Scriverò in queste righe del razzismo dimenticato, non lasciatevi ingannare dal fatto che il racconto sia ambientato in un circuito automobilistico di Formula 1.
Tutto vero,
non c’è nulla di inventato.
Piercarlo
Ghinzani oggi ha 69 anni. Quand’ero un ragazzino lo seguivo sempre con molta
simpatia. Corse buona parte dei Gran premi degli anni Ottanta sull’Osella, una
monoposto quasi artigianale sfornata da un costruttore piemontese. Tanta
passione, pochi soldi. La bellissima storia, molto romantica, di Enzo Osella,
un meccanico di provincia che reclamava il suo francobollo di spazio tra i
giganti dei motori.
Al via
Ghinzani era sempre in fondo allo schieramento e di rado la sua auto vedeva la
bandiera a scacchi. In tutta la sua carriera, il miglior risultato fu un quinto
posto conseguito nel circuito di Dallas in condizioni estreme: le altissime
temperature di quel fine settimana texano resero la gara una prova di
resistenza fisica, più che di velocità. Eppure Ghinzani, bergamasco, era stato
un eccellente pilota nelle categorie inferiori, capace di battere avversari che
poi si sarebbero imposti nella massima categoria. Ma in Formula uno non bastava
il talento per scalare l’Olimpo.
Domenica, 7 aprile del 1984. Piercarlo e l’Osella sono ai box del circuito di
Kyalami, autodromo sudafricano alla periferia di Johannesburg. E’ il Sudafrica
dell’apartheid, della segregazione razziale, del Mandela in catene in un’isola
sperduta. Ma la Formula 1 dei divi del volante non si interessa di queste
violenze, almeno fino al 1986, quando il boicottaggio toglierà Kyalami dal
calendario del campionato.
Siamo alla
mattina del Gran Premio e Ghinzani scende in pista per il warm up, la sessione
di prove in cui il pilota prova la macchina in condizioni da gara, testando
l’assetto scelto per la partenza.
Nell’affrontare
una delle curve più veloci della pista, la Jukskei, la Osella ha un sussulto,
probabilmente per il cedimento di una sospensione. In quel tratto Ghinzani
viaggia a circa 260 chilometri orari e tiene le chiappe su un serbatoio
caricato con duecento litri di benzina, quanta ne occorrerebbe per terminare il
Gran Premio del pomeriggio. L’auto si schianta contro le barriere e si spezza
in due. Su internet trovate una foto che spiega tutto: il bolide è un rottame
carbonizzato di cui si riconoscono abitacolo, roll bar e due ruote anteriori
sghembe.
Già,
carbonizzato. La Osella ha preso fuoco e Ghinzani, svenuto e stretto dalle
cinture di sicurezza al posto guida, è destinato ad una morte orribile. Ma
corrono verso l’auto in fiamme dei commissari di percorso. Uno, un nero, si
butta in mezzo all’inferno a suo rischio e pericolo, sfida le temperature e
sfila le cinture di sicurezza dal corpo inanimato di Ghinzani, lo estrae di
peso dalla stretta cabina di pilotaggio e lo trascina lontano dal rogo.
Ghinzani è
vivo. Malconcio, ma vivo. Lo portano in elicottero in ospedale, dove resterà
per i venti giorni necessari a curare ustioni ed altre ammaccature. Gli
raccontano quel che è accaduto e come è stato salvato da una fine certa.
Chi ha conosciuto l’automobilismo di quegli anni sa che Piercarlo Ghinzani è
anche una persona perbene. Appena esce dall’ospedale, chiede all’organizzazione
del circuito il nome del commissario che gli ha salvato la vita. Lo ottiene e
ottiene anche un indirizzo: è un nero e, come tutti i neri del Sudafrica, vive
in un sobborgo, ai margini della città. Ghinzani e alcuni collaboratori
decidono di andarlo a trovare, come minimo per ringraziare l’uomo cui si deve
la salvezza. Come fanno le persone perbene.
Arrivano in
auto nel quartiere, trovano la casa, bussano alla porta. Apre un tizio di
colore, al quale Ghinzani chiede di poter parlare col signor X. Quello sbarra
gli occhi e scappa via come impazzito, piantandoli lì e correndo via lontano.
Ghinzani non capisce, ci resta male. Poi racconta tutto e gli spiegano quel che
spiegabile non sembra. Quello era un quartiere di neri, dove nessun bianco
entrava mai. Vite e destini erano separati, culturalmente e fisicamente.
L’unica ragione per cui un bianco potesse infilarsi in un quartiere nero era
per accoppare qualcuno, oppure per pestarlo, tantopiù che Ghinzani non era da
solo. Ecco improvvisamente chiaro quel fuggire a gambe levate.
L’uomo nero che aprì alla porta era lo stesso che aveva salvato la vita al
pilota dell’Osella, svenuto dentro quel che restava di un’auto da corsa del
valore di un miliardo di lire. Lui aveva salvato la vita ad un uomo. Non
importava se bianco o nero, povero o ricco, famoso o no. Ma sulla soglia della
sua casa di segregazione non riconobbe Ghinzani. In quel momento era solo un
bianco sconosciuto in un quartiere per soli neri.
Ghinzani non
è mai riuscito ad abbracciare l’uomo cui deve la vita, neppure dopo la fine
dell’apartheid e la liberazione di Mandela. Tra un mese saranno trentasette
anni che lo cerca.
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