Ormai non possiamo più dire che non si parla del clima, articoli e denunce
si susseguono sui giornali, gli appelli di scienziati ed esperti incalzano.
Quello che manca sono le reazioni e le decisioni a livello politico e
governativo: partiti e leader evitano accuratamente di
occuparsi dei problemi ambientali e a stento fanno brevi e formali
dichiarazioni nelle sedi internazionali. Perfino alcune multinazionali
cominciano a preoccuparsi di apparire “amiche dell’ambiente” e alcune reti di
supermercati dichiarano di aver subito eliminato dai loro banchi gli oggettini
di plastica che l’Unione Europea ha vietato, anche se in realtà le imprese
avrebbero ancora due anni per chiudere le loro produzioni.
Allora, cosa può fare un articolo? Segnalare la progressione sempre
più accelerata dei fenomeni di danno che intaccano gli equilibri del
pianeta che nei millenni hanno permesso l’evoluzione della specie
umana e indicare quelle che dovrebbero essere le priorità di intervento per
governi realmente coscienti delle loro responsabilità e dei tempi stretti che
hanno di fronte. La prima e più importante informazione riguarda
l’Antartide, che ha una estensione di 14 milioni di chilometri quadrati e dove
si possono individuare due aree principali, quella occidentale, che in termini
geologici costituisce una prosecuzione delle Ande, e quella orientale, dove le
calotte di ghiaccio sono ancorate al suolo continentale. Da alcuni decenni è in
atto lo scioglimento della parte occidentale, un processo che contribuisce
in misura significativa all’innalzamento del livello dei mari, 3-4
millimetri all’anno. Però se tutta la parte occidentale si sciogliesse,
l’innalzamento globale dei mari sarebbe di cinque metri. Più di recente, gli
scienziati hanno accertato un inizio di scioglimento anche della parte
orientale.
Le analisi finora effettuate sottolineano che in passato il “collasso” di
parti dei ghiacciai è stato repentino e segnalano che all’epoca
l’innalzamento del livello dei mari è stato di alcuni metri. Sempre
secondo il Corriere della Sera(La Lettura del 23 giugno 2019,
pag.20 e 21), sarebbe quindi essenziale raddoppiare la profondità alle
quali sono finora arrivate le rilevazioni all’interno dei vari strati di
ghiaccio, in modo da avere dei dati risalenti a circa un milione di anni fa,
per comprendere i comportamenti dei ghiacci a temperature analoghe a
quelle attuali e soprattutto le conseguenze sui mari del riscaldamento
dell’epoca. Infine, un’ultima notizia. Secondo la climatologa Claire L.
Parkinson della Nasa, “dopo un effettivo trend di crescita durato dal 1979 al
2014, anche il ghiaccio del polo sud si è ritirato, e lo ha fatto così
velocemente da perdere tra il 2014 e il 2017 tutta l’estensione
guadagnata nei precedenti 35 anni.” (da il manifesto del
2 luglio 2019).
Quanto alle strategie di intervento per una rapida riduzione delle
emissioni dei gas serra, CO2 e metano in primo luogo, sarebbe opportuno che
invece di enunciare gli obiettivi finali – come il dimezzamento entro
il 2030 e la scomparsa delle emissioni entro il 2050, indicate dall’IPCC
nel rapporto speciale dell’ottobre 2018 per ribadire l’importanza di non far superare
il grado e mezzo al riscaldamento globale – che Stati e scienziati
cominciassero a precisare le date successive, a cominciare da domani, della
eliminazione delle fonti (chiusura delle miniere di carbone, riduzione delle
prospezioni e delle estrazioni petrolifere, riduzione degli impianti
industriali e dei consumi familiari, e così via) in modo da poter discutere di
impegni concreti ed essere in grado di verificare l’effettiva realizzazione
delle fasi indicate a partire da oggi, evitando cioè il rischio di
trovarci tra cinque o dieci anni a dover constatare che nulla o poco è stato
fatto.
E’ opportuno precisare che non stiamo parlando della normale necessità di
verificare l’attendibilità degli impegni politici, ma del rischio di far
trovare l’umanità nella impossibilità di effettuare interventi risolutivi, cioè
di aver superato i “punti di non ritorno” di ciascuno dei fenomeni climatici e
ambientali più gravi. E ciò potrebbe determinarsi non in un futuro indefinito
ma nei prossimi undici anni secondo gli ultimi rapporti degli scienziati, non
solo di quelli dell’IPCC. Vi è poi un altro aspetto della evoluzione in corso
che non può essere assolutamente dimenticato: cosa accade nei territori
lasciati senza copertura (totale o stagionale) dallo scioglimento dei
ghiacci e delle terre sottostanti rimaste congelate per secoli, cioè lo
strato di permafrost.
Una recente “dataroom” curata da Gabanelli e Offeddu, sempre del Corriere
della Sera (24 giugno, pag. 12) segnala la presenza in Groenlandia
di almeno quattro impianti cinesi per l’estrazione e la prima lavorazione
di minerali (zinco, rame, ferro, uranio e “terre rare). E’ noto infatti che
nella zona artica sembra siano celati circa il 20% di tutti i minerali presenti
sul pianeta e quindi man mano che i ghiacci scompaiono si moltiplicano le
iniziative industriali di sfruttamento di tali risorse. Analoghe attività sono
svolte dalla Russia e da tutti gli altri paesi situati ai margini dell’Artico.
Quindi è importante sottolineare che uno dei motivi per i quali i problemi
ambientali sono così trascurati dal mondo politico è costituito dal fatto che
gli effetti tanto dannosi del riscaldamento globale sono purtroppo
accompagnati da numerose possibilità di nuove attività di sfruttamento delle
materie prime, essenziali per risollevare il sistema economico dominante
da questa fase di semi stagnazione dei settori tradizionali. Inoltre si
stanno moltiplicando le rotte di navi che possono utilizzare le acque prima
occupate da ghiacci perenni e collegare porti molto distanti con tempi di
percorrenza molto ridotti rispetto alle rotte storiche più meridionali.
Questi due fattori, quindi, giocano contro i tentativi di ridurre le emissioni
climalteranti, già ostacolate fortemente dai normali meccanismi di sfruttamento
delle risorse naturali e della ricerca di profitti ad ogni costo.
Un altro tema rilevante per gli equilibri del pianeta è costituito dalla
situazione dell’aria che respiriamo. E’ da tempo noto che l’ozono a bassa
quota (diverso quindi dalla fascia di ozono nell’atmosfera che dovrebbe
schermare il pianeta dai raggi ultravioletti del Sole, ma in corso di
riduzione a causa delle sostanze chimiche emesse da prodotti industriali contenenti
HCF e CFC) creato dagli ossidi di azoto scatenati dalle auto, dalle
centrali elettriche e dalle attività industriali.
Da alcuni anni il satellite Sentinel-5P rileva infatti crescenti
concentrazioni di biossido di azoto, dannoso per i polmoni e cancerogeno, in
particolare in Asia, Africa, India e Sudamerica. E’ prodotto anche dagli
incendi delle foreste, che nel 2018 si sono moltiplicati in molti paesi, e sono
stati particolarmente estesi in California. Ma per via aerea è colpita anche
l’epidermide, se entra in contatto con le esalazioni di vernici, prodotti per
la pulizia, elettrodomestici. L’aria di case e uffici è da cinque a dieci volte
più inquinata che all’esterno. Ogni anno vengono liberate nell’aria 36 miliardi
di CO2 e il 92% della popolazione mondiale respira un ‘aria di pessima qualità.
Infine, i condizionatori, che rappresentano ormai il “nuovo allarme ambientale”,
nel 2050 potrebbero essere 5,6 miliardi e potrebbero diventare la seconda voce
dei consumi energetici. Il loro uso si è triplicato dal 1990 al 2016 e
nel mondo se ne vendono, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, oltre
135 milioni l’anno. Oltre a incidere sul consumo energetico complessivo, i
condizionatori “spostano” aria calda dall’interno dei palazzi verso l’esterno,
rendendo le città ancora più calde e rendendo sempre più difficile il
conseguimento degli obiettivi internazionali di riduzione del riscaldamento
globale.
Infine, il micidiale meccanismo della diffusione della plastica, le cui
dimensioni sono ormai ben note, dopo la scoperta delle grandi “isole” nel
Pacifico e ora dell’accumulazione anche nel Mediterraneo. Dieci fiumi trasportano
tra l’88 e il 95% della plastica che finisce negli oceani, otto sono in Asia
(Gange, Indo, Fiume Giallo, Fiume Azzurro, Haihe, Fiume delle Perle, Mekong e
Amur) e due in Africa (Nilo e Niger). Tutti questi fiumi attraversano zone
densamente popolate e i loro rifiuti non vengono trattati adeguatamente.
Una volta negli oceani, la plastica si accumula in grandi ammassi, lentamente
si frammenta in pezzi microscopici e infine si deposita a grande profondità.
Molecole di plastica sono state trovate ai diecimila metri della Fossa delle
Marianne e nel Mediterraneo nelle fratture del fondo marino, oltre ad essere
ingerite con effetti nocivi da pesci e uccelli marini. Ma il dato più
preoccupante per gli esseri umani è descritto in un recente rapporto del Fondo
Mondiale per la Natura, che ha stimato le ingestioni medie settimanali
di plastica in almeno 5 grammi, in pratica il peso di una normale scheda
di riconoscimento bancario o sanitario.
Per i mari, il rapporto prevede che nel 2025, negli oceani ci sarà in media
una tonnellata di plastica ogni tre tonnellate di pesci. Molti sono i
comportamenti quotidiani che si possono adottare per evitare il contatto con le
plastiche deteriorabili e le microplastiche, ma cambiare le abitudini imposte
dal mercato richiede per i primi giorni una volontà molto determinata. Anche le
misure decise dall’Unione Europea , eliminazione entro due anni dei piccoli
oggetti di plastica (piatti, posate, cannucce, ecc.) ma rinvio al 2029 per le
bottiglie ed altri contenitori in plastica, non aiutano molto. Forse vedere i
nostri figli giocare al mare in mezzo a pezzi vari di plastica costituirà uno
stimolo sufficiente per azioni individuali e collettive.
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