domenica 28 luglio 2019

Cosa sono i “Beni comuni”? - Luca Casarotti



Nel febbraio 2008, una commissione istituita l’anno prima dal ministro della giustizia (era Clemente Mastella), e presieduta da Stefano Rodotà, presentò allo stesso ministro della giustizia (era ancora Mastella) il progetto per una riforma che mirava tra l’altro a introdurre nell’ordinamento giuridico italiano una disciplina organica dei beni comuni. La Commissione Rodotà si era anzitutto premurata di darne una definizione: «Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona». La commissione precisava ancora che tali utilità dovessero essere tutelate anche avendo riguardo alle generazioni future. Dunque, secondo questa definizione, un bene non è comune tanto per una sua qualità naturale, quanto in relazione al fine che consente di perseguire: ossia, come ha più volte precisato lo stesso Rodotà, l’attuazione dei diritti costituzionali della persona. Diritti il cui catalogo lo studioso auspicava che venisse ampliato e aggiornato a causa dell’emergere di nuovi bisogni individuali e collettivi. Con ciò ovviamente non si esclude che un bene sia comune per natura, quando questa soddisfa quel vincolo finalistico.
Caduto il governo Prodi allora in carica, il progetto di riforma è stato in sostanza abbandonato, a dispetto dei molti sforzi – compiuti anche recentemente – di portarlo a nuova vita. Il che non ha impedito alla Corte di Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite 14 febbraio 2011 n. 3665, di accogliere la definizione di beni comuni contenuta in quel progetto (per approfondire l’iter giurisprudenziale che ha condotto a quest’esito, vedi qui). Ancora, il fallimento del progetto di riforma non ha impedito alla riflessione sui beni comuni di dare impulso alla fase più alta del movimento che si è battuto contro la privatizzazione del servizio idrico, culminata con la vittoria ai referendum del 2011.
Per contro, anche (se non soprattutto) sull’onda dell’esito referendario, si è cominciato a parlare di beni comuni nei contesti più vari, a proposito e a sproposito, con l’effetto inevitabile di rendere sempre più vago e inafferrabile il significato dell’espressione. Nel vocabolario politico, il lemma «beni comuni» ha così perso intensione; la sua definizione si è dilatata al punto da non connotare più nulla di preciso. Lo nota giustamente Rocco Alessio Albanese nel testo su Democrazia e beni comuni, pubblicato nella sezione utopie reali del terzo numero di Jacobin Italia. Evocando un concetto riportato in auge nel lessico della filosofia politica da Ernesto Laclau, Albanese scrive che «negli ultimi dieci anni i beni comuni sono diventati un significante vuoto». L’esempio scelto per dimostrarlo non potrebbe essere più calzante: la coalizione di centrosinistra si è presentata alle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013 con il nome «Italia, bene comune». Un nome che suonava antifrastico per un rassemblement guidato da un partito liberista, il Pd, a sua volta guidato da un segretario, Pierluigi Bersani, noto – metafore a parte – soprattutto per le liberalizzazioni approvate quando era ministro per lo sviluppo economico. Vogliamo fare un esempio ancora più attuale? Marco Minniti, colui che ha preceduto Matteo Salvini al vertice del ministero dell’interno, non si stanca di ripetere che la sicurezza è un bene comune. Nel suo La buona educazione degli oppressi (Alegre, 2019), Wolf Bukowski spiega che quando si dice «sicurezza» si dice «decoro», e che attraverso il cortocircuito tra questi due termini, soprattutto negli ultimi dieci anni, il legislatore è giunto sovente a negare i diritti e la dignità della persona: sicurezza e decoro svolgono perciò una funzione esattamente opposta a quella assegnata ai beni comuni dalla commissione Rodotà.
Preso atto di questo progressivo svuotamento di significato, Albanese prova a risemantizzare l’espressione «beni comuni» ipotizzandone una definizione che tenga insieme il piano giuridico e quello politico. La definizione è articolata in tre passaggi. L’assunto di partenza è che i beni comuni sono l’opposto della proprietà (1). «Prendersi cura dei beni comuni», chiosa Albanese, «è occasione per liberarsi dall’individualismo proprietario, per costruire – con i beni e nelle comunità che si definiscono a partire dal loro uso – forme inclusive di relazione e di appartenenza». Affermazione, quest’ultima, che sposta (o meglio: allarga) la visuale dal diritto alla politica, e conduce al secondo passaggio: dato che «tutti e ciascuno possono accedere alla [loro] fruizione», «I beni comuni fanno tutt’uno con le ipotesi e i tentativi di sperimentare forme di democrazia radicale. Si pongono accanto e oltre il suffragio universale, la democrazia rappresentativa e il principio di maggioranza» (2). Ne deriva la proposta d’intendere la locuzione «beni comuni» come una metonimia: essa «allude non tanto a certi beni, quanto (soprattutto) a un intero assetto istituzionale che, affermandosi tra il pubblico e il privato, aspira a costruire un rinnovato circuito democratico: un pubblico non statalistico e un privato liberato dall’individualismo possessivo» (3). Da questa definizione vorrei ora prendere spunto per le mie considerazioni: nel farlo, seguirò i tre passaggi che ho appena isolato.
1) Cos’è l’opposto della proprietà? Verrebbe da rispondere che l’opposto della proprietà è il comunismo. Più d’un teorico del comune non alzerebbe il sopracciglio a fronte di questa risposta, che a livello lessicale non ha oltretutto nulla di scandaloso: in fondo, «comunismo» è il sostantivo derivato dall’aggettivo che qualifica i beni di cui stiamo parlando: prova ne sia che l’appellativo gergale con cui talvolta ci si riferisce a chi si occupa di beni comuni è «benecomunista». Ma non è il comunismo integrale l’orizzonte in cui si muoveva chi ha reso celebre la massima «i beni comuni sono l’opposto della proprietà»: cioè, ancora una volta, Stefano Rodotà.
Rodotà pensava l’opposto della proprietà come un regime in cui l’accesso (ovvero l’uso, la fruizione) del bene e la sua gestione (cioè il suo governo) sono collettivi e diretti e non producono profitto. Quando la gestione non può essere diretta a causa del numero troppo elevato dei fruitori, questa deve quantomeno essere partecipata, cioè coinvolgere una rappresentanza significativa di coloro che hanno accesso al bene. Il regime teorizzato da Rodotà riguarda però solo la categoria dei beni comuni, vale a dire quelli che rientrano nella definizione contenuta nel progetto di riforma del 2008, e presuppone la Costituzione repubblicana vigente, pur nell’auspicio di una sua riforma che estenda il catalogo dei diritti della persona. Ma la Costituzione riconosce e garantisce la proprietà pubblica, la proprietà privata, e la trasmissione di quest’ultima per via successoria (art. 42). Dunque, l’idea di Rodotà era che il regime dei beni comuni e quello della proprietà privata, applicandosi a generi diversi di cose, potessero convivere nello stesso ordinamento giuridico. Su tutto ciò, rimando al saggio Verso i beni comuni, ora compreso nella raccolta di scritti uscita postuma con il titolo Vivere la democrazia (Laterza, 2018).
Ancora più esplicito è Ugo Mattei, che accetta la qualificazione dei beni comuni come opposto della proprietà, ma in un suo saggio apparso nel 2017 chiarisce: «I beni comuni […] non sono nemici della proprietà individuale, ma soltanto degli eccessi legati al suo accumulo. Allo stesso modo non sono ostili al Governo, ma si prefiggono soltanto di limitare le concentrazioni eccessive di potere, attraverso decisioni dirette assunte dalla comunità, in base al riscontro da parte dei fruitori». Nello stesso scritto, il giurista torinese aggiunge: «Questo processo [il commoning] finirà per cambiare le regole di fondo del sistema sociale attuale in modo tale che il diritto, anche senza battaglie per introdurre alcune eccezioni alla logica estrattiva, favorisca di regola i beni comuni, proprio come oggi invece si mostra favorevole alla proprietà privata».
Va detto che lo stesso Mattei, in un testo comunque divulgativo qual è il manifesto per i beni comuni (Laterza 2011), affrontava il tema in modo molto più critico. Le citazioni che ho tratto dall’articolo più recente sembrano tuttavia tratteggiare una visione ottimistica secondo la quale non è necessario ipotizzare una rottura dell’ordine giuridico, perché nella tendenza le pratiche di fruizione e gestione comunitaria dei beni avranno l’effetto di perequare l’allocazione delle risorse. Un po’ come se la mano invisibile del mercato fosse destinata a cedere il posto alle buone pratiche del commoning. Ma se questi processi hanno per obiettivo d’impedire le distorsioni dovute all’accumulo di proprietà privata e di limitare le concentrazioni di potere, che fare quando l’accumulazione è in atto o si è già data? Cioè, che fare nella realtà in cui viviamo? Mattei non nega che sia utile ricorrere all’espropriazione. È chiaro però che, per contrastare seriamente il livello attuale di concentrazione della ricchezza, l’espropriazione dovrebbe darsi su vasta scala. Si pongono allora, direi, due questioni. La prima: quanto all’Italia, se si accetta la premessa che debba effettuarsi senza la rottura radicale dell’ordine giuridico, allora l’espropriazione deve essere disposta per legge, e previo indennizzo dell’espropriato, come prevedono gli artt. 42, comma III, e 43 della Costituzione. Sappiamo che l’art. 43, specie nella parte in cui prevede la possibilità di affidare al controllo di comunità di lavoratori o di utenti determinate categorie d’imprese (quelle che operano nel settore dei servizi pubblici essenziali, in quello dell’energia, o in regime di monopolio), non è costituzione materiale del paese. I principi costituzionali sull’espropriazione devono oltretutto fare i conti con i vincoli imposti dal diritto dell’Unione europea (art. 117, comma I, cost.), improntato alla tutela quasi assoluta della libera concorrenza. Seconda questione, che si può considerare dipendente o indipendente dalla prima. Ammettendo in astratto che lo si possa fare conservando l’integrità dell’ordine giuridico, quale soggetto potrebbe imporre al parlamento di approvare leggi che dispongano un vasto programma di espropriazioni come quello che stiamo ipotizzando? Io rimango classicamente dell’idea che la questione debba porsi in termini di classe e non di popolo sovrano. Non è (o non è solo) per la scarsa lungimiranza dei governanti che l’espropriazione della grande proprietà privata è così tanto chimerica ai giorni nostri. È che non si può chiedere a chi ha la proprietà dei mezzi di produzione, cioè alla borghesia, di approvare un programma d’espropri in danno di sé stessa. Il compito spetterebbe semmai alla classe lavoratrice. Il che resta vero anche se si rifiuta la premessa dell’integrità dell’ordine giuridico, e quindi si accetta l’ipotesi rivoluzionaria.
2) Cosa significa che i beni comuni «si pongono accanto e oltre il suffragio universale, la democrazia rappresentativa e il principio di maggioranza»? A prima vista, i due avverbi di luogo (figurato) «accanto» e «oltre» sembrerebbero contraddirsi. Chiamo in causa solo per un attimo la dialettica. L’avverbio «accanto» suggerisce l’idea di un nesso di azione reciproca (o compenetrazione degli opposti), dove i termini in contrasto si condizionano a vicenda, ma vengono entrambi mantenuti, nel senso che l’uno non nega l’altro. Avremmo dunque che le pratiche del comune condizionano gli istituti fondamentali della contemporanea democrazia – uso l’aggettivo con molta cautela – occidentale (suffragio universale, principio della rappresentatività e principio di maggioranza), ma anche che questi ultimi condizionano le prime. L’esito di questa concezione mi pare che si possa riassumere così: il commoning dovrebbe sottrarre determinati ambiti della politica all’applicazione rigida delle regole della rappresentatività e della maggioranza, alle quali si sostituirebbe l’assunzione diretta/partecipata e consensuale delle decisioni. Regola della rappresentatività e principio di maggioranza tornerebbero a operare quando non sia possibile coinvolgere nella decisione da assumere tutte e tutti gli interessati. L’esperienza maturata nella pratica del commoning farebbe tuttavia in modo che ciascuno agisca anche la democrazia rappresentativa con maggiore consapevolezza.
Al contrario, l’avverbio «oltre» suggerisce l’idea di un movimento dialettico di superamento, o negazione della negazione: in questo caso, avremmo che le pratiche del comune, intese come negazione delle regole della democrazia rappresentativa, sorte e sviluppatesi a loro volta dalla negazione dell’assolutismo monarchico, mirerebbero a superare quella forma di stato e a instaurarne una diversa.
Ho banalizzato in poche righe argomenti molto più grandi delle mie capacità. E ad ogni modo credo che insistere sulla contraddizione tra «accanto» e «oltre» sia soltanto una mia pignoleria linguistica. Probabilmente, quell’oltre vuole solo rafforzare l’accanto, e quindi l’ottica è quella della complementarità tra regime dei beni comuni e regole della democrazia rappresentativa a suffragio universale. Un’ambiguità tuttavia rimane, e ne dirò al punto 3.
Qui invece mi preme soprattutto rendere esplicito un altro problema, che occorre avere sempre presente quando si ragiona sulla gestione dei beni in comune. Una premessa: la riflessione sui beni comuni spazia dal piccolo (un immobile recuperato a uso sociale) all’infinitamente grande, come nel caso dei beni dichiarati patrimonio comune dell’umanità (fondo del mare, Antartide, spazio extratmosferico etc.). Possiamo lasciare da parte il patrimonio comune dell’umanità e l’intrico di questioni di diritto internazionale che suscita. Il problema a cui alludevo è messo molto lucidamente in evidenza da Maria Rosaria Marella: la comunità che gestisce un bene, osserva la studiosa, può essere inclusiva o escludente, sessista o antisessista, razzista o antirazzista. Aggiungo: una comunità, piccola o grande che sia, è attraversata da conflitti e plasmata da rapporti di forza. Non è detto che la gestione comunitaria di un bene sia buona in sé. Dipende dalla prassi.
Ancora Ugo Mattei mi dà l’occasione di fare un esempio per illustrare quel che intendo dire. Nel suo saggio già linkato sopra, Mattei scrive: «Il commoning, definito come partecipazione, in qualità di comunità, alla cura del bene pubblico, genera il sapere collettivo necessario per risolvere i problemi sistemici odierni, risultato non ottenibile con strutture gerarchiche basate sulla concentrazione del potere e l’esclusione. Si pensi, per esempio, a wikipedia: nessun’altra enciclopedia consentirebbe di raccogliere intelligenza e conoscenza collettive di tale entità, in quanto, indipendentemente dall’acutezza e cultura di un singolo, la somma di molti si rivela più sagace e sapiente del singolo». Questa fiducia nel general intellect non è certo malriposta in astratto (e Mattei è comunque consapevole che l’internet non è un luogo dominato dall’orizzontalità), ma va sottoposta alla verifica impietosa dei fatti. Dal 2014, il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki ha condotto diversi studi di caso sulla wikipedia in lingua italiana, occupandosi soprattutto delle voci inerenti le vicende del confine orientale italiano, la Resistenza e il secondo dopoguerra: ne è emerso che gruppi di utenti di idee nazionaliste, neoirredentiste o in alcuni casi tout court neofasciste hanno negli anni presidiato quelle voci, con l’obiettivo di mantenerle orientate secondo il loro punto di vista. Si tratta di utenti esperti, vale a dire con una militanza di lungo corso su wikipedia e svariate migliaia di edit (cioè interventi nelle voci dell’enciclopedia), e si tratta di utenti che si coordinano e si danno reciprocamente manforte: ciò rende loro agevole bloccare l’iniziativa di altri utenti, non adeguatamente organizzati o attivi su wikipedia da poco tempo, che tentassero di migliorare le voci presidiate. Di nuovo, è una questione di rapporti di forza. Mai dimenticarsi del materialismo! Il risultato è che nelle voci presidiate la storiografia più autorevole ha sempre fatto fatica a entrare, o vi è entrata solo nominalmente, in bibliografia e non a testo, o ancora è stata manipolata a forza di citazioni incomplete, tagliate e cucite ad hoc. Almeno in una porzione della wikipedia in lingua italiana, ma una porzione di rilevanza strategica, operano perciò quelle «strutture gerarchiche basate sulla concentrazione del potere e l’esclusione» di cui parla Mattei. Quando dico «importanza strategica», mi riferisco al contenuto delle voci esaminate (la storia italiana soprattutto del secondo Novecento), e alla possibilità di veicolarne un’interpretazione di destra più o meno estrema, facendo leva sull’autorevolezza di cui wikipedia generalmente gode nell’opinione pubblica, e sull’ideologia della neutralità che costituisce uno dei suoi cinque pilastri. Ideologia che gli studi di Nicoletta Bourbaki (e non solo quelli) hanno messo in questione.
3) Vengo alla metonimia che conclude la definizione da cui siamo partiti. La ri-trascrivo per comodità di lettura: «la locuzione ‘beni comuni’ allude non tanto a certi beni, quanto (soprattutto) a un intero assetto istituzionale che, affermandosi tra il pubblico e il privato, aspira a costruire un rinnovato circuito democratico: un pubblico non statalistico e un privato liberato dall’individualismo possessivo».
Breve excursus terminologico: l’inciso «affermandosi tra pubblico e privato» rimanda al titolo di almeno due libri molto influenti negli studi sul comune. Uno è Commonwealth di Michael Hardt e Toni Negri, alla cui traduzione italiana (Rizzoli 2010) è stato aggiunto il sottotitolo oltre il privato e il pubblico, assente nell’originale inglese. L’altro è il volume collettaneo a cura di Maria Rosaria Marella, Oltre il pubblico e il privato. per un diritto dei beni comuni (Ombre corte 2012). Anche l’espressione «individualismo possessivo» è ricorrente nel lessico degli autori di Commonwealth: tra i tanti esempi a cui si può rimandare, è interessante vedere questo scritto di Negri, nelle cui conclusioni il filosofo individua quello che ritiene essere un punto di convergenza tra la sua teoria del comune e quella di Rodotà. Per riassumere in un giro di frase cos’è il comune per Hardt e Negri, cito Girolamo De Michele, che a sua volta cita una sententia di Commonwealth: «Il comune di cui si sta parlando non è soltanto la terra che condividiamo, ma anche il linguaggio che creiamo, le pratiche sociali che costituiamo, le forme della socialità che definiscono i nostri rapporti». In quest’ottica, il termine antitetico a «comune» è «privato», da intendere alla latina, cioè nel significato dell’aggettivo sostantivato privatus. Scrive bene De Michele: privatus è «colui al quale manca qualcosa, perché si priva della relazione pubblica, cioè del pubblico interesse». Per completezza preciso che, specialmente nella lingua giuridica, «privatus» – in opposizione a «magistratus» – indicava in particolare il cittadino che non ricopriva alcuna carica pubblica, avendo rinunciato – o non avendo ancora intrapreso – il cursus honorum.
Ciò detto, cosa significa che i beni comuni alludono a un assetto istituzionale che si afferma tra pubblico e privato? Ci si potrebbe chiedere se le espressioni «tra il pubblico e il privato» e «oltre il pubblico e il privato» siano equivalenti, o se abbiano sfumature di significato diverse. Assumendo – come si fa comunemente – che i termini «pubblico» e «privato» siano contrari, un assetto istituzionale che si afferma tra pubblico e privato in logica sarebbe un terzo inclusivo, perché si frappone ai due contrari, ma non li nega. Un assetto istituzionale che si afferma oltre il pubblico e il privato sarebbe un terzo includente, perché, ponendosi al di là del primo e del secondo termine, che sono contrari e dunque si negano a vicenda, a sua volta li nega entrambi e li supera dialetticamente.
Messa così, però, la questione è formale e un po’ oziosa. Prendiamo la definizione per com’è scritta, senza sottoporla a inutili sminuzzamenti. La parafraso: le istituzioni del comune sono in grado di condizionare sia la sfera pubblica, liberandola dallo statalismo, sia quella privata, liberandola dall’individualismo possessivo.
Se nei termini puramente logici in cui l’ho posta, la questione è formale e oziosa, qual è quindi la sostanza? La sostanza è che questa definizione lascia aperto un problema, vorrei dire, di teoria dello stato: è questa l’ambiguità che segnalavo al punto 2). Da un lato è invocata la convivenza tra le regole del comune e gli istituti della democrazia rappresentativa. Dall’altro si avanza l’aspirazione a giungere, per il tramite del comune, a un pubblico non statalista. La domanda a cui quindi mi sembra che la definizione non risponda con chiarezza è questa. Il pubblico non statalista è compatibile con la forma di stato attuale? Detta come va detta: il pubblico non statalista è compatibile con lo stato borghese, sub specie di democrazia pluralistica in un’economia di mercato? Se la risposta fosse affermativa, potrebbe da sola la categoria dei beni comuni, seppure con le buone pratiche che presuppone, eliminare la corruzione ambientale e la burocratizzazione oppressiva, additate a ragione come vizi dello statalismo? O non sono questi, più radicalmente, difetti strutturali del capitalismo?
Se la risposta alla prima domanda fosse invece negativa, a quale teoria dello stato e dei rapporti internazionali s’accompagnerebbe o metterebbe capo la categoria dei beni comuni? Quale forma assumerebbe la democrazia radicale evocata al punto 2) della definizione? Uno stato ci sarebbe ancora o dovrebbe estinguersi? Con o senza un periodo di transizione? Irrigidisco a bella posta la domanda: riforma o rivoluzione?
Per concludere. Un luogo comune storiografico che prendeva di mira già la giurisprudenza romana vuole che i giuristi rifuggano le definizioni, e preferiscano usare le parole nel significato socialmente accettato. È un luogo comune in cui c’è qualcosa di vero, ma c’è anche molto di falso. Certo non si può dire che la dottrina giuridica non si sia affaticata sulla definizione di beni comuni. Se sull’accezione tecnica dell’espressione sembra esserci un sostanziale accordo nell’accettare quella delineata nel progetto di riforma presentato dalla commissione Rodotà nel 2008, le differenze si danno quando si tratta di stabilire come questa categoria debba essere usata politicamente. Qui, anche tra le giuriste e i giuristi, strategie e tattiche si diversificano. È per questo motivo, io credo, che riesce difficile elaborare una definizione unitaria non ambigua dei beni comuni che assommi i due piani del diritto e della politica. Ed è per questo, inoltre, che quando li si definisce in ottica politica, andrebbe sempre esplicitato non dico per forza l’orizzonte teorico, ma l’obiettivo strategico che s’intende raggiungere per il loro tramite.

*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Scrive di uso politico del diritto penale e di antifascismo. Ha una seconda identità di pianista e critico musicale.


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