sabato 31 agosto 2019

Un villaggio inghiottito dal carbone in Mozambico. E una campagna per “il diritto a dire di no” - Marina Forti



Il carbone ha cambiato in modo drastico la vita di Moatize, distretto rurale nella valle del fiume Zambesi, nel Mozambico settentrionale. La miniera infatti ha costretto migliaia di persone a lasciare tutto e andarsene. Duzeria, una degli sfollati, ricorda: «Il governo ha detto che non potevamo restare là perché eravamo seduti su una montagna di soldi».
Al posto delle vecchie case infatti ora c’è una gigantesca miniera a cielo aperto, una delle più grandi al mondo. Il Moatize Coal Project è un buon esempio di cosa significa “economia estrattiva”, almeno per chi ci vive accanto. Il sito è in concessione alla Vale Moçambique, sussidiaria del gruppo brasiliano Vale SA, e occupa 23 mila ettari di territorio. Nel 2008 la compagnia ha cominciato a costruire gli impianti; nel 2011 ha avviato l’estrazione. È allora che, per fare spazio alla miniera, oltre 1.300 famiglie sono state trasferite 36 chilometri più lontano. La compagnia aveva promesso risarcimenti, 2 ettari di terra per famiglia e aiuti alimentari per i primi anni, dice Duzeria. Ma nel nuovo villaggio gli sfollati hanno trovato solo file di case sulla terra polverosa: «Erano già piene di crepe, perché non hanno le fondamenta».
Non che la vita prima fosse florida nei villaggi di Moatize. La comunità viveva di agricoltura e pesca in una economia di sussistenza: ma poteva vendere i prodotti al mercato del capoluogo, il più grande dei dintorni, ed era vicino all’ufficio postale, la scuola, il fiume. La nuova sistemazione invece è isolata, la terra inadatta all’agricoltura, il fiume non c’è, il mercato è lontano. Gli oleiros, fabbricanti di mattoni di argilla, hanno perso la materia prima e quindi la loro attività.
«Le prime volte che abbiamo visitato la comunità sfollata, la polizia impediva perfino l’ingresso agli estranei», spiega Erika Mendes, attivista di Justiça ambiental, gruppo mozambicano affiliato alla coalizione internazionale Friends of the Earth. In seguito la compagnia ha offerto di ridipingere le case e mettere tetti di zinco. Ci sono state proteste, represse duramente. Il governo ha offerto aiuti per ricostruire: «Ci hanno dato 300 meticais [circa 12 dollari] per stanza», continua Duzeria: «Ma non bastano, solo trasportare la sabbia e i mattoni fino al nuovo villaggio costa di più».
La miniera intanto è cresciuta: al primo scavo se n’è aggiunto un secondo, ancora più grande. La miniera impiega oltre 11 mila persone. La produzione è salita a 25mila tonnellate al giorno. Una miniera a cielo aperto è un grande buco in cui lavorano ruspe, uomini, nastri trasportatori, via vai di camion; intorno crescono montagne di carbone che poi verrà caricato su convogli di treni, la polvere nera vola ovunque.
«Non ci avevano detto che avrebbero dato a Vale la terra agricola migliore», aggiunge Fatima, che viene da uno dei villaggi di Moatize rimasti accanto alla miniera, in attesa forse di essere risistemati più lontano. Spiega che le esplosioni di dinamite fanno tremare le loro case col rischio di crollare; che la sua comunità respira polvere di carbone; che «non possiamo più usare la strada e non sappiamo come andare a raccogliere la legna».
Così, quando la compagnia ha fatto preparativi per aprire una terza miniera accanto alle prime due, la protesta è riesplosa. Il 4 ottobre scorso gli abitanti di Bagamoyo, villaggio adiacente agli scavi, hanno invaso la miniera bloccando il lavoro (ma senza danneggiare i macchinari, precisa Fatima). L’invasione si è ripetute in novembre; gli abitanti hanno bloccato la ferrovia per impedire il passaggio dei convogli di carbone. La polizia ha risposto con lacrimogeni, proiettili di gomma e anche veri. Ci sono stati parecchi feriti. La compagnia ha dovuto in parte sospendere le attività. Nel tentativo di far rientrare le proteste, i dirigenti della compagnia hanno promesso di annaffiare il carbone nei depositi perché voli meno polvere, o di aggiustare le case. Ma ormai agli abitanti non basta. «Invece di difenderci, il governo manda la polizia a picchiarci», dice Fatima. «La compagnia parla solo con il governo, dice che ha già versato i risarcimenti: ma noi non vediamo nulla. Basta, vogliamo che la compagnia tratti direttamente con noi». L’estrazione è ripresa solo alla fine di novembre, dopo la visita a Moatize di una commissione parlamentare, che ha riconosciuto le ragioni degli abitanti. Ma una soluzione resta lontana.
L’occasione per incontrare Duzeria, Fatima e alcune attiviste per la giustizia ambientale in Mozambico sono due eventi tenuti a novembre a Johannesburg, in Sudafrica: una sessione del Tribunale internazionale per i diritti dei popoli sul potere delle compagnie multinazionali, terzo e ultimo atto di una serie sull’industria estrattiva nella regione dell’Africa meridionale, e un “Social forum tematico” sulle miniere e l’industria estrattiva – a cui hanno partecipato centinaia di delegati venuti dall’Africa, dalle Americhe e dall’Asia: rappresentanti di movimenti popolari, organizzazioni per la giustizia ambientale, sindacati rurali, chiese, rappresentanti di popoli indigeni.
Il caso della miniera di carbone di Vale Moçambique infatti non è isolato. L’Africa meridionale è disseminata di conflitti: comunità sfollate per fare posto a progetti minerari, abitanti in rivolta. Spesso le forze di sicurezza rispondono con violenza.
«Assistiamo a una nuova corsa ad accaparrarsi le risorse dell’Africa, accompagnata da ogni sorta di violazione dei diritti fondamentali», osserva Brian Ashley, direttore del Alternative Information and Development Centre (Aidc, una delle forze sociali sudafricane che ha organizzato il Social Forum). In questa corsa sono lanciate compagnie minerarie occidentali (Europa e Usa restano complessivamente i primi investitori in Africa), ma ormai anche cinesi, brasiliane, indiane, o sudafricane: i Brics, i paesi definiti “emergenti”. In questa competizione, gli stati fanno a gara a offrire le condizioni migliori alle compagnie minerarie, mentre i costi sociali sono scaricati sulle comunità, continua Ashley: «Gli stati africani badano più proteggere gli investimenti che a garantire i diritti dei cittadini»
Una campagna globale per “il diritto di dire di no” a miniere e progetti di estrazione delle risorse naturali è stata lanciata a conclusione del “Social forum tematico” sulle miniere e l’economia estrattiva. Nella dichiarazione finale il Forum parla di “un sistematico attacco” ai  territori che, “attraverso l’espulsione dalla terra e la dislocazione forzata, la deforestazione, l’inquinamento e la contaminazione delle risorse idriche, minaccia di distruggere la vita delle comunità locali”. La campagna per “il diritto a dire di no” è uno strumento per collegare e rafforzare movimenti sociali dove esistono, e per rivendicare che le legislazioni nazionali e i trattati internazionali riconoscano alle comunità direttamente coinvolte da miniere e grandi opere il diritto a scegliere modelli diversi di sviluppo, e impongano limiti al potere delle grandi aziende multinazionali. Per questo il Forum sostiene anche la campagna perché le Nazioni unite approvino un Trattato su “Business e diritti umani”, che detti norme di condotta vincolanti alle imprese multinazionali.

(questo articolo è uscito in versione più ampia su Altreconomia del dicembre 2018)


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