mercoledì 17 luglio 2019

Lo scarpone militare affonda nel pantano artico - Elena Camino


Permafrost  e military bootprint
Non ci sono traduzioni in un italiano di uso corrente per queste due espressioni.  La parola permafrost – che viene citata con crescente frequenza non solo dalle pubblicazioni scientifiche, ma anche dai media – è un termine inglese composto da ‘perma’ (cioè permanente) e ‘frost’ (gelato).  Questa parola indica un terreno tipico delle regioni del  Nord Europa, della Siberia e dell’America settentrionale, dove il suolo è perennemente ghiacciato (non necessariamente con presenza di masse di acqua congelata) fino a profondità di 1 km e più da almeno due anni.

Military bootprint si può tradurre come ‘impronta dello scarpone militare’ – che richiama il concetto, ormai abbastanza diffuso, di ‘impronta ecologica’ – e in questo caso fornisce un’indicazione (più che una misura) dell’impatto ambientale esercitato dall’apparato militare sul pianeta.
Che relazioni ci possono essere tra i due? Un abile disegnatore potrebbe esprimerlo con una vignetta. Io ci proverò a parole.

Turbolenze nuove sul pianeta
Le trasformazioni climatiche in atto sul nostro pianeta vengono associate con crescente evidenza alle attività antropiche, e possono essere illustrate con molti esempi: uno dei più noti mette in relazione l’utilizzo dei combustibili fossili nelle attività estrattive e industriali, nei trasporti, negli scambi commerciali con la produzione di  un gas a effetto serra, CO2, che favorisce l’aumento della temperatura media dell’atmosfera e degli oceani. Ne consegue, secondo la maggioranza degli studiosi, un aumento della turbolenza dei flussi di aria e di acqua nell’atmosfera e negli oceani: cicloni e tempeste si abbattono con violenza anche in zone prima tranquille, in certe aree piove troppo, mentre in altre caldo e siccità mettono a rischio coltivazioni e vite umane; i monsoni e le grandi correnti oceaniche stanno diventando capricciosi e imprevedibili…

La fusione del permafrost: un punto di svolta?
Da alcuni anni è stata segnalato – tra le conseguenze del riscaldamento globale – un fenomeno che potrebbe avere effetti particolarmente gravi: la fusione del permafrost, che esporrebbe all’atmosfera una vasta regione del pianeta liberando rapidamente nell’atmosfera una grandissima quantità di gas serra che ne erano intrappolati.
I responsabili del sito ‘climalteranti’, molto attenti  a documentare in modo quantitativo i problemi climatici, hanno pubblicato nei giorni scorsi una nota (Quando i grafici inquietano) e hanno mostrato un  grafico in cui anche i non addetti ai lavori possono rendersi conto di una  anomalia – la linea rossa che sale bruscamente – che segnala un aumento inaspettato della fusione del permafrost in Groenlandia rispetto agli andamenti passati.
Una interessante carta interattiva consente ai lettori di avere una visione più ampia del fenomeno, e di fare paragoni con gli anni passati.
La fusione del permafrost è stata indicata già parecchi anni fa come uno dei possibili ‘tipping points’, ovvero punti di svolta, raggiunti i quali il nostro pianeta si innescano processi nuovi, irreversibili, che porteranno la Terra ad assumere nuove caratteristiche, alle quali con ogni probabilità le comunità umane risulteranno poco ‘adatte’. Il disegno qui sotto illustra in modo intuitivo un tipping point e le due strade che può prendere la Terra: girando verso sinistra (riducendo drasticamente il riscaldamento climatico) il pianeta può forse ‘stabilizzarsi’ in una situazione compatibile con la sopravvivenza umana. Se invece il riscaldamento continua, la Terra prosegue diritta (come una pallina che finisce in una buca) allontanandosi definitivamente dalla posizione che per miliardi di anni aveva reso possibile la meravigliosa evoluzione dei viventi. Il ‘tipping point’ diventa punto di ‘non ritorno’.

La fusione del permafrost è uno solo dei numerosi esempi di possibili ‘punti di svolta’, già previsti da tempo dagli scienziati: inversione delle correnti oceaniche, instabilità dei monsoni, estinzione delle foreste boreali… È possibile che più di uno di essi venga superato nello stesso periodo, con esiti che neppure i più potenti computer possono prevedere.

Dagli effetti alle cause: responsabilità taciute
Intanto i governanti di tutto il mondo si accapigliano nei loro giochi di potere, e rifiutano di prendere iniziative concrete ed efficaci per contrastare il crescente squilibrio dei sistemi ecologici… Non solo: le strategie che utilizzano nei loro bisticci sono tra le cause principali del dissesto ambientale: la preparazione delle guerre, le azioni di guerra e le conseguenze materiali delle guerre sono una delle principali fonti di emissione di gas serra (oltre che – ovviamente – di distruzioni sociali e ambientali).  Sono pochi, mal finanziati e spesso censurati gli studi che illustrano il contributo degli apparati militari alla produzione di gas serra. Si distinguono per la tenacia della loro denuncia alcuni gruppi di studiosi: uno è l’associazione inglese  ‘Scientists for Global Responsibility’, il cui Direttore, il  dottor Stuart Parkinson, terrà una conversazione nei prossimi giorni (il 29 giugno) sulle emissioni di CO2 prodotte dagli apparati militari in UK e nel mondo (The carbon bootprint of the military). Un’altra fonte preziosa di dati  proviene dal  Watson Institute della Brown University,  di cui fa parte Neta C. Crawford.   Gli interessi di questa ricercatrice sono molteplici: si occupa di teoria delle relazioni internazionali, processi decisioni, ruoli delle sanzioni, movimenti per la pace, aspetti etici, costruzione della pace dopo i conflitti.  E’ anche interessata ai metodi per comprendere costi e conseguenze della guerra, ed è  co-direttrice del Gruppo di Studio “Costs of War”).
In un lungo e dettagliato articolo da poco pubblicato (Pentagon Fuel Use, Climate Change,and the Costs of War) questa ricercatrice  presenta i calcoli che ha eseguito sulle emissioni di gas a effetto serra (espressi in tonnellate di CO2equivalente[1] prodotte dall’apparato militare USA dal 1975 al 2017.
Neta Crawford inizia l’articolo con alcune considerazioni generali: «con poche eccezioni – scrive – il contributo dell’apparato militare USA al cambiamento climatico ha ricevuto scarsa attenzione. Anche se il Dipartimento della Difesa ha ridotto i consumi di combustibili fossili dall’inizio degli anni 2000,  resta sempre il maggior consumatore di petrolio nel mondo». […]
Oggi è la Cina la maggiore produttrice di gas serra, seguita dagli Stati Uniti. Il solo Pentagono ha emesso, nel 2017, 59 milioni di tonnellate equivalenti di CO2, più del Portogallo, della Svezia o della Danimarca.
La Crawford fornisce poi dettagli sulle varie componenti delle emissioni: le maggiori fonti sono gli edifici (560.000 edifici in circa 500 installazioni – in USA e all’estero) e il combustibile: nel 2016 sono stati consumati 80 milioni di barili di petrolio per l’operatività. Gli aerei sono particolarmente ‘assetati’: il bombardiere B-2, che può contenere 25.600 galloni[2] di combustibile, in un  tragitto di 6000 miglia nautiche[3] emette 250 tonnellate di gas serra. Una singola missione richiede quantità enormi: nel gennaio 2017 due bombardieri B-2, accompagnati da 15 aerei per il rifornimento in volo, hanno viaggiato per 12.000 miglia, dalla base di Whiteman fino alla Libia, per bombardare dei bersagli ISIS (e hanno ucciso 80 sospetti militanti  ISIS) emettendo 1000 tonnellate di gas serra (senza contare quelli emessi dagli aerei di rifornimento).
«Quantificare le  emissioni di gas serra delle attività militari non è facile» – dichiara la studiosa.  Tuttavia, usando i dati ufficiali pubblicati dal Dipartimento  dell’Energia e considerando solo le operazioni di guerra si stima  che tra il 2001 e il 2017 in Afghanistan, Pakistan, Iraq e Siria che abbiano generato  più di 400 milioni di tonnellate di CO2 equivalente — circa pari alle emissioni prodotte in un anno da 85 milioni di automobili.
Neta Crawford esprime chiaramente il suo parere: «secondo me – scrive – nessuno degli avversari degli Stati Uniti – Russia, Iran, Cina, Nord Corea – pensa di attaccare gli Stati Uniti.  …Invece, il cambiamento climatico non è un potenziale rischio, ma una realtà, con conseguenze concrete per gli USA. Se non si riducono le emissioni diventeranno più plausibili i peggiori scenari, forse anche le ‘guerre climatiche’».

Una strategia obsoleta
Fare la guerra per affermare le proprie ragioni continua ad essere considerata un’opzione valida – non solo da governanti e militari – ma purtroppo da molta parte della società ‘civile’.  Nonostante l’evidenza di una situazione di massimo rischio nucleare (l’orologio dell’apocalisse segna 2 minuti alla fine) e nonostante la realtà presente – di una trasformazione in atto dei sistemi di regolazione del nostro pianeta – sembra impossibile trovare, a livello mondiale, la forza e la determinazione per un cambiamento radicale. L’immagine di truppe di soldati – a milioni – che sprofondano nel permafrost che fonde nelle vaste distese del Nord, mentre nel Sud del mondo  vaste comunità sono costrette a migrare da foreste morenti e campagne inaridite, potrebbe diventare uno stimolo per lottare – con le armi della nonviolenza e del buonsenso – contro la stupidità e la crudeltà.   Proviamo a bandire un concorso grafico? Nessuna classifica, per piacere, solo un moltiplicarsi di vignette che con ironia ed empatia ci spronino all’azione.

[1] Tonnellata di CO2 equivalente: è un’unità di misura che permette di pesare insieme emissioni di gas serra diversi con differenti effetti climalteranti.
[2] 1 gallone è circa 3,7 litri
[3] 1 miglio nautico = 1,8 km

da qui

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