In una delle
loro migliori parodie, Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges inventarono uno
scrittore tanto concentrato sulla propria realtà da descrivere solo quello che
succedeva nell’angolo nord-nordovest della sua scrivania. Con minore prudenza
di questo personaggio, ho accettato di scrivere su Tijuana, l’angolo
nord-nordovest del mio paese.
Il
principale svantaggio di essere un abitante della capitale è che si nota.
Noi chilangos abbiamo una così cattiva fama in
provincia che forse non dovremmo lasciare le nostre mura domestiche.
Noi chilangos abbiamo una così cattiva fama in
provincia che forse non dovremmo lasciare le nostre mura domestiche. Inoltre
Tijuana è il luogo dove il giornalista El Gato Félix aveva promosso la campagna
“chilangos go home” prima di essere assassinato (per quanto si sa, non per mano
di un abitante della capitale).
A mia
scusante devo dire che la Grande Dogana della Baja California Norte rifiuta
qualsiasi localismo. È la frontiera più attraversata del mondo, il duty free
che traffica con realtà e desideri, la sponda simbolica del Villaggio globale,
dove il paesaggio cambia come se rispondesse allo zapping televisivo. Per
l’antropologo Néstor García Canclini si tratta di “uno dei maggiori laboratori
della postmodernità”. Per lo scrittore di Tijuana Luis Humberto Crosthwaite, è
“una città inventata, mutevole e poliedrica”.
Uno dei
prodotti tipici di questa Mecca del sincretismo è l’insalata Cesare. I
pellegrini messicani che vanno in visita in Vaticano in genere si sorprendono
che nessuno gli offra l’antipasto che presumiamo sia il preferito degli
italiani. La soluzione del mistero è la seguente: il Cesare che ha dato il nome
all’insalata non era un personaggio di Svetonio, ma César Cardini, un
ristoratore di Tijuana disposto a contrabbandare cultura.
Asini a strisce
La più cosmopolita delle nostre città, principale zona di contatto con il paese più potente del pianeta, esige una classificazione multipla. Durante il tragitto ho sfogliato il catalogo della compagnia aerea Aeroméxico fino a trovare la prevedibile cartina della Repubblica. Mi sono ricordato degli atlanti antichi, dove un Eolo soffiava con guance gonfie d’aria per simboleggiare la direzione dei venti e una legenda indicava la fine del mondo: hic sunt leones. L’orizzonte inesplorato prometteva animali feroci. Ora che i leoni sbadigliano a pagamento nei circhi, bisogna cercare altre creature sconosciute. Quale animale incarna la condizione di confine di Tijuana? Nel walkman mi è arrivata la voce di Manu Chao: “Welcome to Tijuana. Tequila, sexo, marijuana. Con el coyote no hay aduana”.
La più cosmopolita delle nostre città, principale zona di contatto con il paese più potente del pianeta, esige una classificazione multipla. Durante il tragitto ho sfogliato il catalogo della compagnia aerea Aeroméxico fino a trovare la prevedibile cartina della Repubblica. Mi sono ricordato degli atlanti antichi, dove un Eolo soffiava con guance gonfie d’aria per simboleggiare la direzione dei venti e una legenda indicava la fine del mondo: hic sunt leones. L’orizzonte inesplorato prometteva animali feroci. Ora che i leoni sbadigliano a pagamento nei circhi, bisogna cercare altre creature sconosciute. Quale animale incarna la condizione di confine di Tijuana? Nel walkman mi è arrivata la voce di Manu Chao: “Welcome to Tijuana. Tequila, sexo, marijuana. Con el coyote no hay aduana”.
Le parole
evocavano la destinazione del mio viaggio come una città del vizio per
peccatori a basso reddito. In questo folklore duro il “coyote” è una figura
onnipresente. Il problema è che si tratta di una persona degradata ad animale:
un essere che pronuncia meravigliosamente bene le due lingue che parla male e
dispone della chiave segreta per fare entrare i messicani negli Stati Uniti. I
coyote hanno mandato talmente tanti abitanti di Oaxaca a San Diego che ormai si
parla di Oaxacalifornia.
Un altro
possibile simbolo della frontiera è la foca, animale indeciso tra la terra e il
mare. Ma niente eguaglia il bestiame ibrido inventato a Tijuana: gli asini
dipinti da zebre. Per ragioni insondabili, ai turisti piace posare accanto a
questa arbitrarietà veterinaria.
La prima
cosa che il visitatore vede atterrando nella città dove gli asini si travestono
è il muro di filo metallico che l’esercito degli Stati Uniti ha usato perché i
propri veicoli potessero avanzare nelle dune durante le tormente di sabbia.
Come mezzo di controllo risulta assurdo: ha dei tagli che servono da scalini e
non è molto alto. Wade Graham, della rivista Harper’s, ha paragonato questo
muro simbolico alle installazioni di Christo. In effetti i cartelli che si
susseguono lungo la linea di frontiera e si addentrano nel mare per 30 metri,
non sono lì per fermare gli illegali, ma per avvisarli che verranno fermati.
L’ignominiosa ferraglia svolge una funzione di propaganda: anticipa gli orrori
in cui possono incorrere i temerari. Il paesaggio non è brutto per caso. Da
quando è entrata in vigore l’operazione Gatekeeper, nell’ottobre 1984, circa
quattrocento messicani sono morti cercando di raggiungere la metà del cielo che
conosciamo come “l’altro lato”.
I cinesi invisibili
Secondo Crosthwaite, il presidente Antonio López de Santa Anna è stato “il maggiore agente immobiliare della storia”. Grazie a lui abbiamo perso la metà del territorio messicano e la frontiera è scesa fino a Tijuana, attirando le bandierine dell’immobiliare statunitense Century 21. La terra ha valore per la sua vicinanza con l’impero. La città è cresciuta verso nord fino a sfiorare le fortificazioni dove tutto quello che è messicano diventa sospetto. In cambio, sul lato statunitense, San Diego ha dato le spalle alla frontiera e ha orientato le sue case verso l’Oceano Pacifico.
Secondo Crosthwaite, il presidente Antonio López de Santa Anna è stato “il maggiore agente immobiliare della storia”. Grazie a lui abbiamo perso la metà del territorio messicano e la frontiera è scesa fino a Tijuana, attirando le bandierine dell’immobiliare statunitense Century 21. La terra ha valore per la sua vicinanza con l’impero. La città è cresciuta verso nord fino a sfiorare le fortificazioni dove tutto quello che è messicano diventa sospetto. In cambio, sul lato statunitense, San Diego ha dato le spalle alla frontiera e ha orientato le sue case verso l’Oceano Pacifico.
Che cosa può
unire due culture così differenti? Prima del mio viaggio ho parlato con Daniel
Sada, lo scrittore di Mexicali che ha appena rinnovato la narrativa messicana
con Porque parece mentira la verdad nunca se sabe. Daniel
mi ha invitato a mangiare in un ristorante cinese in via Bucareli. Il locale
appartiene a Lin May, una gigantessa siliconata che negli anni Settanta faceva
lo spogliarello nel Teatro Esperanza Iris. Anche se non c’era nessuno e l’arredamento
suggeriva un locale notturno, un cinese in regola ci ha offerto il menù per il
pranzo. Accanto alla pista da ballo deserta abbiamo mangiato il nostro chop-suey, come gangster che fanno chiudere una bettola
per mangiare spaghetti mentre Scorsese li filma.
“Sai che
cultura unisce Messico e Stati Uniti?”. Daniel ha socchiuso gli occhi, come un
lanciatore di baseball sulla pedana e ha lanciato la risposta: “Il cibo
cinese”.
Mexicali è
stata fondata in una depressione nel deserto, sotto il livello del mare. Lì i
cinesi sono stati i benvenuti perché il terreno era considerato inabitabile.
Con la segretezza di una tribù abituata a vivere nelle cucine, si sono diffusi
lungo tutta la frontiera. Le notti dell’America Centrosettentrionale sono
illuminate da ideogrammi al neon. A Tijuana ci sono quasi trecento ristoranti
cinesi e un consolato fornisce i documenti a questi cittadini abbondanti e
invisibili, che passano la vita a cucinare.
Nel
film Pulp fiction, ambientato a Los Angeles, un criminale
rapina un bar gridando: “Fuori i messicani dalla cucina!”. Se la scena
avvenisse alcuni chilometri più a sud bisognerebbe gridare: “Fuori i cinesi!”,
cosa che permetterebbe finalmente di vederli.
Luis
Humberto Crosthwaite mi ha portato in splendidi ristoranti di cucina autoctona,
ossia cinese. Dal momento che lui vive a Tijuana dalla nascita, nel 1962,
conosce vari membri della nazione che si nasconde tra i fumi delle proprie
pentole.
Il mercato globale
Il gusto dei cinesi per il segreto li ha portati ad aprire caffetterie clandestine alle quali il cliente arriva come un invitato in una casa. Luis Humberto mi ha fatto provare gamberi caramellati al cocco e altri prodigi tijuanesi – che sicuramente Marco Polo ha degustato nei pressi della Grande muraglia – ma non mi ha considerato degno di appartenere alla confraternita di coloro che si nascondono per mangiare anatra laccata. Appartiene a questa società solo chi ha visto un determinato numero di cinesi. La cifra esatta è un mistero. So solo che non ne sono ancora degno.
Il gusto dei cinesi per il segreto li ha portati ad aprire caffetterie clandestine alle quali il cliente arriva come un invitato in una casa. Luis Humberto mi ha fatto provare gamberi caramellati al cocco e altri prodigi tijuanesi – che sicuramente Marco Polo ha degustato nei pressi della Grande muraglia – ma non mi ha considerato degno di appartenere alla confraternita di coloro che si nascondono per mangiare anatra laccata. Appartiene a questa società solo chi ha visto un determinato numero di cinesi. La cifra esatta è un mistero. So solo che non ne sono ancora degno.
Gli affari
dei cinesi invisibili dividono gli onori con altre forme di commercio.
L’economia informale ha prodotto in Messico oggetti strani e in apparenza
invendibili come la maschera dell’ex presidente Salinas de Gortari. Presso i
baracchini di Tijuana le auto si fermano per comprare un artigianato ancora più
sorprendente. Siamo nell’unico posto in Occidente dove si considera decorativo
un Bart Simpson di gesso della grandezza di un mobile bar. L’assortimento di
personaggi include i Power Rangers, Pocahontas e Aladino. Gli artigiani seguono
le prime di Hollywood e ora si occupano di Tarzan. Il prodotto finito –
grossolano, con pittura acrilica – garantisce statue orrende. Come si può
immaginare sono un successo. I passanti se le portano via in spalla.
Tijuana
offre la maggior concentrazione planetaria di farmacie, cosa che significa o
che gli statunitensi sono molto malati o che sono molto ipocondriaci. Le
pillole che nell’impero sono sotto rigoroso controllo qui si vendono senza
ricetta.
I favori di
una medicina economica e permissiva si avvertono anche nei molti studi
dentistici, dermatologici e di chirurgia plastica. Se hai fortuna, puoi
incappare in un gruppo di turisti della salute: umanoidi dai volti color
ciliegia, appena operati da un chirurgo estetico facciale.
Dalle corse
dei levrieri ai tacos con aragosta, il bazar di Tijuana è sempre eccessivo. In
quest’emporio delle transazioni, il poeta Robert L. Jones si è vantato di aver
attraversato la frontiera portando con sé “una rosa clandestina”. Ma l’amore
non sempre è motivo di lirismo. Fuori da un baracchino, un’enorme scritta
denuncia le conseguenze del commercio tra i due paesi: “Erpes? Chiama
l’800336”.
La matinée erotica
Il consolato messicano a San Diego e il Colegio de la Frontera Norte hanno preparato un’escursione perché un gruppo di scrittori e di giornalisti conoscesse l’autentica Tijuana. Niente a che vedere con il farsi fotografare insieme a un asino a strisce con una scopa in mano. Bisognava fare un’indagine partecipativa come quella di Jorge Buscamante, direttore del Colegio, che ha conosciuto la realtà della frontiera attraversandola come un espalda mojada schiena bagnata, termine usato per indicare gli immigrati clandestini] verso gli Stati Uniti.
Il consolato messicano a San Diego e il Colegio de la Frontera Norte hanno preparato un’escursione perché un gruppo di scrittori e di giornalisti conoscesse l’autentica Tijuana. Niente a che vedere con il farsi fotografare insieme a un asino a strisce con una scopa in mano. Bisognava fare un’indagine partecipativa come quella di Jorge Buscamante, direttore del Colegio, che ha conosciuto la realtà della frontiera attraversandola come un espalda mojada schiena bagnata, termine usato per indicare gli immigrati clandestini] verso gli Stati Uniti.
Sono salito
sul camioncino del Colegio dove una professoressa mi ha comunicato un inatteso
fastidio verso il centralismo. “Ti sei accorto che i meteorologi della
televisione della capitale segnalano chiaramente le località centrali e
nascondono con la testa la penisola della Baja California?”. No, non me n’ero
accorto. “Il centralismo è così”.
Ho mantenuto
un imbarazzato silenzio finché siamo arrivati alla nostra prima destinazione:
la statua bianca di una donna nuda, tanto grande da poter competere con la statua
record di Lenin in Unione Sovietica. La cosa significativa però non sono le
dimensioni della gigantessa, ma il fatto che lo scultore viva al suo interno.
Curiosamente, questo Edipo che può affacciarsi al mondo da un balcone nel
ventre della sua amata, ha appeso questa scritta: “In vendita”.
Dopo aver
contemplato la statua che serve da utero e condominio, abbiamo percorso la
frontiera dal lato messicano. Gli amici del Colegio ne parlano come della
“linea”. Man mano che ci si avvicina agli Stati Uniti la città si impoverisce e
un materiale da costruzione diventa insostituibile: lo pneumatico. Le case si
alzano su pile di pneumatici, come palafitte. Nelle colline a pascolo
frequentemente scosse da tremiti gli pneumatici servono da cemento e
ammortizzatore. Ho visto recinzioni, altalene e piastrelle fatte di pneumatici.
In questo rifugio dei nomadi, l’emblema del movimento è diventato sedentario.
Erano le
undici di mattina quando il camioncino ha preso una direzione inattesa, verso
via Coahuila. Era tardi per molte cose, ma un po’ presto per visitare un
ritrovo notturno.
“Il
principale inconveniente di essere fucilato è che devi svegliarti all’alba”. Mi
sono ricordato di questa frase di Carlos Fuentes entrando nel cabaret con la
gente del Colegio. L’oscurità della stanza creava un tempo sospeso, l’eterna
mezzanotte che gli assidui di Las Vegas conoscono.
Mi sono
seduto tra due accademiche a contemplare un insuccesso erotico. Una donna si
spogliava sulla passerella come se si trovasse di fronte a un plotone di
esecuzione, penetrata da occhi narcotizzati. In fondo, due clienti col cappello
guardavano le bottiglie che occupavano il loro tavolo. Sembravano in quella
posizione da una settimana.
C’è chi va a
uno spogliarello per eccitarsi e chi ci va per eccitarsi dell’eccitazione
altrui (“Non perderti El Bambi”, mi aveva raccomandato un amico, “Puoi vedere
soldati che si baciano!”). Il cronista è più avido di reazioni che di seni
nudi. Infilare una banconota nel tanga di una donna è una voluttuosità
mercantile; ma starsene lì a guardare non è meno sordido.
L’accademica
alla mia destra mi ha indicato la spogliarellista che si accomiatava tra scarni
applausi: “Non preoccuparti. Ci sono ragazze migliori. Cosa ti piace che ti
facciano?”.
Il mio
sedile viola si è trasformato in un posto eccellente per preoccuparsi. Erano le
undici, le immobili undici, ora di Tijuana, e la mia accompagnatrice mi
inquietava più delle ballerine. Uno stridente microfono ha annunciato la
condannata successiva (una dimenticabile Yadira o Yasmin o Yesenia) e la mia
vicina ha incrociato le gambe. Non ho detto una cosa: la professoressa aveva
pantaloni molto corti e una cavigliera, un ornamento comune ai 38 gradi della
frontiera, ma impensabile nei contenuti campus del Distretto Federale. La mia vicina
ha chiesto una tequila doppia e gliene hanno portata una che sembrava tripla.
Ha bevuto un sorso lungo, lungo, lungo. Ho visto il liquido entrarle in gola e
ho capito che stavo vedendo troppo. Ho chiesto qualcosa alla donna del Colegio
che odia i meteorologi che nascondono la Baja California con la testa. Lei ha
collegato le statistiche con la realtà. Prima che bevessi un sorso della mia
tequila, la professoressa in pantaloncini aveva finito la sua. Erano le undici
e la donna alla mia destra parlava come se la sofferenza fosse il suo
linguaggio. Mi spiegò la routine delle donne, quello che piace agli uomini, le
preferenze degli statunitensi. Non condannava né esaltava il mercato del sesso.
Così era la vita, dura e accidentata e monotona. C’era qualcosa di
irresistibile nella sua imparziale integrità di fronte alla frenesia altrui. Ho
smesso di guardare la pista. Potevo vedere solo la donna che ci ragionava
sopra. “Vuoi che ballino per te?”, mi ha chiesto.
Ero in una
matinée di Tijuana; la spogliarellista si stava trasferendo al mio tavolo o
sulle mie cosce. Ho chiesto il conto.
Siamo
tornati al sole abbagliante di via Coahuila. Le professoresse apparivano
fresche, come se avessimo appena finito di bere succhi di frutta.
Mi sono
ricordato un altro viaggio in città. C’ero andato con mia moglie e avevo
chiesto a un taxi di portarci in giro per un’ora. Avevamo visitato statue di
eroi, un planetario decorato con l’immagine di un piccolo dinosauro, un locale
dove un imprenditore aveva costruito un Messico in miniatura che era stato
chiuso per scarsità di visitatori. “La gente è poco patriottica”, si era
lamentato il tassista.
Mi ero
chiesto se la voglia di vedere una patria rimpicciolita sarebbe stata una prova
di nazionalismo, ma non avevo potuto seguire il filo dei miei pensieri: eravamo
in via Coahuila e il conducente indicava delle puttane: “Qui vengono le più
economiche. Povere ragazze”. Si era voltato verso mia moglie: “Scusi signora,
però mi avete chiesto di farvi passeggiare per un’ora e dopo venti minuti arrivano
le prostitute”.
Sono
risalito sul camioncino del Colegio. Il tempo tornava nel suo letto. Non erano
più le undici, l’ora trattenuta del desiderio. Dove stavamo andando? In venti
minuti lo avrei saputo.
Yerba mala
Dopo la Guerra fredda gli Stati Uniti, incapaci di celebrare le proprie virtù senza nemici archetipici, hanno sostituito il Comunista mangiabambini con il Boss latino. Il narcotraffico prospera nel continente grazie alle reti della criminalità organizzata, ma sappiamo molto poco dei baroni della droga che operano più in là della frontiera nord. Invece un’insistente propaganda ci pone in contatto con la vita intima e le minuziose cattiverie di ciascun cartello latinoamericano.
Dopo la Guerra fredda gli Stati Uniti, incapaci di celebrare le proprie virtù senza nemici archetipici, hanno sostituito il Comunista mangiabambini con il Boss latino. Il narcotraffico prospera nel continente grazie alle reti della criminalità organizzata, ma sappiamo molto poco dei baroni della droga che operano più in là della frontiera nord. Invece un’insistente propaganda ci pone in contatto con la vita intima e le minuziose cattiverie di ciascun cartello latinoamericano.
Il passaggio
di frontiera più attraversato del mondo è una calamita irresistibile e anche lì
i narcos hanno edificato le loro abitazioni, un miscuglio tra fortezze bancarie
e deliri musulmani.
Nel 1994
Luis Donaldo Colosio, candidato del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri)
alla presidenza della repubblica, è stato assassinato nel quartiere tijuanese
periferico di Lomas Taurinas. Nel suo libro Sorpresas te da la vida Jorge
G. Castañeda formula quest’ipotesi sulle cause del crimine: il presidente
Salinas aveva rotto il patto di non aggressione con i narcotrafficanti per
firmare il Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti e il Canada (Nafta)
e il cartello della regione è intervenuto nella questione.
La
maggioranza dei messicani conosce Lomas Taurinas dalla televisione: una conca
polverosa piena di gente poco rassicurante e di una moltitudine miserabile,
dove Colosio era stato ucciso a bruciapelo. La sequenza sarebbe diventata
l’oracolo che avremmo rivisto mille volte senza trovarne la chiave.
Il luogo dei
fatti è già qualificato come “località d’interesse”. Il comune ha aggiustato il
burrone. Una piazzola ricorda l’omicidio. Nella sua povertà civica, Lomas
Taurinas dimostra l’impari lotta dei poteri legali contro l’impunità. La
criminalità organizzata risulta inespugnabile e soffre di momenti di bassa solo
durante le sue lotte intestine. All’improvviso un capo (o il suo vice) muore
sotto i ferri della liposuzione o nel cofano di un’auto con un numero
cabalistico di pugnalate. Solo qualcuno della “fratellanza” può avvicinarsi
alle sue camicie colorate di Versace e al cucchiaino d’oro che pende dai loro
colli.
Questi
celebri fantasmi vengono allo scoperto per i loro gusti. Certe auto. Certi
ristoranti. Certe donne. Le loro ripercussioni culturali più importanti sono le
canzoni che hanno modificato il repertorio dei vicini del nord. La hit parade
che suona al ritmo della fisarmonica parla di piccoli aerei che atterrano in
piste clandestine, “contadini” che usano mitragliatrici Ak-47, droga nascosta
nel trasporto verso gli Stati Uniti. La città dell’insalata Cesare non ha
prodotto tanti narcomusicisti esperti come Culiacán, vera casa madre di questa
corrente musicale, ma apporta il suo contributo: “Unos perros rastreadores /
encontraron a Yolanda / con tres kilos de heroína / bien atados a la espalda”
(dei cani antidroga / trovarono Yolanda / con tre chili di eroina / ben fissati
sulla spalla). Così cantano Los incomparables di Tijuana, e Los Aduanales (I
doganieri) completano: “Salieron de San Isidro / procedientes de Tijuana /
traían las llantas del carro / repletas de yerba mala” (Son partiti da San
Isidro / venendo da Tijuana / avevano le ruote dell’auto / piene di yerba
mala).
Aliens
È estate e sulle terrazze dell’impero si servono spaghetti tricolori e fragranti cappuccini. In questa zona di piacere controllato, dove il fumo di una sigaretta potrebbe attivare un allarme, il vino gode di buona reputazione. Gli statunitensi hanno bisogno di certificati medici per i loro piaceri e l’uva fermentata regola la pressione sanguigna. Ogni bottiglia di vino della California è costellata di attributi gastronomici: ma chi ha in mano un bicchiere di rosso Napa Valley ignora il lavoro che è costato produrlo.
È estate e sulle terrazze dell’impero si servono spaghetti tricolori e fragranti cappuccini. In questa zona di piacere controllato, dove il fumo di una sigaretta potrebbe attivare un allarme, il vino gode di buona reputazione. Gli statunitensi hanno bisogno di certificati medici per i loro piaceri e l’uva fermentata regola la pressione sanguigna. Ogni bottiglia di vino della California è costellata di attributi gastronomici: ma chi ha in mano un bicchiere di rosso Napa Valley ignora il lavoro che è costato produrlo.
Tutto
comincia nell’ardente deserto messicano. Accanto alle baracche di Tijuana si
levano le bancarelle imbiancate a calce dove si forgiano i Bart Simpson di
gesso. Molto vicino, sulle colline aride, si distinguono altre figure, uomini
in attesa dell’occasione propizia, immobili, accovacciati. La posizione è una
prova razziale della povertà: nessun contadino di sangue spagnolo potrebbe
“riposare” così.
Avevo
pensato che sarebbe stato difficile conversare con loro, ma sulla riva
messicana del fiume, prima di essere cercati dai fanali degli elicotteri, gli
apprendisti clandestini parlano senza sosta: “Ho i miei tre figli dall’altro lato.
Anch’io sono stato lì, ma sono ritornato a Oaxaca per il più piccolo”, mi ha
detto un uomo di circa 50 anni, con un cappello da baseball e scarpe da tennis.
La frontiera
è una vasta operazione narrativa: i racconti provano che attraversare è
possibile, che Rubén e Chucho e Carmen e Ramona lavorano già nelle piantagioni
di fragole o uva, che hanno preso per il naso gli aerei zanzara e l’occhio di
tigre, un’apparecchiatura equipaggiata con rivelatori termici. Presto uno di
loro sarà felicemente un alien negli
Stati Uniti. Ma abbondano anche i racconti negativi: “Mi hanno rimandato
indietro più di trenta volte”, ha detto un giovane che sembra essere nato
cercando di passare il confine.
La soluzione
è insistere. Presto o tardi la marea diventa incontenibile. Gli ufficiali
dell’immigrazione riescono a malapena a rinviare indietro una ventina di uomini
a battuta. Se ti rispediscono in Messico devi sopportare la fame, la canicola
di mezzogiorno, il vento che scende profondo all’alba e tentare di nuovo. Dall’altro
lato, a venti minuti di cammino, ci sono taxi gialli pronti a imboccare
l’autostrada interstatale 5, il cammino dorato del lavoro.
Mi sono
chiesto come avrebbero fatto gli anziani per saltare il filo spinato e correre,
ma loro non sembravano preoccupati. Era peggio continuare a stare lì. Tutti
venivano da lontano.
Di notte gli
uomini in attesa succhiano arance con tequila per scaldarsi e si coprono con
cartoni. Al risveglio devono bruciarli. “Perché?”, gli chiedo. “È la legge”.
La
Mesoamerica è un paese con codici propri. Per settecento dollari un coyote ti
porta fino a San Francisco, ma per gli immigrati ottenere un passaporto è come
vincere un terno al lotto.
Nel 1991,
65,5 milioni di persone sono circolate legalmente attraverso il posto di
guardia di Otay. Vicino, a San Ysidro, tutti i giorni passano 40mila auto. Non
ci sono statistiche sugli illegali che riescono a passare. Si contano solo gli
espulsi: 1.700 al giorno nell’area di San Diego.
La
Mesoamerica è un assurdo con codici propri: dall’altro lato ci sono lavori
disponibili, ma la manodopera deve superare riti d’iniziazione che lascerebbero
soddisfatta la tribù più chiusa.
Nel teatrino
delle finzioni bilaterali, il governo statunitense indurisce le sue posizioni
per conquistare il voto razzista (incluso quello di molti chicanos che ormai hanno i documenti in regola) e
il governo messicano ne approfitta per fare in politica estera quello che non
può fare in Messico. I contadini asfissiati in un vagone merci, le ossa
scoperte in una landa, la xenofobia della polizia di Los Angeles, permettono
che il decano dei paesi senza democrazia protesti in nome dei diritti umani.
Finale
Durante il mio ultimo passaggio doganale, prendo la corsia che indica: “Niente da dichiarare”.
Durante il mio ultimo passaggio doganale, prendo la corsia che indica: “Niente da dichiarare”.
La scritta
riguarda chi viaggia con bagaglio legale. E chi ritorna pieno di perplessità.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito il 4 agosto 2000 nel numero
346 di Internazionale. L’originale era uscito sulla rivista
messicana Letras Libres, con il titolo Nada que declarar. Welcome to Tijuana.
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