Non sarà
facile abbandonare i pregiudizi, i fantasmi e le illusioni che guidano ancora
il nostro comportamento. Ma forse, chissà, non c’è altra scelta che provarci.
Non è stato
facile costruirli. Lo Stato-nazione, come forma politica del capitalismo,
è stato creato sostituendo credenze e convinzioni basate su tradizioni
ancestrali ed esperienze quotidiane con nuove costruzioni astratte. Sebbene
vi fosse resistenza ovunque, si riuscì a creare, spesso con la forza,
individui omogenei senza genere – il cittadino, l’homo economicus –
subordinati alle nuove strutture. La gente assunse un profondo impegno
personale nei confronti dell’individuo in cui ognuno veniva trasformato e
gli si infuse qualcosa di più di una semplice sottomissione: si generò
un amore appassionato per la cosiddetta patria, nel cui nome si poteva fare
ogni sacrificio, compreso quello della vita.
Con il
tempo, quel progetto acquisì l’aggettivo “democratico”, che significava
due cose. Che la “democrazia” fosse più apparente che reale, cioè che i
cittadini, il
popolo, avessero l’illusione di governare la società, attraverso i
loro rappresentanti, anche se in realtà il governo restava sempre nelle mani di
un’élite politica ed economica che lo teneva sotto il suo controllo. E che
questa parvenza democratica, inoltre, avrebbe potuto essere sacrificata,
qualora fosse necessario farlo per mantenere il dominio di quell’élite e quindi
il funzionamento del capitalismo.
Oggi sembra
sorprendente che gran parte della popolazione abbia aderito pienamente a tutto
questo. Molte persone continuano a difendere con fermezza la loro condizione
individuale e i “diritti” che le si associano. Credono nella cosiddetta
“patria”, nonostante la sua impronta patriarcale; rimangono pronti a difenderla
e a lottare per essa. È difficile, fino ad oggi, mettere in discussione
la sua esistenza, mostrare che manca di realtà. E credono anche nel
regime di rappresentanza, come forma più appropriata di “governo del popolo”.
Tutto ciò è
stato influenzato dalla convinzione generale che “il potere” sia là in alto.
Che l’importante sia conquistarlo. “Prendere il potere” è stata la parola d’ordine
dei riformisti o dei rivoluzionari di tutto lo spettro ideologico. Che si
utilizzi la violenza della guerriglia o i mezzi pacifici, la lotta dei partiti
o i colpi di mano, quel che conta è controllare l’apparato in cui si
concentrerebbe il potere. Poche persone si rendono conto che il potere
non è qualcosa che alcuni detengono e altri no, qualcosa che può essere
“preso”, “conquistato” o “distribuito”. Il potere è una relazione. Coloro
che “detengono” potere lo ricevono da quelli sui quali lo esercitano… che
possono ritirarlo in qualsiasi momento. Governare non è comandare, come
fanno coloro che il potere lo hanno perso e quindi impiegano la polizia e
l’esercito. In questo modo, si può distruggere un popolo, ma non governarlo.
Risulta
molto difficile continuare a sostenere i pregiudizi, le illusioni e i fantasmi
che hanno reso possibile l’espansione del capitalismo (e che sono stati applicati
perfino ai cosiddetti esperimenti socialisti) ai livelli in cui siamo arrivati
oggi. Vale a dire quando tutti gli apparati di governo, l’azione
capitalista stessa e i dispositivi “democratici” si trovano in aperta decadenza;
quando il mondo in cui tutto questo sembrava funzionare – sebbene sia sempre
stato a beneficio di pochi e a spese di molti – sta cadendo a pezzi intorno a
noi; quando nel mondo intero si impone un autoritarismo travolgente, a volte
mascherato da populismo.
Per
abbandonare tutto questo e iniziare a farsi guidare dalla realtà, dalle
esigenze quotidiane, c’è un impedimento: la sensazione che farlo sia un salto
nell’abisso. Ci hanno modellati in modo tale che l’affermazione secondo
cui i cosiddetti Stati nazionali sono stati smantellati e che i loro governi
già non governano più sembra una provocazione infondata, sebbene si
accumuli ogni sorta di prove logiche ed empiriche per dimostrarlo. Sarebbe pura
follia rendersi conto che quelle prove non sussistono.
È però
altrettanto difficile che si diffonda nella coscienza generale il fatto che sia
diventato particolarmente urgente costruire forme di organizzazione sociale e
politica che mettano in relazione i gruppi, le reti e le organizzazioni,
nei quartieri urbani come nelle comunità rurali, che definiscono le reali
condizioni dell’esistenza.
È di questo
che si tratta oggi, quando rimangono solo le ceneri dei pilastri che
sostenevano le credenze e le convinzioni con cui abbiamo orientato i
comportamenti e le decisioni. Invece dell’inutile tentativo di resuscitare i
morti, oggi dobbiamo appellarci all’immaginazione e alla creatività popolare
per transitare verso la nuova realtà, consapevoli che sono svanite anche le
pietre miliari che delimitavano la strada, le strade.
Nell’osare
aprire gli occhi in questo modo, per fortuna si scoprono tuttavia, ovunque,
iniziative prese a livello del suolo da coloro che da tempo si sono resi conto
di questa situazione. Si trovano per lo più in comunità che non sono mai
cadute completamente nelle illusioni dominanti, che non si sono lasciate
governare dai loro fantasmi e che non hanno condiviso i loro pregiudizi.
Quelle
iniziative e quelle persone non pretendono di andare sulla Luna o su
Marte. Affrontano
ogni giorno le vessazioni del mercato e dello Stato e subiscono aggressioni
sempre più violente. Però fanno ancora con allegria e
coraggio ciò che deve essere fatto: seppellire ciò che muore e aprirsi
a una nuova era. Adesso.
Fonte: Recuperar el piso, in La Jornada.
Traduzione a
cura di Camminardomandando.
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