Analisi su
analisi, ormai quasi una biblioteca di testi, dalle encicliche papali ai libri
alle riviste, ai siti… Niente, non hanno fatto un plissé. Il pianeta è
devastato: il Rapporto del Club di Roma è del 1972 e da allora la situazione
ecologica è diventata drammatica e tra breve, questione di pochi anni, sarà
irreversibile. Nel 1960 eravamo 3 miliardi, oggi, nonostante le guerre e le
epidemie, siamo quasi a 8, e 4 miliardi di persone vivono in aree urbane, altri
2 miliardi sono previsti entro il 2030 (c’è anche chi pensa che il Coronavirus sia stato fatto circolare per
smaltirne un po’…). È stranoto che la biosfera non regge più questa crescita e
che ormai non è più rinviabile una riorganizzazione generale delle nostre
società e del nostro modo di vivere: il lungo ciclo della modernità, dalla
rivoluzione industriale a Reagan e Tatcher al capitalismo e alla finanza
globali, sta schiantandosi contro limiti non politici ma naturali. Eppure c’è
una frenesia di ripartire come se tutto fosse stato (fosse, perché siamo ancora
in mezzo al guado) un inconveniente sanitario.
Noi in
Italia abbiamo sotto gli occhi, e lo sperimentiamo quotidianamente anche nella
nostra carne viva grazie alla malasanità, il disastro delle Regioni, nate male
cresciute peggio. Buon senso vorrebbe che si riconsiderasse tutto il sistema,
almeno quello sanitario: utopistico il solo pensarlo. Abbiamo un governo
ecumenico, con coltelli che volano come nei circhi e nei Luna Park degli anni
Cinquanta. La politica è diventata una maschera grottesca dietro cui si agitano
sordide ombre, losche comparse, qualche raro ingenuo e qualche benintenzionato
che ancora ci crede. I cittadini, se questa parola ha ancora un senso, sono
smarriti, nervosi, confusi, oscillanti tra pulsioni ribellistiche (ma contro
chi?), fatalismo mediterraneo, piccole astuzie emergenti da un passato remoto
incistato nel genoma della specie italica, borborigmi da caffé bevuto fuori dai
bar.
Davvero
pensiamo che ne usciremo con una ripresa della vita e del sistema di prima? Non
avvertiamo dappertutto nel mondo un’irrequietezza, un misto di tensione e di
smarrimento, come una leggera ma persistente vibrazione del terreno su cui ci
si trova a camminare? La stessa frenesia di ritornare alla vita di sempre non
ricorda i finti e nevrotici scintillii da Belle Époque?
E d’altro
canto dov’è oggi un’improbabile Jenny dei pirati? E come è possibile opporre
resistenza, anzi resilienza come si usa dire, senza una politica, un qualcosa
che non sia soltanto traffico opportunistico e/o malavitoso o svolazzo
elettronico?
Non ho
risposta. O meglio: mi rispondo flebilmente, con una convinzione tremula ma
tenace. Non arrendersi. Testimoniare che delle possibilità esistono. Compensare
la fragilità con la testardaggine. Dare spazio agli utopisti, anche quando ci
sembrano velleitari. A esempio a Maurizio Pallante e al suo Ultima
chiamata, Lindau: una prima parte di straordinaria sintesi dedicata alla
nascita storia e catastrofe della modernità occidentale, una seconda ricca di
proposte di ipotetica riorganizzazione secondo un progetto di decrescita.
Difficilmente realizzabile in tempi brevi ma pur sempre ricco di spunti e di
suggerimenti per un’alternativa.
Il problema
è come fare “rete” tra le varie iniziative, non solo italiane, rispettandone
fisionomia, storia, progetti. Come utilizzare la rete per collegamenti e
“rimbalzi”; o anche per tener viva un’effervescenza che possa mettere radici in
luoghi diversi senza disperdersi o demoralizzarsi. Orgogliosi come Achille e
tenaci come Cassandra. Non otterremo granché, ma almeno resteremo vivi, fosse
anche solo per testimoniare la possibilità di un’utopia.
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