“Mangia
tutto altrimenti arriva l’uomo nero e ti porta via!”
Quante
volte, da bambini, abbiamo ascoltato dai nostri genitori in tono minaccioso
questa frase come risposta ad un nostro capriccio….
I nostri
genitori non avevano certamente cattive intenzioni ma non possiamo negare il
fatto che abbiano contribuito a creare nella nostra mente lo stereotipo dell’“uomo
nero che rapisce i bambini se non fanno i bravi”.
Quanto a
pericolosità, nel nostro immaginario infantile, l’uomo nero batteva addirittura
l’orco di Pollicino e il Mangiafuoco di Pinocchio.
Poi ci è
piombato addosso il mondo mediatico che ha decisamente stravolto le cose.
Shrek, l’orco verde della Pixar Distribution ha dimostrato che l’orco diventa
buono quando si innamora della bella ma risoluta fanciulla. Il povero
Mangiafuoco è rimasto il cattivo della situazione ma è stato rappresentato in
modo così colorato e magistrale da Benigni nel suo film che non ce la sentiamo
proprio di considerarlo un delinquente, nonostante trasformi i bambini in
asini.
All’uomo
nero non è andata così bene.
Nell’immaginario
collettivo, è colui che arriva in Italia per “rubare il lavoro, le case e
ingravidare le nostre donne, non pagare le tasse ma soprattutto, oltre ad avere
vitto e alloggio gratis, riceve anche 35 euro al giorno, mentre gli italiani
non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese” (cit.).
È la
favoletta raccontata da quei “soliti razzisti ignoti”, che poi si fermano con
la loro macchina vicino a una tangenziale a chiedere una prestazione sessuale
occasionale a una giovane nigeriana o senegalese o la storiella raccontata
dalle solite razziste ignote che poi programmano, con largo anticipo, le
vacanze estive in paesi come Costa D’Avorio o Kenya per collezionare
selfies mozzafiato con giovani e aitanti “Big Bamboo”.
Noi
portatori sani di rispetto per le culture altre, estremamente
convinti dell’importanza della “pari dignità sociale e uguaglianza davanti alla
legge per tutti”, sappiamo bene, invece, che quei 35 euro sono frutto di un
finanziamento dell’Unione Europea e che non vengono dati direttamente
all’immigrato ma sono utilizzati per finanziare le spese sostenute dalle
cooperative che si occupano della loro accoglienza. Sappiamo quindi che ivi sono
compresi i costi del vitto e dell’alloggio, delle spese mediche e che una
piccola quota copre anche i programmi per l’inserimento lavorativo. Sappiamo
che all’immigrato, alla fine, restano solo circa due euro per sopperire ai suoi
bisogni giornalieri.
A questo
punto, mi piacerebbe promuovere un sondaggio presso i “soliti razzisti ignoti”
e chiedere loro cosa comprerebbero con soli due euro giornalieri….
Ma,
ripensandoci, preferisco impiegare le battiture a mia disposizione, per
spostare l’attenzione verso un’altra tipologia di razzismo, quello che io
chiamo “Razzismo silenzioso” cioè quello subìto da colei che sceglie un uomo
“di colore” come compagno di vita.
Non parlerò
degli uomini che scelgono di iniziare una relazione con una “negra”, perché in
questo caso le cose cambiano decisamente. L’uomo in questione diventa l’essere
più fortunato del pianeta Terra e sarà oggetto di lusinghe e battutine
maliziose per il resto della sua vita, perché l’immagine della bellissima,
prosperosa e sottomessa donna africana, è stereotipo diffuso fin dalla notte
dei tempi, nel mondo occidentale.
Una donna
bianca non può e non deve scegliere un compagno nero, invece.
“Moglie e
buoi dei paesi tuoi”. E se poi la relazione va male, non perdono occasione di
dirti “te la sei cercata”.
Lo dico per
esperienza vissuta.
Sono passati
vent’anni anni da quando decisi di iniziare una relazione, culminata poi nel
matrimonio, con un cittadino senegalese, nella città di Bari.
Si sa al
cuore non si comanda, ma la comunità barese non la vedeva esattamente nello
stesso modo allora.
È pur
vero che nel lontano 1996 (non poi così lontano, a dire il vero…) non era
usuale vedere due giovani adulti di differente colore tenersi per mano o
scambiarsi dei baci. Ciò era ritenuto offensivo alla tradizione religiosa
cattolica, ma soprattutto, destava un senso di nausea; più o meno lo stesso
senso che prova ancora oggi qualcuno a guardare due uomini o due donne che si
baciano; tanto per chiarirci.
Ciò che era
ed è interessante, oltre che riprovevole, è che una coppia italo-cinese, per
esempio, non destava e non desta ancora oggi lo stesso sgomento di una coppia
italo-africana.
E mentre
negli anni ’90 si moltiplicavano convegni locali e nazionali, manifestazioni
antirazziste che portavano avanti il tema dell’uguaglianza fra i popoli, nella
vita reale erano solo belle parole e nient’altro.
Nessuno
parla mai delle situazioni di discriminazione di cui sono oggetto le cosiddette
“coppie miste” e che riguardano anche le semplici scelte di vita quotidiana.
Quelle delle quali fummo protagonisti io e il mio, ormai ex, marito furono
molteplici e paradossali.
Noi per
esempio riscontrammo notevoli difficoltà a trovare un municipio che decidesse
di accogliere la nostra richiesta di celebrare il matrimonio con rito civile.
Difficoltà nel trovare un fotografo per quel giorno per noi così importante
perché tutti i fotografi contattati ci dissero che non potevano accettare
l’incarico in quanto non avevano filtri adatti affinché potessero rendere al
meglio il volto così scuro del mio futuro marito! Il ginecologo che avevo
scelto mi liquidò dicendomi che mi affidava ad un suo collega perché aveva
deciso di non prestare più il suo servizio in un ospedale pubblico ma solo in
forma privata e noi non potevamo permettercelo dal punto di vista finanziario.
Me lo ritrovai poi in sala parto con sua grande sorpresa. Quindi non aveva mai
smesso di lavorare in forma convenzionata in quell’ospedale…
Nel 1997 io
e il mio ex marito abitavamo ad Adelfia, un piccolo comune in provincia di Bari
e nonostante la presenza di una numerosa comunità senegalese in loco, qualcuno
poco accettò quel matrimonio misto. I residenti vennero numerosi ad assistere
alla celebrazione del nostro matrimonio, notevolmente incuriositi; la stessa
curiosità con la quale ci si reca al circo a vedere gli animali ammaestrati.
Una volta i
bambini del paese, mentre camminavo con mio marito, mi lanciarono le pietre sul
pancione urlandomi che avrei dovuto solo “portarmelo a letto un “nero” e non
sposarlo!”. La prima pediatra di mio figlio non volle nemmeno visitarlo e frettolosamente
mi congedò consigliandomi di rivolgermi a una sua collega, appena ritornata
dall’Africa e quindi più preparata in merito.
Per fortuna
i miei figli non hanno subìto gravi episodi di discriminazione, tranne una
frase di un bambino alla Scuola Primaria di Primo Grado, che consigliò a mia
figlia Amina di immergere il padre nella varichina in modo tale da avere una
famiglia normale!
Però ricordo
anche, ancora oggi sorridendo, di quella volta che mio figlio Omar rischiò di
essere addirittura sospeso perché ascoltò la maestra parlare con alcune sue
colleghe del fatto che non era un bambino adottato ma che aveva “la madre
bianca e il papà nero” e lui recriminò specificandole che suo padre veniva dal
Senegal che si trovava nel continente africano, mentre sua madre era nata in
Italia, che si trovava in Europa. Fui contenta della spiegazione precisa e
disarmante data dal mio Omar alla sua maestra, perché avevo risposto alle prime
domande dei miei bambini sul perché il padre fosse di un altro colore, proprio
nello stesso modo: attraverso il concetto di nazionalità diverse e con il
planisfero alla mano.
Nonostante
le difficoltà, nel nostro percorso di vita (mio e dei miei figli) ho sempre
cercato di insegnare loro che non conta il colore della pelle ma contano le
idee di una persona. Non è stato semplice spiegare loro che essere figli di una
coppia mista significava essere portatori delle singolarità culturali e sociali
di due popoli che li avrebbe portati, nel tempo, a un’apertura mentale
notevole, ma al contempo avrebbe rappresentato una grande responsabilità:
quella di educare il mondo all’idea che le diversità sono un valore aggiunto,
che lo arricchiscono di colore e calore.
Per questo
motivo, ho sempre detto ai miei due figli che avrebbero dovuto avere molta
pazienza perché non sempre avrebbero incontrato sulla loro strada persone
capaci di comprendere tale valore.
Omar e Amina
ormai sono adulti.
Mi sono
sempre posta numerose domande.
In che modo
abbiano percepito questa duplice portata culturale e se talvolta ne abbiano
avvertito il peso. Se sono riuscita a infondergli l’amore per quel Senegal che
non hanno mai visto, dato che loro padre ha scelto di seguire la sua strada,
lontano da noi. Se si sentono “diversi” per quel colore della pelle che li
caratterizza ma che ai miei occhi li rende unici. Se hanno mai sentito il peso
degli sguardi sdegnosi che mi rivolgeva la gente, mentre io camminavo a testa
alta con loro al mio fianco. Se talvolta, in cuor loro, mi hanno giudicata per
la mia scelta di andare contro le regole di un sistema, quello “dei
bianchi”, infrangendole per amore; semplicemente per amore.
Talvolta le
risposte alle nostre domande arrivano all’improvviso, nel momento in cui
smettiamo di porgercele.
“A mia
madre, donna bianca con due figli neri in un mondo razzista.
A mio padre,
immigrato a diciotto anni dal Senegal in Italia.
A mio
fratello Omar.
A Stefano,
il mio migliore amico che mi ha sempre detto che gli piace il colore della mia
pelle”.
Questa è la
dedica con la quale mia figlia ha concluso il suo esame di Stato.
Sono passati
tanti anni, eppure ricordo bene il volto e il tono di voce sdegnato di colui
che mi disse che avevo ancora l’odore dell’Africa sulla mia pelle,
nonostante fossi separata da qualche anno.
Ancora oggi
qualcuno mi chiede il perché di una scelta così azzardata e quasi da pioniera.
Rispondo sempre allo stesso modo: non mi sono mai pentita della mia scelta.
Mi sono
innamorata di un uomo che proveniva da un mondo lontano; un mondo ricco di
colori, tradizioni e culture che ho avuto la curiosità di conoscere. Ciò non
può oggi essere considerata ancora una colpa.
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