Fonti accreditate stimano che rimozione e smaltimento dei detriti richiederanno decenni, tra veleni nel suolo, ordigni inesplosi, diritti perduti e vittime ancora sepolte.
La devastazione infrastrutturale ha proporzioni inedite. La più recente stima del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) indica che la distruzione o il danneggiamento di circa 250 mila edifici ha prodotto un volume di circa 61 milioni di tonnellate di macerie, diciassette volte la somma di tutti i detriti prodotti dai precedenti bombardamenti a Gaza dal 2008. Secondo le fonti più accreditate, rimuovere e processare questa massa enorme richiederà decenni, anche al netto degli imprevisti. Perché Gaza è anche un cimitero dove si stima che almeno 12 mila corpi siano ancora sepolti sotto le macerie. Chi è rimasto dovrà invece fare i conti con suoli e acque contaminate, e con la perdita e la distruzione dei registri di proprietà, sempre che si vogliano davvero riconoscere i diritti.
Quanto ci
vorrà per rimuovere le macerie a Gaza? – Il lavoro di smaltimento si articola in due
fasi: la rimozione e il trasporto iniziale, e la successiva lavorazione per il
riciclo del materiale idoneo. Per la sola fase di rimozione dei
detriti, le Nazioni Unite hanno stimato che potrebbero volerci
fino a 15 anni. Calcolo elaborato ipotizzando l’uso di una flotta
di 105 autocarri con capacità di 19 tonnellate (circa 17,24 tonnellate
metriche), attivi su turni di 8 ore per 30 giorni al mese. Uno studio
pubblicato a luglio (Samer Abdelnour e Nicholas Roy su Environmental
Research: Infrastructure and Sustainability) stima che il trasporto delle
macerie richiederà oltre 2,1 milioni di carichi di autocarri, coprendo una
distanza equivalente a circa 736,5 volte la circonferenza terrestre. Ma lo
studio si basa sui primi 14 mesi di conflitto, fino al primo dicembre 2024,
quando le macerie erano circa la metà, 36,8 milioni di tonnellate. Anche i
calcoli delle Nazioni Unite, fatti quando le tonnellate erano circa 50 milioni,
vanno aggiornati, portando i tempi necessari a più di 20 anni. Per non parlare
delle strade: già un anno fa il Centro Satellitare delle Nazioni Unite (UNOSAT)
stimava che circa il 31% della rete stradale a Gaza è stata moderatamente
danneggiata, l’8,9% gravemente danneggiata e il 25,4% distrutta.
Decenni solo
per la frantumazione – Ma
il vero dilemma riguarda la fase successiva, quella della lavorazione o
frantumazione, che allunga i tempi in modo drammatico, anche a causa delle restrizioni
sull’accesso a macchinari industriali pesanti. Lo studio di Abdelnour e Roy
intitolato ‘Trattamento dei detriti provenienti dagli edifici distrutti e
danneggiati a Gaza: emissioni di carbonio, tempi e implicazioni per la
ricostruzione’ ipotizza scenari diversi, calcolando il trattamento dell’80% dei
detriti, quelli non contaminati e idonei alla frantumazione. Nello scenario
“ottimale” entra in campo una flotta di 50 macchinari industriali per
frantumare le macerie, i cosiddetti frantoi a mascelle ad alta capacità, per un
lavoro da 400 tonnellate l’ora che richiederebbe poco più di sei mesi.
Peccato che “non sono attualmente disponibili a Gaza”, segnala lo studio. E
questo per le restrizioni imposte all’ingresso di macchinari pesanti e parti di
ricambio, pratica di lungo corso che andrebbe appena rinegoziata. Ecco il
perché dello scenario “realistico”, che prevede una flotta di 50
frantoi più piccoli (“tipo primario utilizzato in Gaza”) che per fare lo stesso
lavoro ci metterebbe quattro decenni. Stima che va però aggiornata e finisce
per superare i 60 anni.
Vittime,
ordigni e contaminazioni – Ad aprile le Nazioni Unite stimavano che 12 mila vittime fossero
ancora sepolte sotto gli edifici distrutti. L’urgenza di rimuovere i detriti si
scontra dunque anche col delicato compito di individuare e identificare con
attenzione i resti delle vittime, operazioni che richiedono l’intervento di
personale specializzato. Tra le incognite c’è poi il rischio elevato di
ritrovare ordigni inesplosi (UXO). Il Servizio delle
Nazioni Unite per l’azione contro le mine (UNMAS) indica che fino
al 10% delle armi esplosive potrebbe non essere detonato. La rimozione
delle macerie è poi “intrinsecamente rischiosa” e richiede il supporto dei team
di EOD (Explosive Ordnance Disposal). L’eventuale ritrovamento
comporta la sospensione immediata del sito e l’evacuazione del personale.
Quanto alle risorse, quelle limitate per EOD a Gaza lasciano supporre “ritardi
significativi”. A complicare drasticamente la gestione dei materiali c’è poi la
loro contaminazione. Si stima che circa il 15% delle
macerie è probabilmente contaminato da amianto, rifiuti industriali e
metalli pesanti e vanno gestite come rifiuti pericolosi, col personale EOD
dotato di protezioni e tute protettive monouso.
Ricostruzione
senza diritti – Il
recupero post-conflitto, che include la ricostruzione delle abitazioni,
richiede tempi ancora più lunghi e difficilmente calcolabili. Basandosi sulle
dinamiche di ricostruzione successive a precedenti conflitti, il Programma
delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) ha stimato che per
ricostruire le stesse case distrutte sarebbero necessari circa 80 anni. Al
contrario, i problemi sono già dietro l’angolo, come le complessità legali
relative al riconoscimento dei diritti di proprietà (HLP – Housing,
Land, and Property). La situazione legale a Gaza era già confusa, con
norme più recenti che confliggono con quelle ereditate dall’Ordinanza
Britannica sulla Pianificazione Urbana del 1936 e addirittura dal Codice
Fondiario Ottomano del 1858. A Gaza si stima che fino al 30% della terra
privata non sia registrata, rendendo difficile la risoluzione delle
controversie già in tempo di pace. A questo si aggiunge la perdita o
distruzione dei registri di proprietà. Il mancato riconoscimento dei
diritti HLP fin dalle prime fasi di recupero è considerato un ostacolo tra i
più critici alla possibile ripresa. Le organizzazioni come il HLP Working Group
al quale partecipano agenzie Onu, ong e istituzioni accademiche, lavora per
sviluppare messaggi di sensibilizzazione per “evidenziare l’importanza dei
diritti HLP in tutte le fasi” e fornire linee guida vista la diffusa assenza di
registri.
L’ambiente,
l’altra vittima – Per
l’Unep, il recupero dai danni ambientali a Gaza “potrebbe richiedere decenni”.
La situazione è “peggiorata drasticamente su quasi tutti gli indicatori” da
giugno 2024, lasciando “un’eredità che potrebbe influenzare la salute e il
benessere delle generazioni di residenti di Gaza”. Insomma, la rimozione delle
macerie e i loro contaminanti potranno solo peggiorare una condizione del suolo
e delle risorse idriche che è già compromessa. Le forniture di acqua dolce
sono “gravemente limitate e gran parte di ciò che resta è inquinato”. Il crollo
delle infrastrutture per il trattamento delle acque reflue, la distruzione dei
sistemi di condutture e l’affidamento a pozzi neri hanno probabilmente
“aumentato la contaminazione della falda acquifera” che fornisce la maggior
parte dell’acqua di Gaza. Tanto che, avverte l’Unep, anche le aree marine e
costiere sono “sospettate di essere contaminate” a causa del crollo di queste
infrastrutture. Secondo l’Aggiornamento sulla Situazione Umanitaria delle
Nazioni Unite dello scorso 2 ottobre, il danno alla terra coltivabile è
massiccio: dal 2023, la Striscia di Gaza ha perso il 97% delle sue
colture arboree, il 95% della sua boscaglia e l’82% delle sue colture annuali,
rendendo di fatto impossibile la produzione alimentare su larga scala. Il tutto
aggravato dall’uso estensivo degli esplosivi, la cui potenza totale è ritenuta
essere tre volte quella combinata delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e
Nagasaki.
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