Il Tribunale del Riesame di Milano ha di fatto smontato le accuse della Procura e del GIP milanese relative all’inchiesta urbanistica: non c’è stato alcun patto corruttivo, sentenzia il Tribunale, e, pertanto, si aspetta che le misure cautelari prese nei riguardi di alcuni autorevoli personaggi coinvolti nella vicenda, siano revocate. Nel frattempo Letizia Moratti, col seguito di Forza Italia, è corsa in soccorso del sindaco Sala proponendo un “patto per Milano”, superando l’impasse provocato dalle vicende urbanistiche e di San Siro. Se il patto luciferino si avverasse (e molti sono i timori che ciò accada) avremmo un’ulteriore conferma che destra e sinistra condividono lo stesso concetto di modernità, una modernità di stampo neoliberista, dettata dal mercato e che favorisce i grandi interessi proprietari e gli investimenti privati a spese dei cittadini.
Dunque il “modello Milano” risorge? E
magari anche la legge sul “Salva Milano” ferma in Parlamento in attesa di
larghe intese e che cancellerebbe molte delle riforme urbanistiche degli anni
Settanta? L’esca è stata lanciata al PD che, per il momento, tace. Ma su questa
partita, il futuro delle nostre città, si gioca una posta rilevantissima se è
vero, come dice Consonni che: «disinteressandosi dell’abitare e del fare città,
a che cosa si riduce la politica?» (1), perché «è proprio in grazia delle opere
belle e della vita associata si deve ammettere l’esistenza della comunità
politica» (2).
Ma lasciamo stare le vicende
giudiziarie, sempre più complicate e ancora non definitive, per porre
l’attenzione sul modello milanese. Supponiamo, per un istante, che
tutte le costruzioni (grattacieli e altro), oggetto di indagine, siano state
invece progettate o in corso di realizzazione o realizzate, secondo le norme
urbanistiche e i regolamenti edilizi vigenti, senza alcuna violazione delle
leggi. Ebbene sarebbe questa la città che vogliamo? Quella dei
grattacieli, del bosco verticale, di CityLife, il più grande distretto urbano
dedicato allo shopping?
Perché il rischio è che i risultati fin
qui dell’indagine della magistratura, smentita, ripeto, dal Tribunale del
Riesame, creino una cortina fumogena su un modello di città
ritenuto, nonostante tutto, progressista e modernizzatore. E che
esso diventi anzi un esempio per altre città in affanno di modernismo (Roma,
Firenze, Napoli in primis). Un modello che omologa
le nostre bellissime città a quelle effimere e sfavillanti dei paesi arabi:
Dubai, Doha, Abu Dhabi ecc. Un modello generatore di
disuguaglianze e privo di quelle virtù che hanno reso celebri le nostre città:
senso di comunità, civismo, urbanità, tradizioni, bellezza, come
sosteneva Cattaneo, oltre che, sarebbe omissivo ignorarlo, luoghi di drammatici
conflitti.
L’urbanità, la vita in città, può essere
considerata misura di civiltà di un popolo. Condiziona la nostra psiche, le nostre
azioni, le nostre sensazioni quotidiane, i nostri umori; l’atmosfera urbana,
per dirla con H. Schmitz, «è l’esperienza soggettiva della realtà effettuale
che gli uomini condividono tra di loro esperendola come qualcosa di oggettivo»
(4). E aggiunge Asor Rosa: «me ne dispiacerebbe molto, ma potrei fare a meno di
leggere libri; potrei ignorare l’ultima teoria filosofica; ma lo voglia o no,
non posso fare a meno di misurarmi con il tessuto urbano, dentro al quale vivo
e con il quale quotidianamente mi misuro» (5).
Sappiamo bene come fondi di investimento, finanza, abili immobiliaristi traggono
profitto (in epoca di smobilitazione dell’industria) dal plusvalore che
assumono le città con le loro infrastrutture, locazioni per
turisti, sedi di banche o altre società, quartieri residenziali di lusso per
benestanti, architetture fantasmagoriche, centri commerciali; ovvero dalla
città trasformata in un elemento di marketing. Un
esempio, proprio a Milano, è rappresentato dal quartiere di CityLife,
un quartiere esclusivo, residenziale – commerciale, dove torreggiano
grattacieli (con ironia denominati “il dritto, lo storto e il curvo”) accanto a
residenze blindate destinate ai ricchi, un enorme centro commerciale e poi
tante botteghe di lusso immerse in un parco surreale come fosse un mondo a
sé. Quella non è città, è una oasi per benestanti cittadini,
autosufficiente a tal punto che i residenti di quel quartiere non debbono
nemmeno uscire di casa per confondersi nella folla anonima della città. Che consuma suolo e costruisce grattacieli e si vanta di
perseguire obiettivi di sostenibilità. E man a mano che questo
modello di città prende piede, i vecchi residenti sono costretti a lasciare la
vecchia città che si rifà il trucco, per andare ad abitare in zone più
periferiche e squallide. Per loro “quella città” è solo un luogo
di lavoro dove recarsi ogni giorno con i mezzi pubblici da periferie lontane.
La distanza tra ricchi e poveri si fa anche fisica, geometrica.
Esempi di questo tipo ormai appaiono
anche in altre città: a Roma, per esempio, in un’area che non è esagerato
definire “sacra” per le sue qualità paesaggistiche – la foce del Tevere a
Fiumicino – si progetta un gigantesco porto per le navi da crociera (quelle
navi lunghe 360 metri e alte 70 che consumano in un giorno la quantità di
carburante di mille auto). Un porto privato in cui dovrebbero arrivare migliaia
di turisti e pellegrini (l’opera rientra tra quelle previste per il Giubileo
del 2025!) per proseguire (non si sa come) il viaggio per Roma. E per togliere
dalla vista i cassonetti stracolmi di immondizia, si progetta un grande
impianto di un inceneritore (naturalmente localizzato in periferia) anziché
riciclare i rifiuti come ogni buon senso (non c’è bisogno neppure di scomodare
la scienza) suggerirebbe.
Questo malsviluppo è basato sulla capacità
di attrarre sempre più turisti, capitali e investitori privati (ogni opera, ogni
architettura ha questa finalità): aumentare la capacità attrattiva della città
a spese (come conseguenza diretta) dei cittadini in affanno che di questa
presunta ricchezza avranno solo i danni collaterali, ovvero l’espulsione verso
le periferie. Un gigantesco fenomeno di privatizzazione
delle città, complice la “nuova urbanistica semplificata” del
“modello Milano” che facilita i processi, accelera le procedure, scavalca le
soprintendenze considerate inutili burocrazie conservatrici, realizza varianti
al PRG, sdogana qualsiasi ostacolo si frappone alla realizzazione di una
presunta modernizzazione al cui altare vanno sacrificate norme, diritti e bene
pubblico. E a chi si oppone o almeno tenta di ostacolare questa modernizzazione
– comitati, associazioni, gruppi di cittadini –, qualche volta (non sempre)
l’amministrazione concede generosamente il lusso di una limitata partecipazione
(a scelte già fatte) sussumendo il conflitto, manipolando la pubblica opinione.
Mentre oppositori più radicali vengono tacciati di essere “anime belle” e di
non capire il cambiamento che avanza, “terroristi” urbani, oppositori a priori;
coloro i quali dicono sempre di no. Bisogna convincere la
cittadinanza che una nuova era è alle porte con slogan retorici: la città della
gioia, il bosco verticale, la foresta romana, housing sociale, che invocano il
progresso, la bellezza del verticale, l’efficienza dei centri commerciali e,
soprattutto, l’inutilità di uscire nelle piazze restando a casa per non
disturbare l’orda dei turisti, i veri e nuovi protagonisti della città.
Questi processi, che ormai riguardano
tutte le grandi città, ricevono spesso dagli abitanti commenti positivi:
finalmente si cambia! Era ora che si facessero delle opere! E via dicendo. Così a Roma,
durante le festività del Natale, grandi folle di romani si sono riversate a
piazza Pia e a via Ottaviano per ammirare la città che si trasforma,
trasformati essi stessi – che sono i veri abitanti – in turisti occasionali.
Questi entusiasmi hanno breve durata, quando anche i loro sostenitori si
accorgeranno che a poco a poco la città sta diventando privata a beneficio dei
pochi arricchiti. È già successo con il sequestro di alcune parti di Firenze
per la parata di moda di Gucci, a Venezia per il matrimonio di Bezos, ancora a
Roma con la parata kitsch di Dolce&Gabbana. Non
sempre, infatti, gli abitanti riescono, nella baraonda della retorica corrente,
a saper distinguere gli elementi della città che soddisfano le loro esigenze,
che poi significa una vita in comune migliore, le virtù civiche, la vita
associata (le piazze, la strada, il mercato), rispetto alla fiera espositiva
dei presunti vantaggi della bellezza intesa esclusivamente come mera estetica
(alcune volte nemmeno questa). Esigenze che erano ben conosciute dai
costruttori delle antiche città (la bellezza come “ben fatto”).
Le condizioni di vita imposte dal
capitalismo hanno fatto perdere questi valori nella coscienza collettiva, sostituendoli con
falsi idoli scenici creati dal mercato e da stravaganti architetti, generando
una frattura dolorosa tra architettura e urbanistica,
sostituendo l’intervento edilizio isolato alla pianificazione urbanistica:
«L’architettura del singolo edificio, per quanto pregevole, non basta da sola a
fare città» perché «mummificata nella sua arroganza, l’architettura non è in
grado di innescare ragioni di senso, di nutrire l’immaginario e, ancor meno, di
contribuire alla bellezza d’assieme: diviene il sarcofago di sé stessa».
In questi giorni la città di Gaza City sta
per essere rasa al suolo da una furia omicida e genocida senza quasi
precedenti nella storia degli umani. L’operazione di sterminio
prevede, a “lavoro finito” una grande riviera di lusso realizzata sui corpi dei
palestinesi morti. Chissà se un giorno questa “rigenerazione urbana” prenderà
il nome di modernizzazione.
Note:
(1) G. Consonni, Ridisegnare Milano, in Doppiozero, settembre 2025
(2) Aristotele, Politica III, in G. Consonni, Non si salva il pianeta se non si salvano le città,
Quodlibet, 2004, p. 9
(3) C. Cattaneo, La città considerata come principio ideale
delle istorie italiane, Il Crepuscolo, 1857
(4) H. Schmitz, L’atmosfera di una città, in T.
Griffero, A. Petrillo (a cura di), Atmosfere urbane,
ed. ETS, 2024, p. 5
(5) A. Asor Rosa, Prefazione al libro di V. De Lucia, Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia,
Diabasis, 2010
(6) G. Consonni, Esilio dalla parola, esilio dai luoghi,
in Gli asini, giugno 2025.
Nessun commento:
Posta un commento