissia parziale che è il
destino di un pesce diventato troppo grande per lo stagno in cui è nato.
Era mezzanotte passata quando ci salutammo. Bruno mi diede la cassetta che
avevamo ascoltato in macchina e poi, per la prima volta, si rivolse a me nella
sua lingua: “Amigu meu. Bai cun Deus”.
Il mattino dopo la banchina di Arbatax fu ravvivata da uno scambio di
battute tra due gruppi di soldati di leva, uno che ripartiva dopo aver fatto
servizio nell’isola e l’altro che era appena arrivato. “Vaffanculo stronzo
sfigato”, cantavano più o meno gli anziani. “Questo è il buco del culo del creato,
dove ti basta una capra per entrare in calore, ma niente da fare: è arrivato
prima il pastore!”. E subito arrivava la risposta, che diceva pressapoco: “Me
ne infischio, me ne frego, ho già preso tua sorella da dietro!”.
Tornato a casa, cercai una cassetta da mandare a Bruno in cambio di quella
che mi aveva regalato, e alla fine scelsi un album di musica per violino delle
Ebridi. Scrissi un bigliettino per ringraziarlo dell’ospitalità, accennando che
forse un giorno sarei tornato e invitandolo a tenerci in contatto, ma non ho
più avuto sue notizie. Solo più tardi mi è venuto in mente che forse era
analfabeta.
(Traduzione di Giuseppina Cavallo)
Questo articolo è uscito il 4 agosto 2006 nel numero
653 di Internazionale, a pagina 42. L’originale era uscito sul
Guardian, con il titolo An offer I couldn’t refuse.
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