mercoledì 16 giugno 2021

Il destino degli animali sfollati nella guerra siriana: una storia ancora tutta da scrivere - Estella Carpi

 

Durante la guerra siriana, che infuria ormai da un decennio, l’attenzione di studiosi, commentatori dei media e attivisti si è concentrata principalmente  sull’esodo degli umani. Più del 60% della popolazione mondiale di rifugiati – oltre il 30% dei quali sono vittime di sfollamenti interni – risiede in Medio Oriente, ed è diventata tale principalmente a causa di conflitti armati su vasta scala. La guerra siriana, iniziata a seguito di una rivolta popolare nella primavera del 2011, ha provocato mezzo milione di morti (Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati), quasi sette milioni di sfollati – il 70% dei quali vive ancora in Medio Oriente – e 14 milioni di persone bisognose di assistenza.

A causa della tragica portata delle perdite umane, il destino degli animali non umani durante la guerra in Siria è stato sottovalutato e qualsiasi accenno  riguardo ad  essa nelle conversazioni informali che ho avuto nel corso degli anni con ricercatori e opinionisti internazionali che si occupano di quest’area geografica, è stato spesso disapprovato o ignorato. Con questo articolo,voglio incoraggiare i lettori ad andare oltre le gerarchie inter-specie, che causano modi di pensare errati, come ad esempio che una specie di per sé sia più o meno importante di un’altra. L’abitudine  di stabilire gerarchie esistenziali tra animali ed esseri umani deriva da una visione antropocentrica degli animali che condividono con noi l’habitat naturale e l’ambiente. In questo senso, la cura degli animali diventa “buona” o “cattiva” in risposta alle nostre abitudini personali, alla nostra cultura e, soprattutto, alla nostra capacità di cura sociale ed economica. In effetti, nelle società occidentali, la cura degli animali, in particolare degli animali domestici, è stata ampiamente associata allo stile di vita delle classi medio-alte, che  desiderano e possono nutrire, prendersi cura e accudire gli animali. Per così dire, la “borghesizzazione” della cura degli animali  (dove quest’ultima è spesso vista come l’assistenza fornita da persone benestanti dotate di tempo e risorse che consentono loro di pensare oltre la sopravvivenza umana) e le reazioni critiche ad essa hanno finito per influenzare il nostro sguardo esterno sul conflitto umano e sulle migrazioni forzate e hanno pericolosamente legittimato l’esclusività dell’assistenza agli umani. Osservare la totalità di questo ecosistema multi-specie di guerra e migrazione forzata rivela una complessità che rimane inascoltata a causa del nostro sguardo antropocentrico.

Gli animali colpiti dalla guerra sono stati discussi principalmente in termini di sopravvivenza umana e sostenibilità, ma con precise eccezioni. Ad esempio, nel 2012, l’agenzia di stampa Reuters  dedicò una galleria fotografica ad animali, come tartarughe e gatti, che cercavano di sopravvivere ai bombardamenti, cercavano cibo in aree quasi spopolate e, a volte, lo ricevevano da gruppi armati che vivevano o occupavano per breve tempo questi quartieri distrutti dalla guerra. Per allargare queste visioni frammentarie, mi concentro sul destino degli animali durante il conflitto siriano e sul loro uso discorsivo e logistico nelle narrazioni di guerra.

L’omissione del destino degli animali nel giornalismo di oggi e  negli studi accademici sui conflitti armati ha portato a ignorare un elemento fondamentale nella vita dei rifugiati che hanno dovuto lasciare la Siria: l’incurabile danno esistenziale causato dalla necessità di abbandonare i propri animali domestici o, per coloro che avevano uno stile di vita rurale, il loro bestiame. In molti casi l’abbandono degli animali –  anche solo di una mucca allevata per il latte o di una gallina allevata per le uova – ha generato dolore e disorientamento emotivo nella vita degli sfollati. Tali abbandoni sono vissuti come un inevitabile sacrificio quando si lascia il paese dilaniato dalla guerra e si costruisce una vita altrove. In effetti, la maggior parte dei rifugiati siriani che ho incontrato nei villaggi del nord del Libano – e che spesso lavorano nelle fattorie libanesi – hanno un background rurale. Ricordano spesso il bestiame che possedevano e come si prendevano cura di loro quando vivevano in Siria. Molti di loro dicono di chiedere regolarmente ai vicini il destino di questi animali abbandonati; la maggior parte degli animali che non sono stati rivenduti  sono morti di disidratazione, fame e malattie.

Nonostante ciò, lo sfollamento  degli animali è stato affrontato solo dal punto di vista della sopravvivenza degli esseri umani e dell’importanza di rilanciare  la produzione agricola siriana, che prima del conflitto faceva affidamento sull’esportazione di bestiame, che rappresentava il 15% della forza lavoro agricola interna. Ma qual è stata la sorte di questi animali? Gli animali domestici, da soma e da fattoria, sono stati spesso uccisi come bottino di guerra, introdotti di contrabbando nei paesi vicini o rubati, spostati, venduti o uccisi sotto le bombe. Di conseguenza, il tasso di proprietà privata del bestiame all’interno del paese è sceso al 60% dall’inizio del conflitto. Molti allevatori hanno dovuto abbandonare la loro professione e il loro stile di vita e lasciare il paese o migrare in altre località della Siria in cerca di nuovi mezzi di sussistenza.

Gli animali e la violenza sugli animali sono stati ampiamente  utilizzati come una strategia di “soft power” per plasmare le relazioni tra attori politici e come uno strumento per guadagnare credibilità nelle comunità locali e internazionali, screditando moralmente i nemici politici. Ad esempio, c’è del materiale mediatico arabo che illustra questa pratica, con video che mostrano i leader della shabbiha – teppisti fedeli al presidente siriano Bashar al-Assad – gettare un cavallo arabo “ purosangue ” ai loro leoni per il cibo, come scritto nel Tweet di un oppositore politico siriano incluso in un articolo di al-Quds. Molti di questi video, accessibili su YouTube, mostrano l’uccisione di bestiame da parte di gruppi armati o il furto di bestiame in alcune regioni siriane. Alcune accuse non sono espressamente rivolte né alle milizie governative, né ai gruppi di opposizione, ma vengono utilizzate come tali per la propaganda politica. Al di là dell’autenticità di questo tipo di materiale mediatico, che è continuamente oggetto di dibattito giornalistico, il trattamento degli animali gioca un ruolo fondamentale nel plasmare la retorica politica di ciascuna delle parti in conflitto. Lo stesso accade con il recente decreto governativo n. 221, con il quale Bashar al-Assad assegna al Ministero dell’Istruzione la direzione del progetto “Protezione degli animali in Siria”.

Come ho scritto in passato, il mantra umanitario della “dignità umana”, secondo il quale ogni vita umana deve essere rispettata e protetta, ha effettivamente messo in luce l’importanza di garantire protezione legale e sociale ai rifugiati. Per quanto lento sia stato a concretizzarsi a livello globale, tale principio ha sottolineato l’importanza per i rifugiati di vedere riconosciuta la propria dignità. In questo senso, la retorica della dignità umana,  molto usata dalla comunità internazionale così come dai gruppi di attivisti, ha finito per ignorare il fatto storico che la guerra provoca conseguenze drammatiche anche ad altre specie. È emblematico che solo un piccolo numero di progetti umanitari (ad esempio, Animals Lebanon) si avvicini agli esseri umani come parte di un intero ecosistema che viene distrutto dai conflitti, sovvertendo quindi attivamente l’antropocentrismo.

Gli animali sono stati a lungo oggetto di dibattito tra le comunità musulmane di tutto il mondo. C’è una convinzione di vecchia data  secondo la quale le società a maggioranza musulmana abbiano poco rispetto per gli animali, il che ha portato gli studiosi a parlare di “ambientalismo islamico” solo in paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito, vale a dire nel cosiddetto “nord globale”. A questo proposito, alcune fatawa (plurale di fatwa) nel mondo musulmano sunnita hanno proibito agli sfollati interni siriani e ai rifugiati di uccidere o mangiare gatti, asini e cani, anche in situazioni di carestia e disagio. Su internet tali fatawa generano ampie discussioni incentrate sui precetti dell’Islam e fungono da spazio di consultazione spirituale, legale e sociale per i credenti. Alcune autorità religiose hanno denunciato l’atto di uccidere e mangiare animali senza un motivo valido, mentre altre hanno consentito l’atto di mangiarli a condizione che questi animali siano già stati uccisi dai bombardamenti. Tuttavia, questa a volte è diventata una pratica comune nell’odierna Siria, a causa delle carestie e delle difficoltà che il conflitto stesso ha causato. Allo stesso tempo, la cura e la fornitura di cibo agli animali, come ai gatti, è lodata e apprezzata da Dio. L’argomento resta un elemento di vivace discussione all’interno del mondo musulmano.

Gli animali che hanno accompagnato gli esseri umani durante  la loro fuga e che hanno condiviso le loro condizioni di migrazione forzata sono spesso ignorati nella narrazione; per esempio, molti rifugiati che hanno attraversato  il confine siriano-libanese  hanno portato con sé pecore, capre e mucche che non erano state vaccinate a causa della loro improvvisa partenza per fuggire dalla guerra, dalla violenza e dalla conseguente povertà. Nel 2011, alcuni rifugiati siriani a Wadi Khaled (nord-est del Libano) mi  dissero di aver attraversato il fiume al-Kabeer a dorso di un asino. Successivamente dovettero abbandonare l’animale perché si era ammalato e non avevano i mezzi per mantenerlo, avendo pagato una grossa somma di denaro ai contrabbandieri.

Tuttavia, il discorso etico alla base della migrazione forzata umana  entra talvolta in contrasto con l’etica ambientale e animale. Le aree in cui i rifugiati si stanno re-insediando sono sottratte alla fauna locale; l’insediamento umano e i metodi di produzione di cibo spesso portano alla deforestazione e all’erosione dell’habitat circostante. Poiché in tali situazioni paradossali, solo una delle due parti vulnerabili può essere protetta all’interno dell’ecosistema, i difensori dei diritti ambientali e degli animali si trovano spesso in tensione con coloro che difendono i diritti umani. È il caso di un milione di rifugiati hutu ruandesi, che nel 1994 si trasferirono nel Parco nazionale Virunga del vicino Congo, dove dieci gorilla furono uccisi dopo che il territorio venne saccheggiato. Analogamente a quanto sta accadendo in Siria, nel caso del Parco nazionale Virunga, i profughi andati a vivere nell’area protetta, considerata patrimonio dell’umanità,  furono accusati di aver commesso violenze contro il territorio. La presenza dei rifugiati inoltre favorisce il caos, e alcune persone approfittano di tale caos per effettuare incursioni, utilizzando la presenza dei rifugiati per passare inosservati. *

Nel contesto del conflitto siriano,  lo spostamento forzato degli animali è una storia ancora tutta da scrivere. Considero importante evidenziare non solo l’uso antropocentrico e violento degli animali in condizioni di migrazione forzata, ma anche il legame emotivo che alcuni profughi avevano con gli animali che hanno dovuto abbandonare a causa della protratta instabilità politica, economica e sociale. Ricordare gli animali fa spesso parte delle storie raccontate dagli stessi rifugiati; in alcuni casi, gli animali spiegano l’attaccamento dei rifugiati e degli sfollati interni alla loro casa in Siria. Per comprendere appieno gli effetti del conflitto e della violenza sugli ecosistemi, è davvero inevitabile svelare queste importanti relazioni tra le specie.

Nelle narrazioni sulle migrazioni forzate,  usualmente si omettono  le storie relazionali con gli animali mentre gli esseri umani, sia rifugiati che attori politici, spesso ricordano o strumentalizzano gli animali nel mondo reale. Finché la biodiversità della crisi rimane inascoltata, anche la nostra conoscenza della “politica del vivere” in condizioni di sfollamento rimane mutilata. In questo senso, interrompere la comprensione antropocentrica della crisi di origine umana non è solo una questione etica, come ci ricordano gli attivisti per i diritti degli animali attraverso le loro  campagne, ma anche intellettuale ed epistemologica.

Note:

Questa ricerca è stata condotta nell’ambito del progetto “Analizzare le risposte umanitarie sud-sud allo sfollamento dalla Siria: viste dal Libano, dalla Giordania e dalla Turchia”, finanziato dall’European Research Council nell’ambito dell’accordo Horizon 2020 Research and Innovation n. 715582.

* Altri usano la presenza dei rifugiati in questi territori come strumento di negoziazione politica. Questo è anche il caso di alcuni siti archeologici siriani; le rovine di Idlib, patrimonio culturale, sono diventate rifugi temporanei per gli sfollati locali, che non riuscivano a trovare luoghi alternativi per la protezione e la sopravvivenza. Il Centro Antichità di Idlib si sta occupando del problema.

 

Estella Carpi è attualmente ricercatrice post-dottorato presso l’Unità di ricerca sulla migrazione, University College London. Ha conseguito il dottorato di ricerca in antropologia sociale presso l’Università di Sydney (Australia), concentrandosi principalmente su umanitarismo, politica dell’identità e migrazioni forzate nel Levante arabo. Dopo aver studiato arabo a Milano e Damasco (2002-2008), ha lavorato come ricercatrice per diverse istituzioni in Egitto, Libano e Emirati Arabi Uniti. Ha tenuto numerose conferenze in Studi umanitari e Analisi dei conflitti in Australia e in Italia.

Trad: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org

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