L’inquinante eterno più diffuso al mondo, il Tfa, è stato trovato nei campioni di 6 bottiglie di acqua minerale. Sei sulle otto acquistate nei mesi scorsi, in un supermercato di Roma, da Greenpeace Italia. Obiettivo: testare l’eventuale presenza di Pfas, le sostanze poli e perfluoroalchiliche usate in numerosi processi industriali e prodotti di largo consumo, che si accumulano nell’ambiente e che sono da tempo associate a gravi rischi per la salute. E anche quella di Tfa, sebbene ad oggi non esistono limiti legali specifici per la sua presenza nelle acque minerali e potabili in Italia. L’ong ha acquistato bottiglie d’acqua degli otto marchi più diffusi in Italia (Ferrarelle, Levissima, Panna, Rocchetta, San Benedetto, San Pellegrino, Sant’Anna e Uliveto) e, per ciascuna, ha fatto analizzare due campioni (per un totale di 16), inviandone uno in un laboratorio italiano (Til Italia) e il secondo nel laboratorio di chimica dell’acqua del tedesco TZW, che si occupa da molti anni di analisi e valutazione dei Pfas. Tra le molecole ricercate, in questa analisi, anche il Tfa, ossia l’acido trifluoroacetico, una molecola a catena ultracorta (due atomi di carbonio) che la rende indistruttibile e le dà grande capacità di diffusione. Nei campioni d’acqua di Ferrarelle e San Benedetto Naturale non è stata rilevata alcuna presenza di Pfas: le concentrazioni di tali sostanze in questi campioni sono risultate inferiori al limite di rilevabilità di 50 nanogrammi al litro. Nei restanti campioni (12) appartenenti a Levissima, Panna, Rocchetta, San Pellegrino, Sant’Anna e Uliveto è stata invece rilevata la presenza di Tfa. Greenpeace Italia ha inviato questi risultati alle aziende proprietarie dei marchi. “Nessuna delle realtà contattate ha voluto commentare” spiega la ong.
Il risultato
delle analisi –
Sebbene i primi studi scientifici risalgano alla metà degli anni Novanta, solo
recentemente il Tfa ha goduto di maggiori attenzioni, ma l’Autorità europea
per la sicurezza alimentare (Efsa) sta rivalutando la sicurezza di
questa sostanza, alla luce dei nuovi studi disponibili. Al momento non
esistono limiti Ue specifici per il Tfa. Il campione che ha fatto
registrare il valore più elevato di acido trifluoroacetico è quello
appartenente all’acqua Panna (700 nanogrammi per litro), seguito dal campione
del marchio Levissima (570 ng/l) e dal campione di acqua Sant’Anna (440 ng/l).
Il Tfa è però l’unico Pfas rilevato nei campioni presi in esame, nessuno dei
quali conteneva sostanze appartenenti al gruppo dei 20 Pfas regolamentati
dalla direttiva Ue sull’acqua potabile (che in Italia entrerà
in vigore nel 2026) né sostanze appartenenti al gruppo Pfas-4, ovvero per
quattro molecole di cui è già nota la pericolosità per la salute umana e già
incluse nel parere Efsa del 2020, ossia Pfoa e Pfos, rispettivamente
cancerogeno e possibilmente cancerogeno, Pina e PFHxS. “I valori di Tfa trovati
nei campioni (tra circa 70 e 700 nanogrammi per litro) si allineano, anche se
con valori leggermente inferiori, a quelli ottenuti da altre indagini in vari
Paesi europei (tra 370 e 3.300 nanogrammi per litro), dunque è una conferma
della capacità di diffusione di questa sostanza” racconta a ilfattoquotidiano.it Alessandro
Giannì, responsabile delle Relazioni Istituzionali e Scientifiche di Greenpeace
Italia.
Le altre
indagini sulle acque minerali – Nel 2024 l’organizzazione Pesticide Action
Network (Pan) ha diffuso i dati sulla presenza di questa sostanza in
numerosi marchi di acqua minerale e di sorgente venduti in Europa (provenienti
da Germania, Belgio, Francia, Paesi Bassi, Lussemburgo, Ungheria, Austria).
Dieci dei 19 marchi analizzati contenevano Tfa in quantità comprese tra 52 e
3.400 nanogrammi per litro. Nove campioni, invece, erano esenti da residui
quantificabili di Tfa. Anche Altroconsumo ha condotto
un’analisi, segnalando cinque acque minerali “per livelli eccessivi di Tfa,
secondo i parametri usati per garantire la qualità dell’acqua potabile”: Panna,
Esselunga Ulmeta, Maniva, Saguaro (Lidl) e Levissima. Proprio nei giorni
scorsi, Pan ha pubblicato un’indagine, ricostruendo una storia di quasi
trent’anni, durante i quali l’industria ha fatto pressioni affinché
le agenzie europee competenti fossero portate a sottovalutare i rischi.
Tfa, i
rischi nascosti e l’assenza di normativa – Già nel 1998, infatti, il Comitato
scientifico europeo per le piante ne aveva segnalato la presenza nei
campi a causa dello spargimento di un pesticida. Il passo successivo è stato un
parere dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa)
arrivato solo nel 2007. Anche da allora gli step sono stati molto lenti e solo
recentemente si è indagato in modo più approfondito l’effetto sulla salute
umana. Di conseguenza, ancora oggi manca una normativa che ne regoli
l’utilizzo. “Di recente, le autorità tedesche l’hanno classificato come
‘tossico per la riproduzione’ e ‘molto mobile e persistente. Questa sostanza
può derivare dalla degradazione di altri Pfas rilasciati nell’ambiente e si
accumula negli organismi viventi, ad esempio in alcuni cereali” spiega Alessandro
Giannì. Alla luce dei risultati degli ultimi studi, nella primavera del
2024 la Germania ha presentato all’Agenzia europea per le
sostanze chimiche (Echa) una richiesta di classificazione del Tfa come
sostanza tossica per la riproduzione. “Se l’Echa approverà la richiesta –
spiega Giannì – il Tfa potrebbe essere classificato come ‘metabolita rilevante’
delle sostanze attive nei prodotti fitosanitari”. In conformità con l’ordinanza
tedesca sull’acqua potabile, quindi, non dovrebbe essere consentito superare il
valore di 100 nanogrammi al litro, limite che potrebbe essere esteso all’acqua
potabile di tutti i Paesi europei.
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