Negli ultimi anni, l’auto elettrica è diventata uno dei simboli più discussi della transizione ecologica. Spinta o respinta dai governi, sostenuta o affossata dall’industria, osannata o temuta dall’opinione pubblica, la mobilità a batteria è un tema che divide. Da una parte viene raccontata come un passaggio inevitabile verso un futuro libero dai combustibili fossili, dall’altra viene bollata come una tecnologia immatura o addirittura come un cavallo di Troia per interessi cinesi e imposizioni “ecologiste”.
Entrambe le narrazioni tendono a semplificare – e a polarizzare – un
fenomeno complesso e in evoluzione. Proviamo allora a gettare lo sguardo oltre
le trincee dell’ideologia e a offrire una lettura il più “atea” possibile della
questione, soprattutto per quanto riguarda le sue implicazioni geopolitiche.
Per cominciare, vanno chiarite due cose. La prima è che la diffusione
dell’auto elettrica non è uniforme. Da un lato gli electric vehicles (EV)
rappresentano ancora una quota trascurabile (il 4%, pari a 58 milioni di veicoli) del parco macchine mondiale.
Dall’altro hanno rappresentato circa il 20% delle nuove immatricolazioni nel 2024. Il dato è
caratterizzato da forti concentrazioni geografiche, ma è in crescita del 25%
rispetto all’anno precedente. Stiamo quindi parlando di un prodotto che, a
livello di mercato planetario, si sta muovendo da una nicchia molto piccola a
un segmento significativo. Basti pensare che nel 2024 le vendite sono aumentate
di 3,5 milioni di unità rispetto al 2023, più di quanto si fosse venduto
in tutto il 2020.
La Cina domina il mercato, sia dal lato della domanda che dell’offerta, con
quasi il 75% del venduto globale (11 milioni di EV). In Europa, invece, si
registra ogni anno una leggera crescita delle nuove immatricolazioni (1,8% in
più nel 2024), ma questa è altamente dipendente da incentivi statali e dalle
strategie industriali nazionali. Nel 2025 si prevede che le vendite
europee supereranno i 4 milioni di unità, con una quota di mercato del
25%, ma anche in questo caso si registrano grandi differenze tra paesi, in
particolare tra Europa del Nord e del Sud.
Negli Stati Uniti il settore è stato finora trainato da Tesla e da sussidi
pubblici introdotti da Biden (e appena tagliati da Trump), ma la penetrazione resta limitata
al di fuori delle aree urbane. In tutto il 2024 sono state vendute solo 1,6
milioni di auto elettriche, per una quota di mercato del 10% e con un
rallentamento della crescita rispetto all’anno precedente.
Per quanto riguarda i paesi emergenti, in America Latina e in Africa le
vendite di EV sono aumentate nel 2024 rispettivamente del 100% e del 120%. In
Brasile il mercato è dominato dalle importazioni cinesi (oltre l’85% nel 2024),
mentre negli altri paesi della regione e in Africa le percentuali sono
leggermente inferiori ma comunque preponderanti.
Questi dati sono utili a inquadrare un fatto: l’impronta dell’investimento
nei veicoli elettrici non è uguale in tutte le zone economiche, così come
diseguale è lo sviluppo del mercato e dell’industria. In particolare, è
evidente come la Cina si trovi in una fase molto più avanzata rispetto al resto
del mondo. Questo non si traduce solo in una leadership produttiva o
commerciale, ma in un’esposizione più profonda e strutturale al destino della
mobilità elettrica.
A differenza di altre economie, dove l’auto elettrica rappresenta ancora
una scelta sperimentale, in Cina è ormai una componente sistemica del mercato e
della strategia industriale del Paese. Ne derivano, inevitabilmente, una grande
forza industriale, ma anche una vulnerabilità più elevata in caso di
contraccolpi globali e, proprio per questo motivo, un maggiore impegno
(geo)politico da parte dello Stato cinese nello sviluppo e nella difesa del
settore.
La seconda cosa da chiarire è che, dal punto di vista della produzione, le
differenze tra un’auto tradizionale e un’auto elettrica sono così numerose e
profonde che è come se si trattasse di due prodotti completamente diversi. Per
certi versi si può dire che, più che di un processo di transizione industriale,
lo sviluppo della mobilità elettrica andrebbe inquadrato come la nascita di una
nuova industria. È importante evidenziare questo punto, poiché è una delle
ragioni per cui la transizione elettrica dell’auto sta comportando cambiamenti
così profondi delle geografie delle risorse e della geopolitica delle filiere.
Il passaggio dall’auto a motore a combustione interna (ICE) al veicolo
elettrico non comporta soltanto un cambiamento nelle modalità di alimentazione,
ma implica una rivoluzione tecnologica che investe l’intera filiera produttiva.
Le competenze richieste per progettare, costruire e mantenere un’auto elettrica
– a cominciare dal suo componente più cruciale, la batteria – sono radicalmente
diverse rispetto a quelle necessarie per i veicoli tradizionali: servono
ingegneri specializzati in elettronica di potenza, software, gestione termica e
chimica dei materiali, piuttosto che esperti di meccanica e di fluidodinamica
dei motori termici.
Questo ha implicazioni politiche nella misura in cui paesi come la
Cina investono da quasi due decenni nella formazione di figure
professionali e di ricercatori specializzati in questi ambiti, mentre Europa e
USA hanno preferito continuare a puntare su competenze più tradizionali, col
risultato che oggi le loro industrie non solo faticano a reperire le figure
necessarie alla transizione, ma rischiano di dover operare ampi (e socialmente
costosi) tagli del personale. Può non sembrarlo, ma anche questo è un tema
geopolitico, in quanto ha direttamente a che fare con la resilienza dei corpi
sociali dei paesi.
Un tema ancor più spinoso è quello delle materie prime critiche per la produzione di batterie. A causa della transizione energetica (non solo quella dell’automotive), negli ultimi anni litio, cobalto, nichel, grafite e terre rare ( di cui abbiamo appena scritto su Guerredirete.it, ndr) hanno assunto un’importanza strategica simile a quella del petrolio o dell’acciaio.
L’approvvigionamento, la raffinazione e la lavorazione di questi materiali
sono oggi al centro di una corsa globale, in cui le geografie della potenza economica
si stanno rapidamente riorganizzando. Anche in questo caso la Cina si è mossa
con grande anticipo. A partire dai primi 2000, Pechino ha investito nello
sviluppo di una filiera completa e integrata della mobilità elettrica, dalla
proprietà delle miniere all’estero (in Africa, America Latina e Australia),
fino alla raffinazione dei minerali, alla produzione di celle per batterie, e
infine alla progettazione e vendita di veicoli completi. Aziende cinesi
specializzate in batterie per EV, come CATL, e produttori di veicoli elettrici
come BYD e NIO non solo dominano il mercato domestico, ma stanno
progressivamente espandendo la loro presenza internazionale, soprattutto
in Europa.
A oggi, la Cina raffina oltre il 60% del litio globale, il 70% del cobalto, e quasi
il 90% delle terre rare, numeri che ne fanno un attore
insostituibile in tutte le fasi della catena del valore dei componenti decisivi
di un’auto elettrica, ovvero quelli elettronici, magnetici e chimici usati
all’interno di software, sensori, motori e batterie. Questa concentrazione
rappresenta un punto di vulnerabilità per le case automobilistiche non cinesi,
che rischiano interruzioni di fornitura critiche. Non è quindi un caso che –
già prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca – proprio il tema della
“terre rare” sia finito al centro delle trattative sul commercio tra Cina e Stati Uniti.
Proprio le trattative tra blocchi economici in risposta alla minaccia dei
dazi di Trump ci ricordano che, come molti altri settori strategici, negli
ultimi anni anche quello dell’automotive ha assistito a un prepotente ritorno
degli Stati nella regolazione della vita economica e industriale. L’avvento
della mobilità elettrica sta riportando al centro del dibattito concetti come
“sovranità tecnologica” e “politica industriale”, costringendo governi e
istituzioni a confrontarsi con il fatto che la competizione globale non si
gioca più solo sul mercato, ma sulla capacità di presidiare le filiere
produttive. Si tratta di una materia in continua evoluzione, complessa e
altamente tecnica, che spesso i governi faticano a comprendere appieno. In
molti casi, mancano sia le informazioni aggiornate che le competenze per
analizzarla con la precisione e la profondità necessaria.
La geopolitica della mobilità EV si muove infatti lungo coordinate
altamente mobili, in cui innovazione tecnologica, instabilità internazionale e
politiche pubbliche interagiscono in modo non lineare. Per questo, la vera
posta in gioco non è solo industriale, ma cognitiva e culturale: la capacità di
capire per tempo quale traiettoria tecnologica emergerà come dominante (che,
retrospettivamente, è la ragione dell’attuale vantaggio cinese).
Uno scenario cruciale per il futuro riguarda, per esempio, l’evoluzione
delle batterie. Se le tecnologie allo stato solido, oggi in fase avanzata di
sviluppo presso aziende come Toyota, QuantumScape e CATL, dovessero arrivare
alla maturità industriale nei prossimi 5 anni, si assisterebbe a una vera
discontinuità tecnologica: densità energetica superiore, tempi di ricarica più
brevi, minore infiammabilità e, soprattutto, una diminuzione della dipendenza
da materie prime come litio e cobalto. Questo ridurrebbe l’influenza dei paesi
oggi dominanti in queste risorse, ma potrebbe farne emergere altri (tra cui
Giappone e Corea del Sud, tra i più avanzati nello sviluppo di batterie allo stato
solido), a dimostrazione di quanto la partita dell’EV, e la sua traiettoria
evolutiva, sia tutt’altro che chiusa o definita, come invece la raccontano
tanto gli entusiasti quanto i detrattori.
L’autore di questo articolo ha pubblicato da poco proprio un libro sul tema
automotive: Velocissima).
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