Shen Yun, il culto che vende la grazia come fosse uno spettacolo. In un
mondo che ha perso la fede ma non la carta di credito.
A chi non è capitato, negli ultimi mesi, di aprire YouTube o Instagram e
trovarsi davanti lo spot di Shen Yun Performing Arts?
Quel carosello di sete colorate, sorrisi estatici e promesse di “un viaggio
spirituale nella vera Cina”, sparato ovunque come se stessero pubblicizzando
l’Apocalisse in 4K.
E poi quella frase, ripetuta con la convinzione di chi ha appena assistito
alla Seconda Venuta:
“Uno spettacolo veramente importante!”
Sembra un trailer della Disney diretto dal Dalai Lama dopo una settimana di
ayahuasca.
Tutti estasiati, tutti redenti, tutti con lo sguardo di chi ha appena visto
la luce – o, più probabilmente, la fattura.
È la spiritualità del XXI secolo: con biglietto su TicketOne, musica dal
vivo e merchandising incluso.
Ma il problema non è lo spettacolo in sé — i costumi sono splendidi, i
ballerini impeccabili — il problema è il messaggio che passa sotto le pieghe
delle sete.
Dietro la patina di “arte tradizionale cinese” si muove un’operazione
ideologica vera e propria: un culto fondato dal signor Li Hongzhi, un
predicatore che sostiene che l’evoluzione sia un’invenzione aliena, che le
razze si separeranno in paradiso e che l’omosessualità sia un errore cosmico.
Il tutto condito da rivelazioni sul fatto che lui, sì, può attraversare i
muri e rendersi invisibile.
Altro che spiritualità: questa è fantascienza da discount.
Eppure, milioni di spettatori nel mondo assistono in silenzio, applaudono,
si commuovono, si convincono.
Perché l’illusione del “ritorno ai valori tradizionali” è potente, specie
in un’epoca che ha svuotato di senso tutto il resto.
Ci siamo disabituati alla verità, e così ci bastano quattro proiezioni
colorate per scambiare la propaganda per arte e la fede per intrattenimento.
È la religione del capitalismo spirituale: preghi, ma pagando; mediti, ma
su prenotazione; ti elevi, ma solo se hai il posto in platea.
Intanto, gli organizzatori si presentano come i custodi della purezza
morale contro la “decadenza del mondo moderno”, mentre vendono biglietti da 80
a 150 euro nei teatri più borghesi d’Europa.
Predicano l’ascesi, ma a prezzo pieno.
E i teatri, i giornali, le istituzioni? Zitti.
Perché quando la fede porta incasso, nessuno osa chiamarla setta: diventa
“evento culturale”.
A dicembre arriveranno persino al Teatro Regio di Torino, la mia città:
quella dove un tempo si facevano rivoluzioni operaie e oggi si ospitano
liturgie orientali sponsorizzate sulle piattaforme web.
E tutto questo in una Torino che, intanto, affoga nel degrado urbano, nello
sfruttamento, nella povertà crescente e in una nuova schiavitù del lavoro che
passa anche attraverso l’immigrazione mal pagata e senza diritti.
Non è razzismo, è realtà: se un operaio bengalese lavora dodici ore a quattro
euro l’ora, anche un italiano finirà per accettarne cinque.
È così che muore il vero laburismo — non per colpa dei migranti, ma per chi
li sfrutta mentre predica l’accoglienza.
C’è qualcosa di profondamente tragico in questo bisogno collettivo di comprarsi
la purezza.
Abbiamo trasformato la fede in un’esperienza premium, la grazia in un
evento da prevendita.
Ci raccontano che basta un costume di seta e un violino cinese per
ritrovare l’anima, e noi ci crediamo — come sempre.
È la fame di senso di un mondo che non crede più in nulla, ma ha ancora
bisogno di sentirsi buono.
Ed ecco che, in mezzo alle macerie morali di un Paese stanco, si cercano
miracoli nel posto sbagliato: sul palco, tra gli applausi, sotto le luci.
Ma se il divino esiste ancora, di certo non danza per 80 euro a sera.
E di sicuro non ha bisogno di un coreografo.
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