L’intenzione dei promotori del referendum del prossimo 17 aprile è chiara:
fermare le trivellazioni e mettere fine alla ricerca e all’estrazione di
petrolio e gas nei mari italiani, almeno entro il limite di 12 miglia nautiche
che definisce le acque territoriali. L’intenzione è esplicita, e rimanda a
questioni di fondo: la politica energetica del paese, gli impegni assunti
dall’Italia per limitare le emissioni di gas di serra che alterano il clima, la
sua politica industriale. Se puntare sui pochi giacimenti di gas e di petrolio
italiani, o piuttosto su altre risorse – turismo, agricoltura, beni culturali,
protezione ambientale.
Ma un referendum non può proporre scelte così articolate: può
solo abrogare delle norme esistenti. Certo potrebbe dare un segnale politico,
esprimere un volere dei cittadini.
Allora vediamo: chi propone di fermare le trivelle, e perché. E
soprattutto, che effetto avrebbe un sì.
Il testo di un referendum è sempre complicato: “Volete voi che sia
abrogato” l’articolo tale, comma tale, terzo periodo, della legge tale,
limitatamente alla tale frase. La frase da abrogare in questo caso è “per la
durata di vita utile del giacimento”. Riguarda la durata delle concessioni (i
“titoli”) per estrarre idrocarburi. I titoli di norma sono concessi per
trent’anni; la compagnia concessionaria può chiedere una prima proroga di dieci
anni e altre due di cinque ciascuna. La legge di stabilità 2016, però, parla di
“vita utile” del giacimento, che significa allungare una concessione in modo
indefinito.
“Se vince il sì, quella frase sarà cancellata”, spiega Enzo di Salvatore,
professore di diritto costituzionale all’università di Teramo: è stato lui a
scrivere il quesito. “In quel caso le piattaforme oggi attive continueranno a
lavorare fino alla normale scadenza della concessione, o dell’eventuale proroga
già ottenuta, ma poi nessuna nuova proroga, andranno smantellate”. Votare sì
significa che “la vita delle piattaforme non si potrà allungare all’infinito”,
le attività petrolifere andranno a scadenza.
Che questo basti a fermare le trivelle è un altro discorso. Il referendum è
stato promosso nel settembre 2015 da dieci regioni italiane (rimaste nove
quando l’Abruzzo si è defilato), che hanno accolto gli appelli di un
coordinamento No triv e di un gran numero di associazioni, tra cui le storiche
organizzazioni ambientaliste nazionali e molte locali.
In realtà i promotori un risultato l’hanno già ottenuto. In origine infatti
i quesiti erano sei, tutti dichiarati ammissibili dalla corte costituzionale.
Avremmo votato per esempio anche per cancellare tre norme introdotte dalla
legge sblocca Italia del governo di Matteo Renzi: quella che definisce
“strategica” l’attività petrolifera, una norma sugli espropri e una sulle
competenze delle regioni.
Questi quesiti sono caduti, perché le richieste sono già soddisfatte da
alcuni emendamenti alla legge di stabilità 2016, approvati dal parlamento nel
novembre scorso. In questo senso i promotori del referendum hanno già segnato
un punto. Gli idrocarburi non hanno più il carattere di “strategicità,
indifferibilità e urgenza” che comportava procedure accelerate e poche garanzie
di consultazione per gli enti locali.
È saltato il “vincolo preordinato all’esproprio”, per cui anche solo una
concessione per la ricerca faceva scattare l’esproprio dei terreni. Ed è
scomparsa la norma che consente al ministero per lo sviluppo economico (Mise),
cioè al governo, di sostituirsi alle regioni per autorizzare progetti di
idrocarburi e delle infrastrutture relative: “Il governo non potrà più decidere
unilateralmente; dovrà riunire le regioni interessare e cercare un
compromesso”, continua il costituzionalista.
Un altro quesito è saltato perché si riferiva a un “piano delle aree”, poi
abolito. Secondo le vecchie norme, il ministero dello sviluppo economico,
sentito quello dell’ambiente e gli enti locali, doveva stabilire dove si può
consentire la ricerca e l’estrazione di idrocarburi e dove no – nelle zone
sismiche, o protette, o interessate da agricoltura di pregio, o densamente
abitate, e così via. I promotori del referendum volevano bloccare nuovi
permessi di ricerca sulla terraferma finché il piano delle aree non fosse stato
definito. Nella legge di stabilità 2016 però il piano stesso è scomparso. In
teoria, oggi sul territorio italiano si può trivellare quasi ovunque.
Il referendum sulle trivelle “dovrebbe sollecitare un ripensamento della
politica industriale nel paese”, aggiunge Maurizio Marcelli, responsabile del
dipartimento salute e sicurezza del lavoro della Fiom-Cgil: il sindacato dei
metalmeccanici è nel comitato per il sì al referendum sulle trivelle. “Non è
vero che se vince il sì si perdono posti di lavoro”, continua Marcelli. Le
piattaforme non danno poi molto lavoro, e comunque “solo nella fase della
trivellazione: poi lavorano tutto in remoto”. Certo, ci sarebbero un po’ di
posti di lavoro nell’indotto, “ma sarebbero ampiamente compensati dal lavoro
che si potrebbe creare investendo nelle energie rinnovabili e in settori
industriali compatibili”, continua il dirigente sindacale. Così torniamo al punto:
il referendum sulle trivelle rimanda a scelte di fondo sulla politica
industriale, energetica. “Ma non vediamo un grande dibattito”.
Del referendum sulle trivelle in effetti si parla ben poco. Il governo ha
scelto di non accorparlo alle elezioni amministrative (sarebbe stata necessaria
una legge apposita, come è avvenuto in altri casi): i promotori ammettono che
raggiungere il quorum è una sfida difficile. Poi c’è la solita confusione tra
sì e no: vota sì se non vuoi le trivelle, e viceversa.
L’informazione sul referendum intanto viaggia soprattutto sui social media.
Per una strana ironia, finora il referendum contro le trivelle ha fatto notizia
soprattutto quando nel partito che guida il governo si sono levate voci che
chiamano a non votare, suscitando polemiche: un governo invita i cittadini a
non esercitare un diritto democratico. Paradossale: molte tra le regioni che
hanno promosso quel referendum sono governate da quello stesso partito.
(leggi l’articolo completo su Internazionale.it)
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