…Siamo nel 2011, è il 20 marzo, João Pereira
De Souza ha 66 anni, è uno di quei pescatori brasiliani che si godono la
vecchiaia in riva al mare, con il volto perennemente abbronzato e i solchi sul
viso a far da pergamena a una vita faticosa ma felice. Mentre scruta
l’orizzonte, però, si accorge di un piccolo grumo nero che si muove. Una
smorfia, l’occhio che si sforza di vedere più chiaro. Si accorge dopo qualche
secondo che quello è un pinguino intriso di petrolio. Non ci pensa un attimo,
lo prende in braccio, senza curarsi delle macchie sui vestiti, e lo porta a
casa. Ci mette più di una settimana a pulirlo dal catrame, poi prova a
liberarlo. L’animaletto vuole rimanere con lui. Capisce che ha ancora bisogno
del suo aiuto e ci mette qualche mese (undici) a farlo tornare all’antico
splendore con tanto affetto e ancora più sardine. Poi, di nuovo il
mare. João con le lacrime agli occhi lo porta lì, nel luogo del loro primo
incontro, e lo spinge via. Deve tornare alla sua vita, in Patagonia. Ma Dindim,
così lo aveva chiamato il pescatore, non è d’accordo. Se ne va, ma lo guarda e
sembra dirgli “tornerò”. E così è stato. Ogni estate quel pinguino arriva su
quella spiaggia. Cerca quel sorriso sdentato, quella pelle ambrata, il
cappellino da cui João non si separa mai. E corre – insomma, saltella basculando
– verso di lui. Baci, abbracci, pinnate. E tutto (e tutti), attorno a loro,
svanisce. E per otto mesi sono inseparabili. João considera Dindim un
figlio, mentre Dindim, come dice un biologo che ha “intervistato” entrambi,
considera João un pinguino. E per lui, che considera la sua famiglia, è
disposto a fare 5000 miglia, 8000 chilometri e tornare, ogni anno. E appena
arriva, si addormenta sul grembo di quell’uomo 71enne. L’unico autorizzato a
coccolarlo. Compagni inseparabili – Dindim becca e “aggredisce”.
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