lunedì 5 agosto 2019

Un’offerta da non rifiutare - Michael Dibdin



All’inizio sembrava un nemico, e anche potenzialmente pericoloso. C’eravamo incontrati sulle montagne del Gennargentu, nella parte orientale della Sardegna, una delle zone meno conosciute d’Italia, nota solo per la sua povertà e il brigantaggio endemico. Una volta le vittime dei sequestri di tutto il paese venivano portate qui e tenute prigioniere per mesi o addirittura anni, finché le trattative per la liberazione non erano concluse. Nonostante secoli di invasioni straniere, questo massiccio montuoso non è mai stato colonizzato per lunghi periodi, e conserva un sentimento di autonomia che ha permesso la sopravvivenza di tradizioni come le feste pasquali che ero andato a vedere. Teoricamente sono celebrazioni cristiane, ma è chiaro che hanno origini pagane molto più profonde e oscure.
Il tempo era sempre stato freddissimo, con scrosci di pioggia che si trasformava in neve; la gente era taciturna e sospettosa con gli estranei, gli alberghi non erano molto migliorati dagli anni venti, quando avevano provocato la rabbia impotente
di D.H. Lawrence. Dopo una decina di giorni già ne avevo abbastanza, ma il traghetto che doveva riportarmi sulla terraferma faceva scalo nel porto locale solo una volta a settimana, così decisi di passare il tempo che mancava alla partenza in un paese dove c’è un mercato, sepolto tra una distesa caotica di strutture di cemento lasciate a metà in attesa delle prossime rimesse dal Belgio o dalla Germania. Mi rassegnai all’unica pensione del posto. L’acqua c’era quando ne aveva voglia, il riscaldamento non funzionava affatto e la mia stanza riusciva a essere squallida e opprimente al tempo stesso: pochi mobili color sangue secco che si fronteggiavano con diffidenza su un lucido pavimento di lastroni, come pezzi avversari in una partita di scacchi.
Non c’erano ristoranti, ma il proprietario borbottò che forse c’era un locale aperto in fondo alla strada. La pioggia cadeva con una ferocia inclemente che sembrava voler suggerire cosa c’era da aspettarsi dagli abitanti del luogo.
Tutte le porte erano chiuse, tutte le serrande abbassate. La strada ripida e tortuosa si era trasformata in un torrente profondo parecchi centimetri, e i ciottoli spingevano verso l’alto zampilli d’acqua in cui per un attimo mi sembrò di vedere il dorso di una grossa trota. Osservando più da vicino scoprii che era un topo affogato, e senza dubbio dovevo somigliargli molto quando finalmente apparve l’insegna al neon di una pizzeria. Il giovane padrone non mi accolse con grande entusiasmo o calore, ma almeno dimostrò un po’ d’interesse imprenditoriale.
La maggior parte dei commercianti che avevo incontrato fino ad allora sembrava quasi scandalizzata quando volevo comprare qualcosa. E i miei deboli tentativi di farmi scusare, pagando il prezzo dovuto per la merce che intendevo sottrarre al negoziante, erano sempre stati trattati con disprezzo. Gli unici altri clienti della pizzeria erano dei ragazzi che mi ignorarono completamente (un vero sollievo in una regione dove ero guardato continuamente con un interesse intenso e fastidioso).
Il maschio dominante
La mia pizza era appena arrivata quando la porta si spalancò rumorosamente e tre uomini entrarono nel locale. Avevano una tenuta da banditi e una corporatura – bassa, larga e muscolosa – chiaramente abituata a sopportarne di tutti i colori. Il capo aveva una barba nera e modi decisamente bruschi, perfino per gli standard sardi. Puntò dritto al bancone e sparò con accento pesante un aspro florilegio di espressioni in sardu, una lingua romanza minore che sembra avere più elementi in comune con il latino e lo spagnolo che con l’italiano. La traduzione di “casa”, per esempio, è domu, plurale domos. Anche quando il modello è l’italiano, si tratta spesso di obsolete forme latineggianti come “cittade” invece di “città”, in sardo tzittade. Non avevo capito neanche una parola, ma la situazione era piuttosto chiara. I nuovi venuti non erano il genere di clientela che il padrone si augurava di avere nel locale, ma non poteva farci niente perché aveva paura.
Senza chiedere permesso né essere invitato, il capo dei tre passò dietro il bancone e versò tre boccali di birra alla spina. Poi si fece strada, tallonato dagli altri due, proprio verso il tavolo accanto al mio. Visto che il locale era quasi vuoto, la cosa sembrava un po’ forzata, ma forse erano clienti abituali e quello era il tavolo dove sedevano sempre. Continuai a mangiare, ma a un certo punto i miei vicini si zittirono. Fino a quel momento avevano chiacchierato in modo rumoroso e insistente, uno show intenso e appassionato del maschio dominante, intervallato da brevi antifone dei suoi compagni.
Il contenuto restava un mistero, ma la forma era fin troppo familiare: il capo che dimostrava il suo potere forando spietatamente i timpani a tutti, e gli altri che mostravano ubbidienza fingendo di ascoltare. Ora il parlottio era terminato. Fu solo per pigra curiosità che mi guardai intorno, e trovai lo spaccone che mi fissava con palese antipatia.
“Polizia o carabinieri?”. Senza afferrare il senso, detti per scontato che fosse ubriaco e mi girai. “Polizia o carabinieri?”, ripeté con un tono ancora più feroce. Lanciai un’occhiata al padrone in cerca d’aiuto, ma sembrava tutto assorto ad ammucchiare i bicchieri. Allora capii a cosa puntava il mio antagonista. Durante quel soggiorno in Sardegna non avevo incontrato visitatori casuali. Non ce n’erano, non in quella zona e in quel periodo dell’anno. E allora che ci facevo io là, un maschio adulto sconosciuto che viaggiava da solo nel territorio delle bande di sequestratori? La risposta era evidente, e un agente non avrebbe avuto difficoltà a procurarsi una falsa identità con un nome straniero. Ero tentato di rispondere a quell’uomo di farsi i fatti suoi, ma lo sguardo fisso, plumbeo dei suoi compagni mi ricordava che c’era molta strada fino alla pensione, che le vie erano deserte e le possibilità di spiacevoli incidenti infinite.
“Souno un tiuriizta ingleize”, risposi.
Avevo preso in prestito l’accento di un diplomatico britannico che aveva passato più di vent’anni in Italia ma evidentemente considerava qualunque tentativo di pronunciarne correttamente la lingua come un primo passo sulla scivolosa china della trasformazione in aborigeno. Poi mostrai la mia patente britannica. Mostrare i documenti è una caratteristica fondamentale della vita italiana da tanto di quel tempo che ha un effetto quasi ipnotico perfino sui malviventi. L’uomo esaminò il documento – incomprensibile, ma sicuramente ufficiale – molto più a lungo di quanto ci sarebbe voluto per leggerlo davvero, e con un’espressione di disagio crescente. Non solo aveva fatto la figura dell’idiota scambiando un turista per un agente in incognito, ma aveva violato la legge fondamentale della sua stessa cultura insultando e implicitamente minacciando un innocuo viaggiatore. Tuttavia non fece nessun tentativo di scusarsi.
“Venga a sedersi qui”. Fece un gesto verso la sedia vuota all’altro tavolo. Avrei preferito pagare e filarmela a letto, ma sembrava scortese rifiutare quel tentativo di riparazione. L’uomo urlò qualcosa al padrone, che portò una bottiglia senza etichetta e quattro bicchierini. Il mio ospite li riempì, me ne passò uno e si scolò subito il suo. Io sorseggiai il mio: era grappa fatta in casa, robusta, di una distilleria illegale. Avevo già notato che uno dei modi in cui i sardi si distinguevano dagli altri italiani era nelle loro usanze conviviali. L’uomo si riempì di nuovo il bicchiere, poi mi tese la mano.
“Bruno”. “Michele”. Mi maciullò le dita per un istante. “Che ci fa in questo buco sperduto?”, mi chiese. “Avevo bisogno di una vacanza”. Tutti e tre gli uomini ridacchiarono, ma lo sguardo di Bruno non vacillò. Mi resi conto che il mio status era ancora indefinito, e cominciai a prestare più attenzione a chi mi stava interrogando. Aveva l’aria di aver superato la trentina, era ancora energico e in forma, ma senza la giovane esuberanza degli altri due, mentre gli occhi avevano la cauta perspicacia di un uomo tutt’altro che sciocco, il cui sviluppo intellettuale è stato frenato dalle circostanze.
“Una vacanza da cosa?”.
“Dal lavoro”.
“Che genere di lavoro?”.
“Insegno”.
“Dove?”.
“All’università di Perugia”.
Lo sguardo attento di Bruno si irrigidì immediatamente. Mi aveva beccato: “Allora lei è italiano dopotutto!”.
Ci misi un po’ a convincerlo che gli stranieri qualche volta erano assunti dalle università italiane, soprattutto se si trattava d’insegnare le lingue. Perfino quando ammise questa possibilità, fu solo con una riserva per salvare la faccia. “Ma… Perugia!”, sospirò, come se si trattasse di Pamplona o di Praga. Poi si lanciò in un’appassionata e lunga arringa sulle difficoltà economiche e politiche della Sardegna. Il succo era quello ben noto a chiunque abbia mai ascoltato le lamentele dei contadini gallesi, dei pescatori di Terranova o di qualsiasi altra comunità che si sente isolata e indifesa contro le forze che controllano la sua vita.
Ma io volevo tornare a letto senza essere malmenato, perciò mi sforzai di sembrare interessato. Le cose andavano così male in tutta l’isola? Bruno mimò un disgusto totale. Dappertutto eccetto che a Cagliari. Era lì che arrivavano i finanziamenti statali, e le luride merde dell’amministrazione regionale facevano in modo che ci restassero. Alla gente di qui promettevano da sempre aiuti e sviluppo, ma non succedeva mai niente e se succedeva i soldi finivano sempre nelle tasche di qualche magnate dell’edilizia.
Ormai avevamo quasi finito la bottiglia di grappa. “Ma certa gente da queste parti se la cava bene”, commentò Bruno confidenzialmente. “Davvero bene! No estberus, cumpanzos? Lavorano sulle montagne, proprio come noi, ma non guardano il bestiame. E diventano ricchissimi, molto in fretta”. Scoppiò in una risata rauca, poi restò immobile e muto come un serpente e mi scrutò. “E cosa sorvegliano allora?”, azzardai. “Persone?”. Bruno lanciò un’occhiata ai suoi compagni.
“Il professore non si perde una battuta, vero?”. Calò di nuovo il silenzio. Lo ruppi con una di quelle osservazioni che ti fanno capire quanto sei ubriaco: “E voi conoscete questa gente?”. Ora i tre mi stavano dedicando tutta la loro attenzione. Il capo soppesò per qualche istante la risposta. Alla fine alzò le spalle: “Tutti conoscono tutti da queste parti”. Feci un gesto al padrone per chiedere il conto, ma
Bruno lo allontanò con un cenno. Era già tutto fatto, disse: ero suo ospite. Non avevo molta voglia di essere in debito con Bruno, ma era inutile discutere.
“Allora, cosa fa domani?”, mi chiese.
“Niente”.
“Noi andiamo in montagna. Venga con noi”. Come quando mi aveva chiamato al suo tavolo, era più un ordine che un invito. Annuii vagamente. “Passo a prenderla alle sei”, disse andandosene.
Tornato alla pensione, mi sdraiai sul letto ghiacciato con i vestiti addosso. Fuori, una pioggia mista a nevischio tagliava il cono di luce del lampione sotto la finestra. Volevo dormire fino a tardi e passare la giornata a leggere. Quanto all’invito di Bruno, era sicuramente una di quelle mattate da ubriaco che al mattino sarebbero svanite come la neve.
Sulle montagne
A quell’epoca gli alberghetti di tutto il Mediterraneo sembravano andare a fuoco ogni paio di settimane, perciò quando l’allarme antincendio si mise a suonare nel cuore della notte mi alzai di scatto. Ma appena fui completamente sveglio mi resi conto che il baccano veniva da fuori. La neve si era sciolta davvero, ma una Land Rover rossa incrostata di fango era parcheggiata in mezzo alla strada con il motore acceso, e un uomo in piedi accanto allo sportello aperto del guidatore suonava il clacson a intervalli regolari.
Bruno doveva aver già svegliato tutti nella zona, perciò avrebbe anche potuto urlare un saluto, ma si limitò a fare un gesto con il pollice in direzione del veicolo, montò a bordo e diede gas. Mi trascinai giù per le scale e lo raggiunsi, senza avere il fegato di tirarmi indietro. Bruno aveva gli stessi vestiti del giorno prima, ma anche un coltello con il manico di gomma legato alla cintura e due cartucciere incrociate sul petto largo. La doppietta era appoggiata sul sedile accanto al suo. Per completare la caricatura di un bandito messicano gli mancavano solo il sigaro e il sombrero, ma non aveva l’aria di una caricatura. Dava l’impressione di abitare in un universo privo dell’idea stessa di commedia.
Rombando attraverso il paese addormentato sbucammo su una stradina bianca che si avvolgeva su per la montagna nell’oscurità più completa. “Una Land Rover!”, dissi con entusiasmo. “Produzione inglese!”. Sono le migliori, convenne Bruno, ma il costo dei pezzi di ricambio ti ammazza. Svoltò su una strada di terra battuta ancora più ripida e coperta di neve, fermandosi per ingranare le quattro ruote motrici, poi continuò a marce basse attraverso una landa desolata squarciata da spuntoni di roccia. “Ti ammazza”. Pensai che Bruno avrebbe potuto uccidermi e farla franca in tutta tranquillità. Nessuno ci aveva visti partire, e nessuno – io meno di tutti –
sapeva dove eravamo diretti. Per di più Bruno aveva ammesso di conoscere dei sequestratori e, anche se non valevo granché dal punto di vista professionale, ero arrivato come un dono del cielo.
Sapevo che quando i tempi erano duri le bande si accontentavano di bersagli facili, che cedevano a prezzi scontati per pagare le bollette. Farmacisti e tabaccai erano i più gettonati, ma anche i professori universitari potevano andare. A parte il disagio di essere tenuto in ceppi per mesi in una grotta, avevo la sgradevole sensazione che la risposta dei miei genitori e della mia ex moglie a qualsiasi richiesta di riscatto potesse suonare come “Tenetevi pure quel bastardo!”. Quando finalmente cominciò ad albeggiare dovevamo essere saliti a più di mille metri. C’era meno neve e quella che c’era apparteneva al tipo asciutto, polveroso, perciò guidare fu più facile anche se non c’erano segni di una strada. Superammo una collina, poi scendemmo il ripido pendio dall’altra parte fino a una valle chiusa dove pascolava del bestiame pelle e ossa. In fondo c’era n cerchio di mura di pietra e una capanna senza finestre. Bruno si avvicinò alle costruzioni e scendemmo dalla macchina. Il freddo era feroce e il silenzio assoluto. Bruno entrò nella capanna e io lo seguii. L’interno puzzava di pecora. C’era un rozzo focolare con della cenere e dei pezzi di legno carbonizzati, ma senza canna fumaria. In alto, alcune pelli di pecora erano appese a seccare su dei bastoni. Bruno si avvicinò a una mensola in fondo alla capanna e prese una bottiglia di grappa fatta in casa e due bicchieri. Li riempì e me ne allungò uno senza dire una parola. Avevo dormito sì e no cinque ore dopo una giornata lunghissima, non avevo ancora mangiato o bevuto niente ed ero più convinto che mai di dipendere dalla cortesia di questo sconosciuto. Così bevvi la grappa. “E adesso che facciamo?”.
Bruno si era accovacciato nella cenere sul bordo del focolare e fissava il pascolo attraverso la porta aperta, arrotolandosi una sigaretta. “Aspettiamo”. Passammo quaranta minuti senza scambiarci una parola. Bruno era a suo agio nel silenzio, ma per il resto era tutt’altro che sereno, irradiava un’agitazione interiore che trovavo estremamente inquietante. Non capivo se il suo stato dipendeva dalla situazione o se era una condizione cronica dovuta a problemi dell’infanzia, a uno squilibrio ormonale o semplicemente ai postumi della sbornia. Domande bizzarre, date le circostanze. In quel capanno, in quel momento, era più sensato considerare Bruno come uno di quei personaggi mitici che sono semplicemente irrequieti, arrabbiati, orgogliosi o vendicativi per natura, uno scoglio nel mare degli avvenimenti, intorno a cui gli altri devono navigare.
A qualunque cosa pensasse, l’udito di Bruno era infallibile. Il silenzio che era durato così a lungo doveva essere già stato violato quando annunciò: “Arrivano”. Ma per almeno un altro minuto non mi accorsi del rumore che veniva da lontano. Uscimmo all’aperto, dove Bruno tirò fuori un piccolo binocolo da una tasca della giacca a vento e sorvegliò un convoglio di sette fuoristrada che scendevano dalla collina in fila indiana. Qualche minuto dopo si avvicinarono a coppie tra il capanno e il recinto di pietra, e i passeggeri scesero e si diressero verso di noi. Erano più o meno una decina. Devono essere i sequestratori, pensai, e questa è la consegna.
L’uomo che camminava in testa salutò Bruno con un cenno del capo, poi si voltò e mi osservò con uno sguardo lontano e indifferente, come si valuta un capo di bestiame. Quando parlò fu ovviamente in sardo, ma la domanda era abbastanza scontata ed esplicita perché anch’io potessi capirla: “Chi è questo?”. Bruno disse solo due parole: “N’amigu”. L’altro fece di nuovo un cenno con la testa. Ero un amico, Bruno non diede altre spiegazioni e non gli fecero altre domande. Gli uomini cominciarono a scaricare il materiale che avevano portato: rotoli di corda, bidoni con nomi chimici stampati sopra, ceste di cibo, una tanica di vino e, misteriosamente, una cassetta di bottiglie di birra vuote.
Sembrava che lo scopo dell’incontro fosse quello di radunare gli animali che pascolavano sui fianchi della collina e imbrancarli nel recinto di pietra, e si aspettavano che io facessi la mia parte di lavoro. Avevo sempre immaginato che il bestiame si radunasse a cavallo o con biciclette e cani addestrati, ma noi andammo a cercarlo a piedi, correndo selvaggiamente in tutte le direzioni, agitando le braccia e urlando da far paura, come i bambini ad Halloween. Questo spinse gli animali a correre più veloce ed era difficile stargli dietro, soprattutto su un pendio di 45 gradi. Ci vollero due ore abbondanti per portarli nel recinto.
Poi ci fu una pausa mentre si facevano preparativi per la seconda fase dell’operazione. Intanto, nella capanna, un uomo che si era slogato una caviglia e non poteva partecipare al lavoro principale aveva acceso il fuoco e lo aveva ridotto a un letto di brace. Sopra sospese la carcassa di un agnellino da latte non più grande di un pechinese, infilzato a uno spiedo di ferro che l’uomo non smetteva mai di girare. Restava da capire perché il bestiame era stato ricondotto nel recinto. Avevo il sospetto che, come nuova recluta, mi avrebbero riservato i compiti meno desiderabili, perciò speravo che non si trattasse della castrazione o, ancora peggio, dell’inseminazione artificiale. No, mi dissero, dovevamo somministrargli certe medicine in modo che si potessero portare a un mattatoio pubblico e la carne potesse essere venduta legalmente. Sembrava una procedura medica innocua e pulita, ma quello che seguì furono cinque ore di lavoro ripetitivo e disgustoso.
Uno degli uomini s’infilò tra le bestie con un lazo, ne scelse una, l’afferrò con la corda e la tirò giù. Gli altri le si gettarono addosso e la immobilizzarono. Una volta a terra, il bestiame ha gli stessi problemi di un ubriaco a rimettersi in piedi, ed era relativamente facile per gli uomini tenere ferma la vittima mentre le aprivano la mandibola, le affondavano in gola una delle bottiglie di birra piene di medicinale e le stringevano le narici per costringerla a inghiottire la sua dose di sostanze chimiche. Poi gli attaccavano all’orecchio un’etichetta di plastica gialla e la lasciavano tornare sulla collina e ruminare su questa incomprensibile sofferenza. L’intera procedura durava tra i dieci e i quindici minuti, a seconda di quanto era riottoso il paziente. Quelli più grandi lottavano con maggior energia. Il compito di passare le bottiglie non era impegnativo e neppure particolarmente ambito, perciò fu assegnato al sottoscritto.
Dovevo andare a prendere una bottiglia riempita con la soluzione chimica del barile, tornare indietro attraverso la mandria sempre più terrorizzata, inginocchiarmi sulla terra imbrattata di sterco accanto all’animale, aspettare il momento giusto per inserirgli la bottiglia tra i denti e tenerlo ben stretto fino a che non aveva ingoiato tutto. La bottiglia alla fine era coperta di saliva pesante e densa come sperma, ma il lavoro non aveva niente di sensuale. Gli altri mi guardavano con sorrisini un po’ sprezzanti, e io mi chiedevo se questa simbolica fellatio bovina fosse un esempio di umorismo sardonico, un’innocua umiliazione rituale, o uno spettacolo rozzo da
imporre allo straniero raffinato.
Un bravo ragazzo
Finito il lavoro, la tensione si allentò sensibilmente. Ero ancora accettato solo in quanto amico di Bruno, ma gli altri dimostravano finalmente di saper anche sorridere e addirittura farsi una risata. Pian piano mi resi conto che Bruno era rispettato ma era anche considerato un po’ strano, e forse temuto per questa ragione. “Complessato” fu il termine che usò qualcuno, intendendo più o meno svitato. Era un bravo ragazzo, ma anche “diverso”, con problemi personali e incline a sbalzi d’umore che potevano renderlo difficile. Era possibile, ovviamente, che questo fosse solo un linguaggio cifrato per dire “l’unico gay del paese”.
Finalmente fu ora di mangiare. Il menù era minimalista perfino per gli standard di cucina povera dei ristoranti economici di Hammersmith o Berkeley: carne, pane e vino, la fame come unico condimento. Il vino era uno di quegli inesorabili Cannonau rossi locali da 15 gradi, una sfida impegnativa come il pane, duro da masticare, mentre l’agnello, che si era arrostito sulla brace per tutto il giorno, era dolce, tenero e delicato, con uno squisito sapore di grasso animale, un sapore ormai quasi dimenticato. Gli uomini lo mangiavano con il coltello, aiutandosi con pezzi di pane intinto nel vino.
Quando furono sazi, si divisero in gruppi che s’intrecciavano in una serie di intense discussioni sulle novità e i pettegolezzi dei rispettivi paesi e dell’intera comunità, da cui naturalmente ero escluso. La sera scese lentamente, accompagnata dal rumore di colpi di fucile a poca distanza. Eravamo attaccati da un clan rivale in una specie di disputa territoriale? Sembrava perfettamente plausibile. Mi avvicinai a uno degli uomini che si era messo a ricaricare in macchina le attrezzature e gli chiesi cosa stava succedendo. “Si danno alla grappa”, replicò con tono disgustato. Il rumore degli spari mi guidò fino a un dirupo sopra il letto roccioso di un torrente dietro
la capanna.
Come aveva suggerito il mio informatore, la grappa circolava liberamente. La cassetta di bottiglie vuote usate per dare il medicinale al bestiame era in bella evidenza, e di tanto in tanto uno degli uomini lanciava in aria una bottiglia mentre un altro cercava di centrarla con il fucile. La cosa andò avanti per un po’ – ormai mi ero abituato al tempo locale, misurato in atti e scene come a teatro, invece che in ore e minuti – finché gli uomini cominciarono ad allontanarsi.
Era troppo buio per sparare verso il cielo, così Bruno suggerì che il lanciatore si avvicinasse al fucile e tirasse il bersaglio in un arco più basso, ma nessuno era disposto a fare quel gioco. Alla fine sistemò le bottiglie ancora intere sopra la cassetta rovesciata e le mandò in frantumi con colpi ad alzo zero, per puro sfregio.
Il ritorno
Il viaggio di ritorno in paese mi sembrò ancora più lungo che all’andata. Bruno parlò tutto il tempo, ogni frase piena di furia indiscriminata e rancore purulento. La sua vita era una merda. Tutte le loro vite erano merda. Le bestie con cui avevamo passato la giornata erano merda. Dovevano vagare così tanto per trovare un pascolo che erano sempre sotto peso e avevano una carne dura e fibrosa. L’unico motivo per cui lui e gli altri riuscivano a tirare avanti erano i sussidi di Bruxelles, ma ora gli avevano detto che l’Unione europea li avrebbe pagati ancora di più per smettere di allevare bestiame.
Che razza di insolenza burocratica si nascondeva dietro questo oltraggio? Lui e i suoi amici erano uomini e avevano bisogno di lavorare. Non avrebbero mai accettato di farsi mantenere come puttane.
Quasi fosse soffocato da una mole di affanni per cui la nostra seconda lingua comune non aveva parole adeguate, frugò sul pavimento per cercare una cassetta, la sbatté nella radio e lasciò parlare la musica. Era uno dei gruppi vocali maschili che avevo sentito in tutta la regione durante le celebrazioni pasquali: una voce di tenore solista che declamava versi struggenti, abbelliti con melismi virtuosistici su un’aspra base ritmica di parole senza senso intonate da tutti gli uomini a portata d’orecchio.
Questa tecnica musicale è sorprendentemente simileì ai vocalizzi di accompagnamento senza testo nella prima polifonia medievale, ma sembra incredibilmente più antica. Quando tornammo sulla strada asfaltata e apparvero le prime luci, ero ormai disposto a credere che, se non era proprio il canto delle sirene, era perlomeno qualcosa di molto simile. Borbottai a Bruno di lasciarmi vicino alla pensione perché avevo bisogno di dormire un po’ prima di prendere il pullman la mattina dopo, ma non mi diede ascolto: “È ancora presto. Vieni a casa mia. Ti offro un po’ di quella buona”. Come molte delle case nuove in paese, quella di Bruno somigliava alla villa di Rachel Whiteread alla rovescia e con un tetto a terrazza di cemento grinzoso. L’interno sembrava perennemente incompiuto e odorava d’intonaco umido. In cucina fui presentato alla madre di Bruno, una minuscola
donna placida e avvizzita in gramaglie da vedova che non parlava una parola d’italiano.
Quando la cerimonia fu degnamente conclusa, suo figlio e io ci trasferimmo in un salotto con troppi mobili alla ricerca di “quella buona”. Mi rannicchiai su un divano pacchiano e pretenzioso, sorpreso di trovarmi lì. L’italiano medio tende a presentarvi alla sua amante piuttosto che a sua madre, e possono volerci anni per ottenere un invito a casa sua. Se Bruno voleva passare ancora un po’ di tempo insieme a me, avrebbe potuto invitarmi a un bar o nella pizzeria dove c’eravamo conosciuti. Perché diavolo aveva insistito per mostrarmi lo squallore semirispettabile in cui viveva, costretto a coabitare con la madre in un cantiere affollato e soffocante? E poi, perché voleva la mia compagnia?
Non ho mai trovato una risposta definitiva a queste domande, e il nostro incontro era destinato a concludersi su una nota interrogativa. Mi raccontò che aveva due fratelli che lavoravano “all’estero”, uno a Milano e l’altro a Stoccarda, e una sorella sposata che viveva in un paese poco lontano. Quando gli chiesi perché non se ne andava anche lui, rispose che doveva restare per prendersi cura della madre, anche se di solito tocca alle figlie assumersi questa responsabilità. Forse Bruno stava generosamente risparmiando alla sorella questo compito, o più probabilmente lo usava come scusa per restare dov’era: come i vitelloni di Fellini si sentiva stretto in un ambiente provinciale che non osava lasciare, soffrendo l’asfissia parziale che è il destino di un pesce diventato troppo grande per lo stagno in cui è nato.
Era mezzanotte passata quando ci salutammo. Bruno mi diede la cassetta che avevamo ascoltato in macchina e poi, per la prima volta, si rivolse a me nella sua lingua: “Amigu meu. Bai cun Deus”.
Il mattino dopo la banchina di Arbatax fu ravvivata da uno scambio di battute tra due gruppi di soldati di leva, uno che ripartiva dopo aver fatto servizio nell’isola e l’altro che era appena arrivato. “Vaffanculo stronzo sfigato”, cantavano più o meno gli anziani. “Questo è il buco del culo del creato, dove ti basta una capra per entrare in calore, ma niente da fare: è arrivato prima il pastore!”. E subito arrivava la risposta, che diceva pressapoco: “Me ne infischio, me ne frego, ho già preso tua sorella da dietro!”.
Tornato a casa, cercai una cassetta da mandare a Bruno in cambio di quella che mi aveva regalato, e alla fine scelsi un album di musica per violino delle Ebridi. Scrissi un bigliettino per ringraziarlo dell’ospitalità, accennando che forse un giorno sarei tornato e invitandolo a tenerci in contatto, ma non ho più avuto sue notizie. Solo più tardi mi è venuto in mente che forse era analfabeta.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)
Questo articolo è uscito il 4 agosto 2006 nel numero 653 di Internazionale, a pagina 42. L’originale era uscito sul Guardian, con il titolo An offer I couldn’t refuse.

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