Prima di tutto i poveri è lo slogan più popolare del nuovo governo
(messicano, ndr). Rispecchia una posizione etica e politica molto
apprezzata e riconosciuta, valida specialmente in circostanze come quelle
attuali. Perfino il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, la
fabbrica dei poveri che anche l’attuale presidente aveva denunziato, ha sottolineato da poco l’importanza di correggere il
percorso del capitalismo, date le disuguaglianze sempre
eccessive, anche se le percentuali della povertà si sono ridotte in tutto il
mondo a partire dal 1980.
La povertà si presenta come una condizione che esiste realmente. Vi sono istituzioni
che la misurano, accademici che dedicano la loro vita a studiarla e governi e
istituzioni che si prefiggono di porvi termine, o almeno di ridurla. Viene
associata a una serie di carenze: si definiscono poveri coloro a cui
mancano certi beni o servizi.
La povertà, pertanto, è un puro confronto soggettivo che squalifica coloro
che vivono al di sotto di un livello di vita definito arbitrariamente.
Per un certo tempo si è impiegato il livello delle entrate come modello:erano povere quelle
persone e quelle nazioni che non possedevano quello che veniva
considerato il minimo accettabile. Il livello di riferimento è andato
cambiando e oggi è collegato a un pacchetto di beni e servizi che si
presume definisca la condizione minima di un cittadino normale. Chi non ha
accesso ad essi verrà considerato povero.
Con le guerre contro la povertà, i governi hanno cercato di attenuare
l’instabilità sociale e consolidare lo sviluppo capitalista.
Nell’epoca neoliberista, la Banca Mondiale progettò programmi che
‘individualizzarono’ i poveri, frammentando le loro comunità e le loro
aggregazioni e trascinandoli nel consumo grazie a trasferimenti
finanziari diretti che ampliarono i mercati interni. Questi programmi vennero
adottati con entusiasmo sia da governi progressisti, come quello di Luiz
Inácio Lulada Silva, sia da governi conservatori. Ma mai operarono
contro i ricchi né contro la struttura della disuguaglianza.
In Messico vennero adottati fin dai tempi di Carlos Salinas [presidente del
paese dal 1988/1994 – ndt], che usò parte delle risorse derivate dalle
privatizzazioni in modo clientelare. Così vengono usate ancora oggi.
I cambiamenti introdotti dalla nuova amministrazione cercano di eliminare
la corruzione nella concessione degli aiuti e promuovono ulteriormente il
principio dell’individualizzazione dei trasferimenti,come nel noto caso dei
locali di ritrovo. Questo può provocare, come ho già denunciato in queste
pagine, “la repentina prosperità di bar e locali notturni dove si pratica
la table dance
[letteralmente il ‘ballo sul tavolo’, esibizione spesso associata allo
sfruttamento sessuale, ndt]
e la vendita massiccia di cellulari” [si veda l’articolo pubblicato
dall’autore su La Jornada lo scorso 20 maggio – ndt].
Le guerre contro la povertà non hanno mai affrontato le radici di quello
che promettono di fare e aggravano il problema invece di risolverlo. La situazione di
miseria a cui condannano molte e molti, la povertà modernizzata in cui si
trovano coloro che sono stati privati delle loro capacità di sostentamento
autonomo, come molte altre situazioni insopportabili della nostra società, non
sono castighi divini o disgrazie accidentali. Sono conseguenze inevitabili di
un regime ingiusto e devastante.
La guerra deve essere condotta contro queste cose, non contro le vittime.
Si deve inoltre combattere la complicità di coloro che si trovano sopra il
livello di povertà e adottano un modello consumista insensato e di rapina, in
cui si vogliono inserire anche i poveri.
Può avere un qualche senso trasformare alcuni miserabili in poveri; la loro
situazione disperata non può continuare fino a quando si realizzino le
trasformazioni necessarie. Però solo se fare questo è parte di una guerra
contro il regime che genera tutti questi problemi, con piena coscienza delle
sue deleterie implicazioni ecologiche e sociali.
Il nuovo governo tuttavia è ancora in tempo per correggere l’atroce
dispositivo che ha ereditato e ha ampliato, perché stabilizza in forma
individualizzata e dipendente una condizione umiliante e intollerabile che
acuisce le disuguaglianze e le ingiustizie. Non può e non vuole schierarsi
contro il capitalismo, come molti di noi vorrebbero. Però potrebbe almeno
ascoltare la gente che gli sta urlando che non vuole i suoi megaprogetti
sviluppisti e che esige servizi pubblici migliori e aiuti, a livello di
comunità e aggregazioni sociali, che tutelino la sussistenza autonoma. L’eliminazione
di appoggi clientelari e corrotti quali le intermediazioni manipolatrici non
deve cancellare la relazione con soggetti collettivi reali.
Vi è saggezza e compassione nella ricchezza del linguaggio popolare che
descrive la situazione di persone che si trovano di fronte a difficoltà
particolari.
Nella lingua persiana, più di 30 parole definiscono coloro che oggi si
trovano nella categoria oscurata dei poveri.
Per secoli, in Europa, essere poveri era una virtù; era l’opposto di
“potenti”, più che di ricchi. Forse, di fronte all’attuale crisi del clima, della
società e della cultura, la principale speranza è il recupero di questa
virtù.
Mentre lottiamo per contrastare e dissolvere la distruzione continua che ci
sovrasta, dobbiamo rinunciare radicalmente al consumismo atroce che ci fa
complici di essa, combattendo coloro che la producono, siano governi o corporation.
(traduzione a cura di camminardomandando
Link all’originale su La Jornada La pobreza de la pobreza)
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