Permafrost e military bootprint
Non ci sono traduzioni in un italiano di uso corrente per queste due
espressioni. La parola permafrost – che viene citata con
crescente frequenza non solo dalle pubblicazioni scientifiche, ma anche dai
media – è un termine inglese composto da ‘perma’ (cioè permanente) e ‘frost’
(gelato). Questa parola indica un terreno tipico delle
regioni del Nord Europa,
della Siberia e
dell’America
settentrionale, dove il suolo è
perennemente ghiacciato (non
necessariamente con presenza di masse di acqua congelata) fino a profondità di
1 km e più da almeno due anni.
Military bootprint si può tradurre come ‘impronta dello scarpone
militare’ – che richiama il concetto, ormai abbastanza diffuso, di ‘impronta
ecologica’ – e in questo caso fornisce un’indicazione (più che una misura)
dell’impatto ambientale esercitato dall’apparato militare sul pianeta.
Che relazioni ci possono essere tra i due? Un abile disegnatore potrebbe
esprimerlo con una vignetta. Io ci proverò a parole.
Turbolenze nuove sul pianeta
Le trasformazioni climatiche in atto sul nostro pianeta vengono associate
con crescente evidenza alle attività antropiche, e possono essere illustrate
con molti esempi: uno dei più noti mette in relazione l’utilizzo dei
combustibili fossili nelle attività estrattive e industriali, nei trasporti,
negli scambi commerciali con la produzione di un gas a effetto serra, CO2,
che favorisce l’aumento della temperatura media dell’atmosfera e degli oceani.
Ne consegue, secondo la maggioranza degli studiosi, un aumento della turbolenza
dei flussi di aria e di acqua nell’atmosfera e negli oceani: cicloni e tempeste
si abbattono con violenza anche in zone prima tranquille, in certe aree piove
troppo, mentre in altre caldo e siccità mettono a rischio coltivazioni e vite
umane; i monsoni e le grandi correnti oceaniche stanno diventando capricciosi e
imprevedibili…
La fusione del permafrost: un punto di svolta?
Da alcuni anni è stata segnalato – tra le conseguenze del riscaldamento
globale – un fenomeno che potrebbe avere effetti particolarmente gravi: la
fusione del permafrost, che esporrebbe all’atmosfera una vasta regione del
pianeta liberando rapidamente nell’atmosfera una grandissima quantità di gas
serra che ne erano intrappolati.
I responsabili del sito ‘climalteranti’,
molto attenti a documentare in modo quantitativo i problemi climatici,
hanno pubblicato nei giorni scorsi una nota (Quando i grafici inquietano)
e hanno mostrato un grafico in cui anche i non addetti ai lavori possono
rendersi conto di una anomalia – la linea rossa che sale bruscamente –
che segnala un aumento inaspettato della fusione del permafrost in Groenlandia
rispetto agli andamenti passati.
Una interessante carta
interattiva consente ai lettori di avere una visione più ampia
del fenomeno, e di fare paragoni con gli anni passati.
La fusione del permafrost è stata indicata già parecchi anni fa come uno
dei possibili ‘tipping points’, ovvero punti di svolta, raggiunti i
quali il nostro pianeta si innescano processi nuovi, irreversibili, che
porteranno la Terra ad assumere nuove caratteristiche, alle quali con ogni
probabilità le comunità umane risulteranno poco ‘adatte’. Il disegno qui sotto
illustra in modo intuitivo un tipping point e le due strade che può prendere la
Terra: girando verso sinistra (riducendo drasticamente il riscaldamento
climatico) il pianeta può forse ‘stabilizzarsi’ in una situazione compatibile
con la sopravvivenza umana. Se invece il riscaldamento continua, la Terra
prosegue diritta (come una pallina che finisce in una buca) allontanandosi
definitivamente dalla posizione che per miliardi di anni aveva reso possibile
la meravigliosa evoluzione dei viventi. Il ‘tipping point’ diventa punto di
‘non ritorno’.
La fusione del permafrost è uno solo dei numerosi esempi di possibili
‘punti di svolta’, già previsti da tempo dagli scienziati: inversione delle
correnti oceaniche, instabilità dei monsoni, estinzione delle foreste boreali… È
possibile che più di uno di essi venga superato nello stesso periodo, con esiti
che neppure i più potenti computer possono prevedere.
Dagli effetti alle cause: responsabilità taciute
Intanto i governanti di tutto il mondo si accapigliano nei loro giochi di
potere, e rifiutano di prendere iniziative concrete ed efficaci per contrastare
il crescente squilibrio dei sistemi ecologici… Non solo: le strategie che
utilizzano nei loro bisticci sono tra le cause principali del dissesto
ambientale: la preparazione delle guerre, le azioni di guerra e le conseguenze
materiali delle guerre sono una delle principali fonti di emissione di gas
serra (oltre che – ovviamente – di distruzioni sociali e ambientali).
Sono pochi, mal finanziati e spesso censurati gli studi che illustrano il
contributo degli apparati militari alla produzione di gas serra. Si distinguono
per la tenacia della loro denuncia alcuni gruppi di studiosi: uno è
l’associazione inglese ‘Scientists for
Global Responsibility’, il cui Direttore, il dottor Stuart
Parkinson, terrà una conversazione nei prossimi giorni (il 29 giugno) sulle
emissioni di CO2 prodotte dagli apparati militari in UK e nel
mondo (The carbon
bootprint of the military). Un’altra fonte preziosa di dati
proviene dal Watson Institute della Brown University, di cui fa
parte Neta C.
Crawford. Gli interessi di questa ricercatrice sono
molteplici: si occupa di teoria delle relazioni internazionali, processi
decisioni, ruoli delle sanzioni, movimenti per la pace, aspetti etici,
costruzione della pace dopo i conflitti. E’ anche interessata ai metodi
per comprendere costi e conseguenze della guerra, ed è co-direttrice del
Gruppo di Studio “Costs of War”).
In un lungo e dettagliato articolo da poco pubblicato (Pentagon Fuel
Use, Climate Change,and the Costs of War) questa ricercatrice
presenta i calcoli che ha eseguito sulle emissioni di gas a effetto serra
(espressi in tonnellate di CO2equivalente[1] prodotte
dall’apparato militare USA dal 1975 al 2017.
Neta Crawford inizia l’articolo con alcune considerazioni generali: «con
poche eccezioni – scrive – il contributo dell’apparato militare USA al
cambiamento climatico ha ricevuto scarsa attenzione. Anche se il Dipartimento
della Difesa ha ridotto i consumi di combustibili fossili dall’inizio degli
anni 2000, resta sempre il maggior consumatore di petrolio nel mondo».
[…]
Oggi è la Cina la maggiore produttrice di gas serra, seguita dagli Stati
Uniti. Il solo Pentagono ha emesso, nel 2017, 59 milioni di tonnellate
equivalenti di CO2, più del Portogallo, della Svezia o della
Danimarca.
La Crawford fornisce poi dettagli sulle varie componenti delle emissioni:
le maggiori fonti sono gli edifici (560.000 edifici in circa 500 installazioni
– in USA e all’estero) e il combustibile: nel 2016 sono stati consumati 80
milioni di barili di petrolio per l’operatività. Gli aerei sono particolarmente
‘assetati’: il bombardiere B-2, che può contenere 25.600 galloni[2] di
combustibile, in un tragitto di 6000 miglia nautiche[3] emette
250 tonnellate di gas serra. Una singola missione richiede quantità enormi: nel
gennaio 2017 due bombardieri B-2, accompagnati da 15 aerei per il rifornimento
in volo, hanno viaggiato per 12.000 miglia, dalla base di Whiteman fino alla
Libia, per bombardare dei bersagli ISIS (e hanno ucciso 80 sospetti
militanti ISIS) emettendo 1000 tonnellate di gas serra (senza contare
quelli emessi dagli aerei di rifornimento).
«Quantificare le emissioni di gas serra delle attività militari non è
facile» – dichiara la studiosa. Tuttavia, usando i dati
ufficiali pubblicati dal Dipartimento dell’Energia e considerando solo le
operazioni di guerra si stima che tra il 2001 e il 2017 in Afghanistan,
Pakistan, Iraq e Siria che abbiano generato più di 400 milioni di
tonnellate di CO2 equivalente — circa pari alle emissioni
prodotte in un anno da 85 milioni di automobili.
Neta Crawford esprime chiaramente il suo parere: «secondo me – scrive –
nessuno degli avversari degli Stati Uniti – Russia, Iran, Cina, Nord Corea –
pensa di attaccare gli Stati Uniti. …Invece, il cambiamento climatico non
è un potenziale rischio, ma una realtà, con conseguenze concrete per gli USA.
Se non si riducono le emissioni diventeranno più plausibili i peggiori scenari,
forse anche le ‘guerre climatiche’».
Una strategia obsoleta
Fare la guerra per affermare le proprie ragioni continua ad essere
considerata un’opzione valida – non solo da governanti e militari – ma
purtroppo da molta parte della società ‘civile’. Nonostante l’evidenza di
una situazione di massimo rischio nucleare (l’orologio dell’apocalisse segna 2
minuti alla fine) e nonostante la realtà presente – di una trasformazione in
atto dei sistemi di regolazione del nostro pianeta – sembra impossibile
trovare, a livello mondiale, la forza e la determinazione per un cambiamento
radicale. L’immagine di truppe di soldati – a milioni – che sprofondano nel
permafrost che fonde nelle vaste distese del Nord, mentre nel Sud del
mondo vaste comunità sono costrette a migrare da foreste morenti e
campagne inaridite, potrebbe diventare uno stimolo per lottare – con le armi
della nonviolenza e del buonsenso – contro la stupidità e la crudeltà.
Proviamo a bandire un concorso grafico? Nessuna classifica, per
piacere, solo un moltiplicarsi di vignette che con ironia ed empatia ci spronino
all’azione.
[1] Tonnellata
di CO2 equivalente: è un’unità di misura che
permette di pesare insieme emissioni di gas
serra diversi con differenti effetti climalteranti.
[2] 1
gallone è circa 3,7 litri
[3] 1
miglio nautico = 1,8 km
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