Nel febbraio 2008, una commissione istituita l’anno prima dal ministro
della giustizia (era Clemente Mastella), e presieduta da Stefano Rodotà,
presentò allo stesso ministro della giustizia (era ancora Mastella) il progetto
per una riforma che mirava tra l’altro a introdurre nell’ordinamento giuridico
italiano una disciplina organica dei beni comuni. La Commissione Rodotà si era
anzitutto premurata di darne una definizione: «Cose che esprimono utilità
funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo
della persona». La commissione precisava ancora che tali utilità dovessero
essere tutelate anche avendo riguardo alle generazioni future. Dunque, secondo
questa definizione, un bene non è comune tanto per una sua qualità naturale,
quanto in relazione al fine che consente di perseguire: ossia, come ha più
volte precisato lo stesso Rodotà, l’attuazione dei diritti costituzionali della
persona. Diritti il cui catalogo lo studioso auspicava che venisse ampliato e
aggiornato a causa dell’emergere di nuovi bisogni individuali e collettivi. Con
ciò ovviamente non si esclude che un bene sia comune per natura, quando questa
soddisfa quel vincolo finalistico.
Caduto il governo Prodi allora in carica, il progetto di riforma è stato in
sostanza abbandonato, a dispetto dei molti sforzi – compiuti anche recentemente
– di portarlo a nuova vita. Il che non ha impedito alla Corte di Cassazione,
con la sentenza a Sezioni Unite 14 febbraio 2011 n. 3665, di accogliere la
definizione di beni comuni contenuta in quel progetto (per approfondire l’iter giurisprudenziale
che ha condotto a quest’esito, vedi qui). Ancora, il fallimento del progetto
di riforma non ha impedito alla riflessione sui beni comuni di dare impulso
alla fase più alta del movimento che si è battuto contro la privatizzazione del
servizio idrico, culminata con la vittoria ai referendum del 2011.
Per contro, anche (se non soprattutto) sull’onda dell’esito referendario,
si è cominciato a parlare di beni comuni nei contesti più vari, a proposito e a
sproposito, con l’effetto inevitabile di rendere sempre più vago e
inafferrabile il significato dell’espressione. Nel vocabolario politico, il
lemma «beni comuni» ha così perso intensione; la sua definizione si è dilatata
al punto da non connotare più nulla di preciso. Lo nota giustamente Rocco
Alessio Albanese nel testo su Democrazia e beni comuni, pubblicato
nella sezione utopie reali del terzo numero di Jacobin Italia. Evocando
un concetto riportato in auge nel lessico della filosofia politica da Ernesto
Laclau, Albanese scrive che «negli ultimi dieci anni i beni comuni sono
diventati un significante vuoto». L’esempio scelto per dimostrarlo non potrebbe
essere più calzante: la coalizione di centrosinistra si è presentata alle
elezioni del 24 e 25 febbraio 2013 con il nome «Italia, bene comune». Un nome che
suonava antifrastico per un rassemblement guidato da un
partito liberista, il Pd, a sua volta guidato da un segretario, Pierluigi
Bersani, noto – metafore a parte – soprattutto per le liberalizzazioni
approvate quando era ministro per lo sviluppo economico. Vogliamo fare un
esempio ancora più attuale? Marco Minniti, colui che ha preceduto Matteo
Salvini al vertice del ministero dell’interno, non si stanca di ripetere
che la sicurezza è un bene comune. Nel
suo La buona
educazione degli oppressi (Alegre, 2019), Wolf
Bukowski spiega che quando si dice «sicurezza» si dice «decoro», e che
attraverso il cortocircuito tra questi due termini, soprattutto negli ultimi
dieci anni, il legislatore è giunto sovente a negare i diritti e la dignità
della persona: sicurezza e decoro svolgono perciò una funzione esattamente
opposta a quella assegnata ai beni comuni dalla commissione Rodotà.
Preso atto di questo progressivo svuotamento di significato, Albanese prova
a risemantizzare l’espressione «beni comuni» ipotizzandone una definizione che
tenga insieme il piano giuridico e quello politico. La definizione è articolata
in tre passaggi. L’assunto di partenza è che i beni comuni sono l’opposto della
proprietà (1). «Prendersi cura dei beni comuni», chiosa Albanese, «è occasione
per liberarsi dall’individualismo proprietario, per costruire – con i beni e
nelle comunità che si definiscono a partire dal loro uso – forme inclusive di
relazione e di appartenenza». Affermazione, quest’ultima, che sposta (o meglio:
allarga) la visuale dal diritto alla politica, e conduce al secondo passaggio:
dato che «tutti e ciascuno possono accedere alla [loro] fruizione», «I beni
comuni fanno tutt’uno con le ipotesi e i tentativi di sperimentare forme di
democrazia radicale. Si pongono accanto e oltre il suffragio universale, la
democrazia rappresentativa e il principio di maggioranza» (2). Ne deriva la
proposta d’intendere la locuzione «beni comuni» come una metonimia: essa
«allude non tanto a certi beni, quanto (soprattutto) a un intero assetto
istituzionale che, affermandosi tra il pubblico e il privato, aspira a
costruire un rinnovato circuito democratico: un pubblico non statalistico e un
privato liberato dall’individualismo possessivo» (3). Da questa definizione
vorrei ora prendere spunto per le mie considerazioni: nel farlo, seguirò i tre
passaggi che ho appena isolato.
1) Cos’è l’opposto della proprietà? Verrebbe da rispondere che l’opposto
della proprietà è il comunismo. Più d’un teorico del comune non alzerebbe il
sopracciglio a fronte di questa risposta, che a livello lessicale non ha
oltretutto nulla di scandaloso: in fondo, «comunismo» è il sostantivo derivato
dall’aggettivo che qualifica i beni di cui stiamo parlando: prova ne sia che
l’appellativo gergale con cui talvolta ci si riferisce a chi si occupa di beni
comuni è «benecomunista». Ma non è il comunismo integrale l’orizzonte in cui si
muoveva chi ha reso celebre la massima «i beni comuni sono l’opposto della
proprietà»: cioè, ancora una volta, Stefano Rodotà.
Rodotà pensava l’opposto della proprietà come un regime in cui l’accesso
(ovvero l’uso, la fruizione) del bene e la sua gestione (cioè il suo governo)
sono collettivi e diretti e non producono profitto. Quando la gestione non può
essere diretta a causa del numero troppo elevato dei fruitori, questa deve
quantomeno essere partecipata, cioè coinvolgere una rappresentanza
significativa di coloro che hanno accesso al bene. Il regime teorizzato da
Rodotà riguarda però solo la categoria dei beni comuni, vale a dire quelli che
rientrano nella definizione contenuta nel progetto di riforma del 2008, e
presuppone la Costituzione repubblicana vigente, pur nell’auspicio di una sua
riforma che estenda il catalogo dei diritti della persona. Ma la Costituzione
riconosce e garantisce la proprietà pubblica, la proprietà privata, e la
trasmissione di quest’ultima per via successoria (art. 42). Dunque, l’idea di
Rodotà era che il regime dei beni comuni e quello della proprietà privata,
applicandosi a generi diversi di cose, potessero convivere nello stesso
ordinamento giuridico. Su tutto ciò, rimando al saggio Verso i beni
comuni, ora compreso nella raccolta di scritti uscita postuma con il
titolo Vivere la
democrazia (Laterza, 2018).
Ancora più esplicito è Ugo Mattei, che accetta la qualificazione dei beni
comuni come opposto della proprietà, ma in un suo saggio apparso nel 2017 chiarisce:
«I beni comuni […] non sono nemici della proprietà individuale, ma soltanto
degli eccessi legati al suo accumulo. Allo stesso modo non sono ostili al
Governo, ma si prefiggono soltanto di limitare le concentrazioni eccessive di
potere, attraverso decisioni dirette assunte dalla comunità, in base al
riscontro da parte dei fruitori». Nello stesso scritto, il giurista torinese
aggiunge: «Questo processo [il commoning] finirà per cambiare le
regole di fondo del sistema sociale attuale in modo tale che il diritto, anche
senza battaglie per introdurre alcune eccezioni alla logica estrattiva,
favorisca di regola i beni comuni, proprio come oggi invece si mostra
favorevole alla proprietà privata».
Va detto che lo stesso Mattei, in un testo comunque divulgativo qual
è il manifesto per i beni comuni (Laterza
2011), affrontava il tema in modo molto più critico. Le citazioni che ho tratto
dall’articolo più recente sembrano tuttavia tratteggiare una visione
ottimistica secondo la quale non è necessario ipotizzare una rottura
dell’ordine giuridico, perché nella tendenza le pratiche di fruizione e
gestione comunitaria dei beni avranno l’effetto di perequare l’allocazione
delle risorse. Un po’ come se la mano invisibile del mercato fosse destinata a
cedere il posto alle buone pratiche del commoning. Ma se questi
processi hanno per obiettivo d’impedire le distorsioni dovute all’accumulo di
proprietà privata e di limitare le concentrazioni di potere, che fare quando
l’accumulazione è in atto o si è già data? Cioè, che fare nella realtà in cui
viviamo? Mattei non nega che sia utile ricorrere all’espropriazione. È chiaro
però che, per contrastare seriamente il livello attuale di concentrazione della
ricchezza, l’espropriazione dovrebbe darsi su vasta scala. Si pongono allora,
direi, due questioni. La prima: quanto all’Italia, se si accetta la premessa
che debba effettuarsi senza la rottura radicale dell’ordine giuridico, allora
l’espropriazione deve essere disposta per legge, e previo indennizzo
dell’espropriato, come prevedono gli artt. 42, comma III, e 43 della Costituzione.
Sappiamo che l’art. 43, specie nella parte in cui prevede la possibilità di
affidare al controllo di comunità di lavoratori o di utenti determinate
categorie d’imprese (quelle che operano nel settore dei servizi pubblici
essenziali, in quello dell’energia, o in regime di monopolio), non è
costituzione materiale del paese. I principi costituzionali sull’espropriazione
devono oltretutto fare i conti con i vincoli imposti dal diritto dell’Unione
europea (art. 117, comma I, cost.), improntato alla tutela quasi assoluta della
libera concorrenza. Seconda questione, che si può considerare dipendente o
indipendente dalla prima. Ammettendo in astratto che lo si possa fare
conservando l’integrità dell’ordine giuridico, quale soggetto potrebbe imporre
al parlamento di approvare leggi che dispongano un vasto programma di
espropriazioni come quello che stiamo ipotizzando? Io rimango classicamente
dell’idea che la questione debba porsi in termini di classe e non di popolo
sovrano. Non è (o non è solo) per la scarsa lungimiranza dei governanti che
l’espropriazione della grande proprietà privata è così tanto chimerica ai
giorni nostri. È che non si può chiedere a chi ha la proprietà dei mezzi di
produzione, cioè alla borghesia, di approvare un programma d’espropri in danno
di sé stessa. Il compito spetterebbe semmai alla classe lavoratrice. Il che
resta vero anche se si rifiuta la premessa dell’integrità dell’ordine
giuridico, e quindi si accetta l’ipotesi rivoluzionaria.
2) Cosa significa che i beni comuni «si pongono accanto e oltre il
suffragio universale, la democrazia rappresentativa e il principio di
maggioranza»? A prima vista, i due avverbi di luogo (figurato) «accanto» e
«oltre» sembrerebbero contraddirsi. Chiamo in causa solo per un attimo la
dialettica. L’avverbio «accanto» suggerisce l’idea di un nesso di azione
reciproca (o compenetrazione degli opposti), dove i termini in contrasto si
condizionano a vicenda, ma vengono entrambi mantenuti, nel senso che l’uno non
nega l’altro. Avremmo dunque che le pratiche del comune condizionano gli
istituti fondamentali della contemporanea democrazia – uso l’aggettivo con
molta cautela – occidentale (suffragio universale, principio della
rappresentatività e principio di maggioranza), ma anche che questi ultimi condizionano
le prime. L’esito di questa concezione mi pare che si possa riassumere così:
il commoning dovrebbe sottrarre determinati ambiti della
politica all’applicazione rigida delle regole della rappresentatività e della
maggioranza, alle quali si sostituirebbe l’assunzione diretta/partecipata e
consensuale delle decisioni. Regola della rappresentatività e principio di
maggioranza tornerebbero a operare quando non sia possibile coinvolgere nella
decisione da assumere tutte e tutti gli interessati. L’esperienza maturata
nella pratica del commoning farebbe tuttavia in modo che
ciascuno agisca anche la democrazia rappresentativa con maggiore
consapevolezza.
Al contrario, l’avverbio «oltre» suggerisce l’idea di un movimento
dialettico di superamento, o negazione della negazione: in questo caso, avremmo
che le pratiche del comune, intese come negazione delle regole della democrazia
rappresentativa, sorte e sviluppatesi a loro volta dalla negazione
dell’assolutismo monarchico, mirerebbero a superare quella forma di stato e a
instaurarne una diversa.
Ho banalizzato in poche righe argomenti molto più grandi delle mie
capacità. E ad ogni modo credo che insistere sulla contraddizione tra «accanto»
e «oltre» sia soltanto una mia pignoleria linguistica. Probabilmente, quell’oltre
vuole solo rafforzare l’accanto, e quindi l’ottica è quella della
complementarità tra regime dei beni comuni e regole della democrazia
rappresentativa a suffragio universale. Un’ambiguità tuttavia rimane, e ne dirò
al punto 3.
Qui invece mi preme soprattutto rendere esplicito un altro problema, che
occorre avere sempre presente quando si ragiona sulla gestione dei beni in
comune. Una premessa: la riflessione sui beni comuni spazia dal piccolo (un
immobile recuperato a uso sociale) all’infinitamente grande, come nel caso dei
beni dichiarati patrimonio comune dell’umanità (fondo del mare, Antartide,
spazio extratmosferico etc.). Possiamo lasciare da parte il patrimonio comune
dell’umanità e l’intrico di questioni di diritto internazionale che suscita. Il
problema a cui alludevo è messo molto lucidamente in evidenza da Maria Rosaria
Marella: la comunità che gestisce un bene, osserva la studiosa, può essere inclusiva
o escludente, sessista o antisessista, razzista o antirazzista. Aggiungo: una
comunità, piccola o grande che sia, è attraversata da conflitti e plasmata da
rapporti di forza. Non è detto che la gestione comunitaria di un bene sia buona
in sé. Dipende dalla prassi.
Ancora Ugo Mattei mi dà l’occasione di fare un esempio per illustrare quel
che intendo dire. Nel suo saggio già linkato sopra, Mattei scrive: «Il commoning,
definito come partecipazione, in qualità di comunità, alla cura del bene
pubblico, genera il sapere collettivo necessario per risolvere i problemi
sistemici odierni, risultato non ottenibile con strutture gerarchiche basate
sulla concentrazione del potere e l’esclusione. Si pensi, per esempio, a wikipedia:
nessun’altra enciclopedia consentirebbe di raccogliere intelligenza e
conoscenza collettive di tale entità, in quanto, indipendentemente
dall’acutezza e cultura di un singolo, la somma di molti si rivela più sagace e
sapiente del singolo». Questa fiducia nel general intellect non
è certo malriposta in astratto (e Mattei è comunque consapevole che l’internet
non è un luogo dominato dall’orizzontalità), ma va sottoposta alla verifica
impietosa dei fatti. Dal 2014, il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki ha condotto diversi studi di caso sulla wikipedia in
lingua italiana, occupandosi soprattutto delle voci inerenti le vicende del
confine orientale italiano, la Resistenza e il secondo dopoguerra: ne è emerso
che gruppi di utenti di idee nazionaliste, neoirredentiste o in alcuni
casi tout court neofasciste hanno negli anni presidiato quelle
voci, con l’obiettivo di mantenerle orientate secondo il loro punto di vista.
Si tratta di utenti esperti, vale a dire con una militanza di lungo corso
su wikipedia e svariate migliaia di edit (cioè
interventi nelle voci dell’enciclopedia), e si tratta di utenti che si
coordinano e si danno reciprocamente manforte: ciò rende loro agevole bloccare
l’iniziativa di altri utenti, non adeguatamente organizzati o attivi su wikipedia da
poco tempo, che tentassero di migliorare le voci presidiate. Di nuovo, è una
questione di rapporti di forza. Mai dimenticarsi del materialismo! Il risultato
è che nelle voci presidiate la storiografia più autorevole ha sempre fatto
fatica a entrare, o vi è entrata solo nominalmente, in bibliografia e non a
testo, o ancora è stata manipolata a forza di citazioni incomplete, tagliate e
cucite ad hoc. Almeno in una porzione della wikipedia in lingua
italiana, ma una porzione di rilevanza strategica, operano perciò quelle
«strutture gerarchiche basate sulla concentrazione del potere e l’esclusione»
di cui parla Mattei. Quando dico «importanza strategica», mi riferisco al
contenuto delle voci esaminate (la storia italiana soprattutto del secondo
Novecento), e alla possibilità di veicolarne un’interpretazione di destra più o
meno estrema, facendo leva sull’autorevolezza di cui wikipedia generalmente
gode nell’opinione pubblica, e sull’ideologia della neutralità che costituisce
uno dei suoi cinque pilastri. Ideologia che gli studi
di Nicoletta Bourbaki (e non solo quelli) hanno messo in questione.
3) Vengo alla metonimia che conclude la definizione da cui siamo partiti.
La ri-trascrivo per comodità di lettura: «la locuzione ‘beni comuni’ allude non
tanto a certi beni, quanto (soprattutto) a un intero assetto istituzionale che,
affermandosi tra il pubblico e il privato, aspira a costruire un rinnovato
circuito democratico: un pubblico non statalistico e un privato liberato
dall’individualismo possessivo».
Breve excursus terminologico: l’inciso «affermandosi tra
pubblico e privato» rimanda al titolo di almeno due libri molto influenti negli
studi sul comune. Uno è Commonwealth di Michael Hardt e Toni
Negri, alla cui traduzione italiana (Rizzoli 2010) è
stato aggiunto il sottotitolo oltre il privato e il pubblico,
assente nell’originale inglese. L’altro è il
volume collettaneo a cura di Maria Rosaria Marella, Oltre
il pubblico e il privato. per un diritto dei beni comuni (Ombre corte
2012). Anche l’espressione «individualismo possessivo» è ricorrente nel lessico
degli autori di Commonwealth: tra i tanti esempi a cui si può
rimandare, è interessante vedere questo
scritto di Negri, nelle cui conclusioni il filosofo
individua quello che ritiene essere un punto di convergenza tra la sua teoria
del comune e quella di Rodotà. Per riassumere in un giro di frase cos’è il
comune per Hardt e Negri, cito Girolamo
De Michele, che a sua volta cita una sententia di Commonwealth:
«Il comune di cui si sta parlando non è soltanto la terra che condividiamo, ma
anche il linguaggio che creiamo, le pratiche sociali che costituiamo, le forme
della socialità che definiscono i nostri rapporti». In quest’ottica, il termine
antitetico a «comune» è «privato», da intendere alla latina, cioè nel
significato dell’aggettivo sostantivato privatus. Scrive bene De
Michele: privatus è «colui al quale manca qualcosa, perché si
priva della relazione pubblica, cioè del pubblico interesse». Per completezza
preciso che, specialmente nella lingua giuridica, «privatus» – in opposizione a
«magistratus» – indicava in particolare il cittadino che non ricopriva alcuna
carica pubblica, avendo rinunciato – o non avendo ancora intrapreso – il cursus
honorum.
Ciò detto, cosa significa che i beni comuni alludono a un assetto
istituzionale che si afferma tra pubblico e privato? Ci si potrebbe chiedere se
le espressioni «tra il pubblico e il privato» e «oltre il pubblico e il
privato» siano equivalenti, o se abbiano sfumature di significato diverse.
Assumendo – come si fa comunemente – che i termini «pubblico» e «privato» siano
contrari, un assetto istituzionale che si afferma tra pubblico
e privato in logica sarebbe un terzo inclusivo, perché si frappone ai due
contrari, ma non li nega. Un assetto istituzionale che si afferma oltre il
pubblico e il privato sarebbe un terzo includente, perché, ponendosi al di là
del primo e del secondo termine, che sono contrari e dunque si negano a
vicenda, a sua volta li nega entrambi e li supera dialetticamente.
Messa così, però, la questione è formale e un po’ oziosa. Prendiamo la
definizione per com’è scritta, senza sottoporla a inutili sminuzzamenti. La
parafraso: le istituzioni del comune sono in grado di condizionare sia la sfera
pubblica, liberandola dallo statalismo, sia quella privata, liberandola
dall’individualismo possessivo.
Se nei termini puramente logici in cui l’ho posta, la questione è formale e
oziosa, qual è quindi la sostanza? La sostanza è che questa definizione lascia
aperto un problema, vorrei dire, di teoria dello stato: è questa l’ambiguità
che segnalavo al punto 2). Da un lato è invocata la convivenza tra le regole
del comune e gli istituti della democrazia rappresentativa. Dall’altro si
avanza l’aspirazione a giungere, per il tramite del comune, a un pubblico non
statalista. La domanda a cui quindi mi sembra che la definizione non risponda
con chiarezza è questa. Il pubblico non statalista è compatibile con la forma
di stato attuale? Detta come va detta: il pubblico non statalista è compatibile
con lo stato borghese, sub specie di democrazia pluralistica
in un’economia di mercato? Se la risposta fosse affermativa, potrebbe da sola
la categoria dei beni comuni, seppure con le buone pratiche che presuppone,
eliminare la corruzione ambientale e la burocratizzazione oppressiva, additate
a ragione come vizi dello statalismo? O non sono questi, più radicalmente,
difetti strutturali del capitalismo?
Se la risposta alla prima domanda fosse invece negativa, a quale teoria dello
stato e dei rapporti internazionali s’accompagnerebbe o metterebbe capo la
categoria dei beni comuni? Quale forma assumerebbe la democrazia radicale
evocata al punto 2) della definizione? Uno stato ci sarebbe ancora o dovrebbe
estinguersi? Con o senza un periodo di transizione? Irrigidisco a bella posta
la domanda: riforma o rivoluzione?
Per concludere. Un luogo comune storiografico che prendeva di mira già la
giurisprudenza romana vuole che i giuristi rifuggano le definizioni, e
preferiscano usare le parole nel significato socialmente accettato. È un luogo
comune in cui c’è qualcosa di vero, ma c’è anche molto di falso. Certo non si
può dire che la dottrina giuridica non si sia affaticata sulla definizione di
beni comuni. Se sull’accezione tecnica dell’espressione sembra esserci un
sostanziale accordo nell’accettare quella delineata nel progetto di riforma
presentato dalla commissione Rodotà nel 2008, le differenze si danno quando si
tratta di stabilire come questa categoria debba essere usata politicamente.
Qui, anche tra le giuriste e i giuristi, strategie e tattiche si diversificano.
È per questo motivo, io credo, che riesce difficile elaborare una definizione
unitaria non ambigua dei beni comuni che assommi i due piani del diritto e
della politica. Ed è per questo, inoltre, che quando li si definisce in ottica
politica, andrebbe sempre esplicitato non dico per forza l’orizzonte teorico,
ma l’obiettivo strategico che s’intende raggiungere per il loro tramite.
*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta
Bourbaki. Scrive di uso politico del diritto penale e di antifascismo. Ha una
seconda identità di pianista e critico musicale.
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