Dall’Europa all’India, dalla Cina alla Russia. Le disuguaglianze economiche crescono ovunque da decenni. La quota di reddito che finisce in tasca al 50% più povero della popolazione mondiale è in calo dal 1820, mentre quella del 10% più ricco aumenta. Negli Stati Uniti, tra il 1989 e il 2021 la retribuzione dei top manager è salita del 1.460% mentre quella di un lavoratore medio appena del 18%. Un manipolo di miliardari detiene la stessa ricchezza della metà più povera dell’umanità. Ma non per tutti la voragine che separa l’1% più facoltoso da tutti gli altri è un problema, una minaccia per la democrazia e per la stabilità sociale. Alcuni la giustificano, altri la celebrano. Con motivazioni trite – la convinzione che il benessere economico individuale sia il giusto trionfo della meritocrazia – o assai più sofisticate: per esempio molti manager di fondi speculativi raccontano a se stessi che fare un sacco soldi nella finanza grazie alle commissioni incassate dai fondi pensione stimola l’imprenditorialità e crea posti di lavoro.
Sono “logiche di accettazione“, spiegano i sociologi Francesco
Duina, docente al Bates college, e Luca Storti ,
professore associato all’università di Torino, in The Social
Acceptance of Inequality (Oxford University Press, 2025),
che legittimando la disuguaglianza ne assicurano la riproduzione. I due
curatori hanno raccolto i contributi di 19 tra docenti e ricercatori europei,
americani, cinesi e indiani, con l’obiettivo di tentare per la prima volta
un’analisi a tutto tondo su quelle logiche. Che siano culturali (la
fede nell’American dream in base alla quale la ricerca del successo
è un valore intrinseco), economiche (le disuguaglianze sono
effetti non voluti di processi economici nel complesso positivi), etniche (chi
appartiene a un certo gruppo è intrinsecamente superiore) o morali,
le più insidiose perché presuppongono che la ricchezza sia giusta e
meritata ricompensa di un duro lavoro e la povertà il
risultato di incompetenza o pigrizia.
Il risultato è affascinante, anche perché la quota di popolazione che
corrisponde all’identikit dei “difensori delle disuguaglianze” è
minoritaria ma non minuscola: Lucy Barnes, docente alla University
College London, analizzando i dati di 29 Paesi evidenzia che si parla dell’8% del
campione, un segmento trasversale per età, livello di istruzione, reddito e
genere. Anche se in alcune aree la propensione all’accettazione e
normalizzazione è molto più marcata. Cary Wu, professore associato
alla canadese York University, documenta che in Cina, nel 2019, a giustificare
i divari di reddito era oltre il 60% degli abitanti. Mentre nella
Svezia nota in passato per le generose politiche di accoglienza Arvid
Lindh (università di Stoccolma) trova un diffuso sostegno a misure di
welfare discriminatorie nei confronti di migranti.
A calamitare l’attenzione è però il capitolo 3, in cui Megan Tobias
Neely, professoressa associata alla Copenhagen Business School e affiliata
allo Stanford University’s Women’s Leadership Innovation Lab, entra nelle menti
di oltre un centinaio tra manager di hedge fund, venture capitalist e
fondatori di startup tecnologiche tra New York, la California
e il Texas, intervistandoli e seguendoli ad eventi e incontri di lavoro. Per
gran parte di loro la concentrazione di ricchezza non solo non è preoccupante,
ma rappresenta una virtù. Per i venture capitalist significa essere in grado di
sostenere imprese innovative che potrebbero cambiare il mondo
(anche se in realtà i capitali si concentrano su app e software rapidi da monetizzare).
O, semplicemente, finanziare infrastrutture e creare lavoro:
un benemerito “trickle down” in un mondo in cui “la maggior parte delle persone
guadagna il proprio salario e poi se lo spende tutto nel corso della vita”. Per
molti manager attivi nei fondi speculativi nel fare “soldi a pacchi” c’è anche
un intrinseco valore morale, visto che oltre a garantirgli un attico a
Manhattan quel denaro arriverà anche – attraverso donazioni – a università, ospedali, ricerca scientifica.
Poco importa se questo concetto di redistribuzione dà per scontato che il molto
ricco possa e debba decidere in autonomia chi è più degno del suo caritatevole
contributo. E ritenga di essere in grado di farlo in maniera ben più efficiente
rispetto a come lo Stato utilizzerebbe i soldi delle sue tasse per
finanziare il welfare, attraverso quello che nelle società moderne
dovrebbe essere il primo canale di redistribuzione delle fortune.
In settori in cui il profilo tipico è “uomo, bianco,
laureato nelle università d’élite”, a esprimere opinioni fuori dal coro sono
quasi solo le donne e i manager non bianchi. Una venture capitalist
afroamericana sottolinea per esempio come i fondi sostengano quasi
esclusivamente startup guidate da uomini bianchi, riproducendo il privilegio.
Una donna impiegata nel servizio clienti di un hedge fund smaschera l’ipocrisia della
filantropia ex post notando che meglio sarebbe ridurre le commissioni, oggi a
livelli stellari, e aumentare così i proventi che vengono girati ai fondi
pensione o alle università che affidano i propri patrimoni con l’obiettivo di
farli fruttare a beneficio di lavoratori e studenti. Ed è un manager
afroamericano a mettere in discussione a sua volta i costi imposti alla
clientela, immaginando che alla fine della catena c’è “un investitore
individuale che ha messo soldi in un piano pensionistico” e a un certo punto
vorrebbe potersi ritirare da lavoro. Mentre oggi spesso scopre di non poterselo
permettere. In tutto il campione, solo in un caso a esplicitare una critica al
sistema è un uomo bianco: impiegato in un hedge fund, definisce “scandalosa e
vergognosa” la tassazione agevolata delle plusvalenze del
comparto e condanna le fughe offshore per evitare le tasse.
Scappatoie, nota, che hanno la benedizione della politica, con cui la finanza
ha relazioni strettissime quanto opache.
Visioni isolate. Ben più rappresentativa l’opinione di Bradley, manager di
un fondo speculativo, che si sente il capro espiatorio di un
problema ben più vasto. “È facile per i media e per voi 99%“,
lamenta, “dire “Guarda casa sua”. Magari è un appartamento da 60
milioni di dollari a New York, o una casa da 40 milioni agli
Hamptons… È molto facile guardare a queste cose e dire: “Guarda che eccesso!
Non è giusto!”. Ma ad essere in torto, dice, è il 99%. In cerca di qualcuno a
cui addossare la responsabilità di decenni di polarizzazione senza
redistribuzione.
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