È sopravvissuto per miracolo agli assassini di Berta Cáceres,
l’attivista per la giustizia ambientale e leader indigena uccisa il 3 marzo in
Honduras, ma ora anche lui è in pericolo. Gustavo Castro Soto, direttore
dell’organizzazione ambientalista messicana Otros Mundos e coordinatore di
Friends of the Earth Mexico, è stato colpito due volte dagli uomini che hanno
fatto irruzione in casa dell’attivista e l’hanno freddata, la scorsa settimana.
Lui pensa di essersela cavata perché gli aggressori l’hanno creduto morto.
Castro oggi è l’unico testimone dell’uccisione
di Berta Cáceres: ma le autorità non sembrano proteggerlo. Né sembrano indagare
seriamente sulla morte della leader indigena: dimostrando una «assoluta
mancanza di volontà di proteggere i difensori dei diritti umani nel paese», accusa Amnesty International.
Lo stesso Castro ha scritto, in una lettera pubblicata da un giornale honduregno,
che la scena del crimine è stata alterata. Racconta che a lui è stata prestata
qualche cura medica solo tre giorni dopo il fatto, durante i quali è stato
lungamente interrogato e trattenuto sempre con addosso gli abiti ancora
insanguinati. Gli è stato chiesto di identificare possibili sospetti: ma nelle
foto e nei video che gli hanno mostrato comparivano amici della vittima, i suoi
compagni di lotta.
Berta Cáceres era una figura nota ben oltre il suo paese.
Cofondatrice del Consiglio dei popoli indigeni dell’Honduras (Copinh)
apparteneva al gruppo nativo Lenca, il più numeroso del Paese centroamericano.
Da anni era impegnata con la sua gente in una battaglia contro il progetto
idroelettrico di Agua Zarca, sul fiume Gualcarque: il più grande progetto
idroelettrico in Centroamerica, prevede una cascata di quattro dighe nel bacino
fluviale, se attuato costringerà molti a perdere terra, case, sopravvivenza. E
ha suscitato grandi resistenze popolari.
La battaglia è stata efficace, perché l’impresa arranca da quando
l’azienda cinese Sinohydro e la International Finance Corporation (il braccio
della Banca Mondiale che assiste il settore privato) hanno deciso di
disinvestire e togliere il proprio appoggio a Desa, l’azienda honduregna
titolare del progetto. Gli attivisti honduregni ora chiedono di ritirarsi anche
agli altri partner stranieri, tra cui la Banca olandese per lo sviluppo, il
Fondo finlandese per la cooperazione industriale e le aziende tedesche Siemens
e Voith.
Berta Cáceres era l’anima e la leader di questa battaglia
collettiva: tanto che l’anno scorso era stata insignita del Premio Goldman per l’ambiente,
riconoscimento attribuito ad attivisti locali che si battono per la
sostenibilità e la giustizia ambientale.
Battaglie simili però non sono indolori. Cáceres e i suoi compagni
avevano di fronte alcuni potenti proprietari terrieri, vera e propria
oligarchia del Paese, e i loro piccoli eserciti di guardie private. In effetti
appena una settimana prima dell’assassinio, la leader indigena aveva ricevuto
minacce. Per questo la famiglia non crede alla versione della polizia, quella
di un tentativo di rapina finito male. «Non ho dubbio che sia stata uccisa per
la sua lotta, e che sono responsabili soldati e gente della diga, ne sono
certa» ha detto l’anziana madre di Berta Cáceres a Radio Globo.
Altrettanto esplicita la figlia, Berta Isabel Zúñiga Cáceres,
studentessa di 25 anni: a uccidere sua madre sono stati «l’impresa Desa,
costruttrice della diga Agua Zarca nella comunità di Rio Blanco, che in
numerose occasioni l’hanno minacciata in nodi diretto e non, e hanno pagato
sicari perché la uccidessero», ha detto a Desinformemonos, portale
di “giornalismo di base” messicano.
Lei era ben consapevole del pericolo e lo
aveva detto in una bella intervista al The Guardian, in occasione del Premio Goldman. Del resto, tre anni fa un altro
esponente del Copinh è stato ucciso da un soldato durante una pacifica
dimostrazione contro la diga, in località Rio Blanco: il militare è stato poi
assolto per aver agito in “autodifesa” (contro dimostranti disarmati!). E
l’Honduras non è solo; numerosi attivisti per i diritti sociali,
leader indigeni, ambientalisti hanno pagato con la vita il proprio impegno, nel
continente latinoamericano e oltre, come denuncia un recente rapporto di Global Witness; di
solito i responsabili restano impuniti.
Ora c’è anche il paradossale caso di Gustavo Castro. In teoria è
protetto come testimone dei fatti; il giudice istruttore però ha emesso un
ordine di restare a disposizione per 30 giorni, pena l’arresto, e gli è stato
impedito di volare in Messico, a casa. Insomma, l’attivista messicano non può
lasciare l’Honduras, e non è chiaro perché: ma non è rassicurante. La tensione
è molto forte, nella regione di La Esperanza.
«Gustavo Castro non viene trattato come la vittima di un tentativo
di uccisione, al contrario la sua vita viene messa a rischio, e il suo diritto
di movimento negato» dicono in un comunicato congiunto
Otros Mundos e la rete internazionale Friends of the Earth – Mexico. Le due
organizzazioni sostengono che l’ordine di restare in Honduras è «ingiusto e non
necessario», perché Castro è stato sentito ampiamente dagli inquirenti, ha
chiarito i fatti, e non è stato informato di nessuna ulteriore procedura.
L’attivista messicano ora teme per la sua vita e ne ha motivo. È
il testimone scomodo di un assassinio voluto per fermare una battaglia popolare
ed è in pericolo.
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