martedì 9 luglio 2019

La velocità dell’incubo - Alberto Castagnola


Ormai non possiamo più dire che non si parla del clima, articoli e denunce si susseguono sui giornali, gli appelli di scienziati ed esperti incalzano. Quello che manca sono le reazioni e le decisioni a livello politico e governativo: partiti e leader evitano accuratamente di occuparsi dei problemi ambientali e a stento fanno brevi e formali dichiarazioni nelle sedi internazionali. Perfino alcune multinazionali cominciano a preoccuparsi di apparire “amiche dell’ambiente” e alcune reti di supermercati dichiarano di aver subito eliminato dai loro banchi gli oggettini di plastica che l’Unione Europea ha vietato, anche se in realtà le imprese avrebbero ancora due anni per chiudere le loro produzioni.
Allora, cosa può fare un articolo? Segnalare la progressione sempre più accelerata dei fenomeni di danno che intaccano gli equilibri del pianeta che nei millenni hanno permesso l’evoluzione della specie umana e indicare quelle che dovrebbero essere le priorità di intervento per governi realmente coscienti delle loro responsabilità e dei tempi stretti che hanno di fronte.  La prima e più importante informazione riguarda l’Antartide, che ha una estensione di 14 milioni di chilometri quadrati e dove si possono individuare due aree principali, quella occidentale, che in termini geologici costituisce una prosecuzione delle Ande, e quella orientale, dove le calotte di ghiaccio sono ancorate al suolo continentale. Da alcuni decenni è in atto lo scioglimento della parte occidentale, un processo che contribuisce  in misura significativa all’innalzamento del livello dei mari, 3-4 millimetri all’anno. Però se tutta la parte occidentale si sciogliesse, l’innalzamento globale dei mari sarebbe di cinque metri. Più di recente, gli scienziati hanno accertato un inizio di scioglimento anche della parte orientale.

Le analisi finora effettuate sottolineano che in passato il “collasso” di parti dei ghiacciai è stato repentino e segnalano che all’epoca  l’innalzamento del livello dei mari è stato di alcuni metri. Sempre secondo il Corriere della Sera(La Lettura del 23 giugno 2019, pag.20 e 21),  sarebbe quindi essenziale raddoppiare la profondità alle quali sono finora arrivate le rilevazioni all’interno dei vari strati di ghiaccio, in modo da avere dei dati risalenti a circa un milione di anni fa, per comprendere i comportamenti dei ghiacci  a temperature analoghe a quelle attuali e soprattutto le conseguenze sui mari del riscaldamento dell’epoca. Infine, un’ultima notizia. Secondo la climatologa Claire L. Parkinson della Nasa, “dopo un effettivo trend di crescita durato dal 1979 al 2014, anche il ghiaccio del polo sud si è ritirato, e lo ha fatto così velocemente da perdere tra il 2014 e il 2017 tutta l’estensione guadagnata  nei precedenti 35 anni.” (da il manifesto del 2 luglio 2019).
Quanto alle strategie di intervento per una rapida riduzione delle emissioni dei gas serra, CO2 e metano in primo luogo, sarebbe opportuno che invece di enunciare gli obiettivi finali – come il dimezzamento entro il 2030 e la scomparsa delle emissioni entro il 2050, indicate dall’IPCC  nel rapporto speciale dell’ottobre 2018 per ribadire l’importanza di non far superare il grado e mezzo al riscaldamento globale – che Stati e scienziati cominciassero a precisare le date successive, a cominciare da domani, della eliminazione delle fonti (chiusura delle miniere di carbone, riduzione delle prospezioni e delle estrazioni petrolifere, riduzione degli impianti industriali e dei consumi familiari, e così via) in modo da poter discutere di impegni concreti ed essere in grado di verificare l’effettiva realizzazione delle fasi indicate a partire da oggi, evitando cioè  il rischio di trovarci tra cinque o dieci anni a dover constatare che nulla o poco è stato fatto.
E’ opportuno precisare che non stiamo parlando della normale necessità di verificare l’attendibilità degli impegni politici,  ma del rischio di far trovare l’umanità nella impossibilità di effettuare interventi risolutivi, cioè di aver superato i “punti di non ritorno” di ciascuno dei fenomeni climatici e ambientali più gravi. E ciò potrebbe determinarsi non in un futuro indefinito ma nei prossimi undici anni secondo gli ultimi rapporti degli scienziati, non solo di quelli dell’IPCC. Vi è poi un altro aspetto della evoluzione in corso che non può essere assolutamente dimenticato: cosa accade nei territori lasciati senza copertura  (totale o stagionale) dallo scioglimento dei ghiacci e delle terre sottostanti rimaste congelate per secoli,  cioè lo strato di permafrost.
Una recente “dataroom” curata da Gabanelli e Offeddu, sempre del Corriere della Sera (24 giugno, pag. 12) segnala la presenza in Groenlandia  di almeno quattro impianti cinesi per l’estrazione e la prima lavorazione di minerali (zinco, rame, ferro, uranio e “terre rare). E’ noto infatti che nella zona artica sembra siano celati circa il 20% di tutti i minerali presenti sul pianeta e quindi man mano che i ghiacci scompaiono si moltiplicano le iniziative industriali di sfruttamento di tali risorse. Analoghe attività sono svolte dalla Russia e da tutti gli altri paesi situati ai margini dell’Artico.
Quindi è importante sottolineare che uno dei motivi per i quali i problemi ambientali sono così trascurati dal mondo politico è costituito dal fatto che gli effetti tanto  dannosi del riscaldamento globale sono purtroppo accompagnati da numerose possibilità di nuove attività di sfruttamento delle materie prime, essenziali per risollevare il sistema economico dominante  da questa fase di semi stagnazione dei settori tradizionali. Inoltre si stanno moltiplicando le rotte di navi che possono utilizzare le acque prima occupate da ghiacci perenni e collegare porti molto distanti con tempi di percorrenza  molto ridotti rispetto alle rotte storiche più meridionali. Questi due fattori, quindi, giocano contro i tentativi di ridurre le emissioni climalteranti, già ostacolate fortemente dai normali meccanismi di sfruttamento delle risorse naturali e della ricerca di profitti ad ogni costo.

Un altro tema rilevante per gli equilibri del pianeta è costituito dalla situazione dell’aria che respiriamo. E’ da tempo noto che l’ozono a bassa quota (diverso quindi dalla fascia di ozono nell’atmosfera che dovrebbe schermare il pianeta dai raggi ultravioletti del Sole, ma  in corso di riduzione a causa delle sostanze chimiche emesse da prodotti industriali contenenti HCF e CFC)  creato dagli ossidi di azoto scatenati dalle auto, dalle centrali elettriche e dalle attività industriali.

Da alcuni anni il satellite Sentinel-5P rileva infatti crescenti concentrazioni di biossido di azoto, dannoso per i polmoni e cancerogeno, in particolare in Asia, Africa, India e Sudamerica.  E’ prodotto anche dagli incendi delle foreste, che nel 2018 si sono moltiplicati in molti paesi, e sono stati particolarmente estesi in California. Ma per via aerea è colpita anche l’epidermide, se entra in contatto con le esalazioni di vernici, prodotti per la pulizia, elettrodomestici. L’aria di case e uffici è da cinque a dieci volte più inquinata che all’esterno. Ogni anno vengono liberate nell’aria 36 miliardi di CO2 e il 92% della popolazione mondiale respira un ‘aria di pessima qualità. Infine, i condizionatori, che rappresentano ormai il “nuovo allarme ambientale”, nel 2050 potrebbero essere 5,6 miliardi e potrebbero diventare la seconda voce dei consumi energetici. Il loro uso si è triplicato dal 1990 al 2016  e nel mondo se ne vendono, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, oltre 135 milioni l’anno. Oltre a incidere sul consumo energetico complessivo, i condizionatori “spostano” aria calda dall’interno dei palazzi verso l’esterno, rendendo le città ancora più calde e rendendo sempre più difficile il conseguimento degli obiettivi internazionali di riduzione del riscaldamento globale.
Infine, il micidiale meccanismo della diffusione della plastica, le cui dimensioni sono ormai ben note, dopo la scoperta delle grandi “isole” nel Pacifico e ora dell’accumulazione anche nel Mediterraneo. Dieci fiumi trasportano tra l’88 e il 95% della plastica che finisce negli oceani, otto sono in Asia (Gange, Indo, Fiume Giallo, Fiume Azzurro, Haihe, Fiume delle Perle, Mekong e Amur) e due in Africa (Nilo e Niger). Tutti questi fiumi attraversano zone densamente popolate  e i loro rifiuti non vengono trattati adeguatamente. Una volta negli oceani, la plastica si accumula in grandi ammassi, lentamente si frammenta in pezzi microscopici e infine si deposita a grande profondità. Molecole di plastica sono state trovate ai diecimila metri della Fossa delle Marianne e nel Mediterraneo nelle fratture del fondo marino, oltre ad essere ingerite con effetti nocivi da pesci e uccelli marini. Ma il dato più preoccupante per gli esseri umani è descritto in un recente rapporto del Fondo Mondiale per la Natura, che ha stimato le ingestioni medie settimanali di plastica in almeno 5 grammi, in pratica il peso di una normale scheda di riconoscimento bancario o sanitario. 
Per i mari, il rapporto prevede che nel 2025, negli oceani ci sarà in media una tonnellata di plastica ogni tre tonnellate di pesci. Molti sono i comportamenti quotidiani che si possono adottare per evitare il contatto con le plastiche deteriorabili e le microplastiche, ma cambiare le abitudini imposte dal mercato richiede per i primi giorni una volontà molto determinata. Anche le misure decise dall’Unione Europea , eliminazione entro due anni dei piccoli oggetti di plastica (piatti, posate, cannucce, ecc.) ma rinvio al 2029 per le bottiglie ed altri contenitori in plastica, non aiutano molto. Forse vedere i nostri figli giocare al mare in mezzo a pezzi vari di plastica costituirà uno stimolo sufficiente per azioni individuali e collettive.

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